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Un coraggioso impiccato nella Milano del ‘700

In questi giorni ricorre l’anniversario di uno strano caso di condanna a morte che ebbe per protagonista un ex religioso, Carlo Sala. Originario dell’antico comune di Casletto – oggi frazione di Rogeno – non molto lontano da Erba in Brianza, Sala proveniva da un’agiata famiglia di proprietari terrieri della zona. Dopo la morte del padre Fermo, fu costretto a farsi frate dallo zio Giuseppe, che riuscì a concentrare nelle sue mani il patrimonio del fratello defunto escludendone i nipoti.

Il suo noviziato avvenne a Milano nell’ordine francescano. Acquisito il suddiaconato con il nome di frate Bonaventura, nel 1756 fu trasferito a Domodossola, il cui territorio da pochi anni, in seguito alla guerra di successione austriaca, era stato staccato dal Ducato di Milano e aggregato al Regno di Sardegna. Lì rimase fino al 1764, quando fuggì dal convento facendo perdere le sue tracce.

In realtà, noi sappiamo che Sala rientrò poco tempo dopo nel Ducato di Milano e, tornato al suo paese, rubò 2665 lire dalla cassa di famiglia per avere la parte di patrimonio che reclamava. In una lettera allo zio riportata da Giovanni Biancardi nell’Introduzione a un bel libro ove sono pubblicate le lettere dei fratelli Verri sul caso Sala, il religioso così giustificava il furto dei soldi:

Ricordatevi…che io non ho preso della vostra robba, ma della mia, e che tant’altra me l’avete fatta gettar a male voi per soddisfare a’ vostri Capricci di volerci tutti Fratti [sic!], quando né tutti son fatti per fare il Frate, né tutti per fare il Prete, e di tanti, che ne sono nelle Religioni nemeno la metà si è fatto volontariamente, ma tutti chi per un motivo, chi per un altro.

[Pietro e Alessandro Verri, Un illustre impiccato, Il Muro di Tessa, Milano 2007, dall’Introduzione a cura di Giovanni Biancardi, pp.12-13].

Sala si trasferì quindi a Cremona dove, gettata la tonaca alle ortiche, si sposò, ebbe dei figli e lavorò come commerciante di libri aprendo una bottega sotto il falso nome di Alessandro Barni. Arriviamo così ai primi anni Settanta, quando possiamo dire che l’ex religioso conducesse due vite parallele, entrambe fuorilegge: la prima perché contestava apertamente la religione cattolica, che a quei tempi era protetta dalle autorità del Ducato di Milano come avveniva nell’Europa cristiana d’ancien régime; la seconda vita era parimenti fuorilegge perché caratterizzata da furti ai danni del prossimo.

Oltre a vendere libri proibiti, Sala teneva discorsi in pubblico per convincere amici e colleghi ad allontanarsi dalla religione cattolica. L’ostilità verso i preti e i frati si era formata in lui con ogni probabilità all’epoca in cui era stato costretto ad entrare nell’ordine francescano. Rubò suppellettili e arredi sacri in molte parrocchie del Ducato: ad esempio a Lambrate, a Castellanza, a Usmate, a Tradate, a Villa Pizzone. Il suo odio per la religione si spinse fino alla profanazione delle ostia consacrate.

L’arresto avvenne a Brescia, che si trovava a quei tempi nella Repubblica di Venezia, nella primavera del 1774. Incapace di fornire alle autorità una spiegazione credibile sulla provenienza della merce che portava con sé, Sala fu detenuto in quella città per alcuni mesi. Consegnato alle autorità milanesi il primo maggio 1774, confessò di aver compiuto trentotto furti.

Il libraio brianzolo venne condannato a morte con sentenza del Senato di Milano il 23 settembre 1775: la pena capitale consisteva – com’era consuetudine per i ladri –  nell’impiccagione, preceduta da tre colpi di tenaglia rovente e dall’amputazione della mano.

Vetra nel primo Ottocento
La Vetra in un dipinto del primo Ottocento. A sinistra la basilica di San Lorenzo.

L’esecuzione avvenne due giorni dopo. Lungo il percorso dalle regie carceri alla piazza della Vetra – uno dei luoghi abituali ove erano eseguite le condanne a morte – Sala fu trasportato su un carro e qui torturato dal boia con le tenaglie infuocate.

Lo spettacolo era certamente truce ma è probabile che i milanesi non fossero granché scossi, essendo abituati da secoli alla vista delle torture e dei cadaveri dei condannati esposti in pubblico. La pena di morte era ancora assai diffusa nella Milano settecentesca, segno che i fiochi lumi della ragione accesi dai fratelli Verri, da Beccaria e dagli altri membri dell’Accademia dei Pugni, avrebbero allontanato le tenebre della barbarie solo dopo molti anni.

