Il burattino di Pontida

Berlusconi regge con la maggioranza che è riuscito a coagulare intorno a sé, in un modo o nell’altro. Bossi risponde: “nulla è scontato”. Da dieci anni il Senatùr è un burattino che cerca di nascondere la mano di chi lo muove.

Pontida e i “penultimatum” della Lega

Non c’è che dire. Il cielo azzurro, il sole sfolgorante e il soffio di una dolce brezza di montagna hanno portato bene a quanti hanno trascorso il fine settimana al mare o in montagna. Ha portato male ai leghisti di Pontida, i quali si aspettavano di festeggiare il bel tempo con l’imminente caduta del governo Berlusconi ad opera di Umberto “il Giustiziere” e invece son rimasti a bocca asciutta. Hanno masticato amaro quanti speravano in un gesto risolutivo.

Il capo e i colonnelli ce l’hanno messa tutta per convincere la folla che la Lega di lotta non è ancor spenta. Musiche tratte dal film Braveheart, la voce tonitruante di uno speaker esaltato, parole di sostegno nei confronti degli artigiani e degli allevatori, promesse di riscrittura del patto di stabilità per consentire ai sindaci dei Comuni virtuosi di poter spendere le risorse accumulate in anni di buona amministrazione. Peccato che una parte della base, stufa di esser presa in giro dopo anni di bugie sul “federalismo fiscale”, non ne voleva sapere di false promesse.

La novità stava tutta in un foglietto distribuito ai militanti che nelle intenzioni degli organizzatori doveva suonare come un ultimatum all”amico Berlusconi’ e all”amico Giulio’. Intendiamoci. Un partito ridotto ormai a una larva se non alla caricatura della Lega dei primi anni Novanta, più che ultimatum oggi può rivolgere timide suppliche al principe di Arcore. Nulla di strano se un giorno si scoprisse che le richieste da “penultimatum” sono frutto di una stesura a tavolino tra l’amico Silvio, l’amico Giulio e il club ristretto Bossi-Calderoli-Maroni-Castelli in uno degli ultimi vertici di Arcore. Un programmino, quello contenuto nel “penultimatum”, di cui presto non si sentirà parlare che in qualche osteria della fascia pedemontana tra Como e Treviso. Insomma, chi sperava nel botto – la rottura con Berlusconi –  è rimasto deluso. Eppure, bastava leggersi il bel volume di Leonardo Facco, Umberto Magno. La vera storia dell’imperatore della Padania (Reggio, Aliberti 2010), per capire cosa sia diventata la Lega in quest’ultimo decennio.

Tra le varie richieste presentate a Berlusconi, il Senatùr ha rilanciato il tema dello spostamento dei ministeri da Roma. “Tre dicasteri a Monza, uno a Milano” ha detto Bossi rivolgendosi alla folla dei suoi aficionados. Intendiamoci. Di quali uffici si tratti nello specifico, nulla è dato sapere. L’unica certezza è che alcune scrivanie del suo ministero “senza portafoglio” (quello “per le Riforme e per il Federalismo”) verranno trasferite nella Villa Reale di Monza.

Diciamo la verità. Ieri si son viste le comiche. Il Capo e Calderoli, assisi sul palco, mostravano alla folla la targa sfolgorante del nuovo ministero brianzolo portata da un inebetito quanto ossequiente sindaco di Monza; il quale, atteggiandosi con un certo spirito di sudditanza e devozione nei confronti del Capo, ha perfino estratto dal cilindro la chiave che – stando alla sue parole – consente l’accesso alla Villa Reale; una vera e propria chiave magica destinata ad aprire le decine di porte del maestoso edificio.

Già mi par di vedere rigirarsi nella tomba l’arciduca Ferdinando d’Austria figlio dell’imperatrice Maria Teresa, che nella seconda metà del Settecento riuscì a convincere la madre a finanziare la costruzione della magnifica reggia nella campagna brianzola. Mi chiedo: come può la villa costruita dal grande Piermarini ove vissero arciduchi e arciduchesse, viceré e viceregine, re e regine, simbolo del potere politico di un potente Stato regionale nel Nord Italia, come può esser ridotta a misera dépandance di un ministero romano, per giunta “senza portafoglio”? Misteri della politica, enigmi dell’oscurità bossiana.

La morale è che il decentramento dei ministeri sarà l’ennesima boutade destinata ovviamente a non essere realizzata. Peccato. Tale proposta, se inserita in un piano di riforma autenticamente federale, non sarebbe poi così campata per aria. Negli Stati federali gli uffici dei dicasteri sono diffusi sul territorio. La ragione è presto detta. In un ordinamento federale non esiste la concentrazione del potere nella Capitale, perché in una Federazione le Capitali sono molte e diverse, come molti e diversi sono gli Stati membri del patto confederale. Il guaio è che la proposta leghista, nei termini in cui è stata formulata, ha l’aria di una richiesta improvvisata, buttata lì per non deludere i militanti. Una proposta in fin dei conti assai poco credibile. Come si può pensare di concentrare a Monza tre dicasteri? Che senso può avere? Monza merita forse tanta importanza rispetto alle altre città del Nord Italia e della penisola? Perché non pensare invece di spostare alcuni ministeri nelle città che furono un tempo antiche Capitali di Stati regionali? Milano, Torino, Venezia, Parma, Modena, Bologna, Firenze, Roma, Napoli, Palermo? Lo scrissi su questo blog or è quasi un anno. 

Eppure, a sentir le reazioni del sindaco dell’Urbe Gianni Alemanno, della governatrice del Lazio Renata Polverini, del leader dell’Italia dei Valori Antonio Di Pietro e di buona parte della sinistra, sembra che il federalismo sia estraneo alla cultura di questo Paese. A me sembra che molto debba ancora esser fatto. La ragione suggerisce di essere ottimisti. La lezione dei fatti italiani – come direbbe Machiavelli – induce a un moderato pessimismo.