In un vecchio ma ancora fondamentale studio di alcuni anni fa, Italo Mereu ha dimostrato come dal 1700 al 1767 il numero delle condanne a morte fu di 643, con una media di quasi 10 esecuzioni all’anno (I. Mereu, La pena di morte a Milano nel secolo di Beccaria, Vicenza, Neri Pozza 1988). Nel 1765 – anno della pubblicazione del celebre trattatello Dei delitti e delle pene scritto da Cesare Beccaria – le sentenze capitali furono ben 23, uno dei numeri più alti, al quarto posto dopo le esecuzioni del 1745 (25), del 1750 (34), del 1755 (32).

Eppure, nell’assistere a quella condanna a morte, destò meraviglia nei milanesi la fermezza, il coraggio, quasi l’estraneità al dolore che l’ex religioso Carlo Sala seppe mostrare in quelle ore durissime.

In una lettera del 27 settembre 1775 al fratello Alessandro, Pietro Verri così descriveva la stupefacente esecuzione della condanna a morte.

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Pietro Verri (1728-1797)

Venne l’ora del supplizio, discese e montò sul carro senza il minimo segno di timore; aveva quattro sacerdoti, il carnefice, il fuoco…non aveva il Crocifisso alla faccia, né in mano; con faccia severa e ferma osservava le finestre e l’immenso popolo attonito a segno che non s’udiva una voce per dove passava. La pietà ragionata degli ecclesiastici credo che disponesse perché i colpi di tenaglia rovente fossero dati fortemente. Così fu eseguito: si vedeva un globo di fumo alzarsi, si vedeva il carnefice stringersi nelle spalle e alzar le mani per lo stupore; e non s’udiva un grido, un sospiro del Sala, che poté essere padrone de’ suoi muscoli a segno di non fare il minimo movimento, come se nemmeno lo toccassero. Gridavano i buoni ministri che quello era un minimo ricordo del fuoco eterno a cui si andava a immergere a momenti, che si confessasse e quell’indurato, sempre con un funesto sorriso, diceva di lasciarlo in pace dopo tutte le dispute e non era persuaso. I sacerdoti sul carro erano attoniti e non osavano quasi parlargli, anche per non scomparire in faccia alla moltitudine. Il carnefice credeva o che il Sala fosse un negromante, ovvero che il demonio dovesse comparire alla esecuzione e tremava più assai che il paziente.

Giunto dopo un lungo cammino alla Vetra, scese francamente e con serenità dal carro, contemplò placidamente la forca, si sbarazzò degli ecclesiastici; andò spontaneamente a riporre la mano sul tronco di legno, indicò al carnefice il sito preciso dove si doveva collocare il ferro: non volle che alcuno gli tenesse la mano, osservò come si faceva a tagliarla, si abbassò coll’altra mano per raccogliere la caduta, non diè moto o grido di dolore, osservò attentamente il braccio mozzato, sorrise perché la gallina che se gli doveva applicare era sfuggita alle mani del carnefice; finalmente impaziente ascese da sé la scala e al carnefice stesso, che più volte nel porgli il capestro gli diceva che ancora era a tempo, terminò col dire che si sbrigasse a fare il suo mestiere, diè un’occhiata abbasso e da sé si scagliò. Il carnefice tremava e non poté resistere alla paura di essere portato via dal demonio insieme all’infelice Sala e lo abbandonò che ancora si dibatteva.[…]

Io compiango il destino di un uomo il quale aveva l’anima certamente non volgare e capace del più sublime eroismo: lo compiango, dico, di averla così malamente impiegata. E’ comune agl’inglesi affrontare la morte con coraggio; ma affrontare con eguale coraggio e soffrire con immobilità il dolore, non so se si trovi frequentemente.

Va ricordato che nel Ducato di Milano la tortura fu abolita nel 1784. Negli anni Ottanta cessarono le condanne a morte, sostituite dai lavori alle fortezze (Pizzighettone) o da altri tipi di condanne durissime come ad esempio l’alaggio, che consisteva nel traino delle imbarcazioni lungo le rive dei fiumi in marce forzate che provocavano il decesso per sfinimento.

La pena di morte tornò alla carica in Francia alla fine del secolo, quando la ghigliottina, nei pochi anni del Terrore, uccise tra le 30.000 e le 40.000 persone. Tornò in Italia nella prima metà dell’Ottocento, ben presente negli ordinamenti degli Stati napoleonici e in quelli preunitari. Faceva eccezione il Granducato di Toscana, ove la condanna a morte fu abolita da Pietro Leopoldo di Asburgo Lorena nel 1786.