Quando i Milanesi festeggiavano Sant’Ambrogio armato di staffile…

Il 21 febbraio 1339, nei pressi di Parabiago, le truppe del signore di Milano, Azzone Visconti, si scontrarono contro l’armata guidata dal cugino Lodrisio, deciso a spodestare il parente e ad impadronirsi del potere.

Come si svolse la battaglia?
Azzone poteva contare sullo zio Luchino, ottimo comandante militare. Lodrisio invece era appoggiato dal signore di Verona, Martino della Scala, che gli aveva fornito una nutrita schiera di soldati tedeschi, molti dei quali appartenevano probabilmente all’esercito dell’imperatore Ludovico il Bavaro. Lodrisio era anche conte del Seprio e in tale veste, entrato nel milanese dopo aver varcato l’Adda, si era diretto nei suoi domini per procurarsi risorse e reclutare nuovi armati.

La battaglia di Parabiago, svoltasi sulla neve, fu particolarmente atroce. La vittoria parve arridere inizialmente alla compagnia di San Giorgio: a questo santo, particolarmente diffuso nei paesi nordici, Lodrisio aveva infatti dedicato il suo esercito. I milanesi scelsero invece di inalberare le insegne di Sant’Ambrogio. Insomma, quello che fu in realtà lo scontro di due bande di armati assunse ben presto i segni di una guerra tra santi.
Luchino cadde prigioniero di Lodrisio e, legato a un albero, fu costretto ad assistere impotente allo svolgersi degli eventi. Tuttavia, nel corso della giornata, nuove truppe accorsero in aiuto dei milanesi. Essi poterono rovesciare le sorti del conflitto e annientare il nemico. Secondo l’eminente storico di Milano, Giorgio Giulini,
“In quella terribile battaglia più di tremila uomini, fra una parte e l’altra, e settecento cavalli restarono morti. Due mila e cento cavalli furono presi da’ vincitori, oltre quelli che fuggirono, e quelli che furono rubati. Quasi tutti i militi, che restarono vivi, riportarono qualche ferita”
(G. GIULINI, Memorie spettanti alla storia, al governo ed alla descrizione della città e compagna di Milano ne’ secoli bassi, Milano, Francesco Colombo 1856, vol. V, pag.263).
La storia, come si sa, viene scritta dai vincitori, quasi mai dai vinti. I milanesi, come da manuale, tramandarono gli eventi di Parabiago raccontando che il 21 febbraio 1339 i soldati del perfido Lodrisio erano stati scacciati non solo grazie al valore dei loro avi, ma anche per l’apparizione miracolosa di Sant’Ambrogio, vestito in abito bianco, armato di una sferza o staffile con cui non esitò a percuotere le schiere del traditore di Milano.
Cesare Cantù, nella Grande Illustrazione del Lombardo Veneto, ricordò la curiosa tradizione del 21 febbraio riconoscendo l’incredibile popolarità di quel giorno: “Tanto terrore aveva incusso quella masnada che la battaglia di Parabiago restò nelle tradizioni popolari più viva che non quelle di Legnano o d’Alessandria, e consacrandola col meraviglioso, si disse che Sant’Ambrogio era stato veduto in aria a cavallo collo staffile percotendo gli stranieri”. (C. CANTU’, Grande illustrazione del Lombardo Veneto, Milano, Corona e Caimi, 1858, vol.I., pag. 117).
Nel luogo ove Luchino era stato fatto prigioniero e dove si diceva fosse apparso Sant’Ambrogio, i Visconti fondarono una chiesa dedicata al protettore della città. I signori di Milano stabilirono inoltre che il 21 febbraio le autorità e il popolo cittadino si recassero in pellegrinaggio a Parabiago perché fosse serbata perenne memoria di quell’evento.
Pietro Verri, nella sua Storia di Milano, non esitò a commentare con ironia la festa milanese di Sant’Ambrogio alla Vittoria:
Come mai questo fatto d’armi si rendesse tanto celebre, e come ne’ giorni fausti siasi tanto distinto il 21 di febbraio, e nessuna menzione trovisi fatta del giorno, ben più memorando, 29 di maggio, in cui l’anno 1176 venne totalmente battuto Federico Primo dai Milanesi, potrebbe essere il soggetto d’un discorso. Nel primo caso un ribelle, che non aveva Sovranità o Stati, fu sconfitto da un Principe che dominava dieci Città (Milano, Pavia, Cremona, Lodi, Como, Bergamo, Brescia, Vigevano, Vercelli e Piacenza NdR); nel secondo, una povera Città, che aveva sofferto mali estremi, sconfisse un potentissimo Imperatore che aveva fatto tremare la Germania, l’Italia e la Polonia. Nel primo caso si combatté per ubbidire più ad Azone che a Lodrisio; nel secondo si combatté per essere liberi, o per essere schiavi. Pare certamente che meritasse celebrità assai maggiore la giornata 29 maggio. Ma la fortuna ha molta parte nel distribuire la celebrità. E vero che una nascente Repubblica nel secolo duodecimo non aveva né l’ambizione né i mezzi che poteva avere un gran Principe nel secolo decimoquarto per tramandare ai posteri un’epoca gloriosa. (P. VERRI, Storia di Milano, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, pp.312-313).
Bisogna riconoscere tuttavia che i milanesi non avevano tutti i torti a festeggiare il 21 febbraio con tanta solennità. Essi ritenevano che Lodrisio avesse combattuto per ambizioni personali con un esercito composto in larghissima parte di stranieri (tedeschi e veronesi). Anche Azzone e i suoi parenti combatterono per interessi personali: essi difesero la signoria viscontea in una città che aveva perso ormai le libertà comunali. Tuttavia, diversamente da Lodrisio, Azzone governò Milano come legittimo signore della città, riconosciuto come tale dai milanesi. Per questo motivo la festa di Parabiago venne percepita come una festa autenticamente meneghina.
La difficoltà di recarsi a Parabiago in una stagione che a quei tempi rendeva particolarmente difficili gli spostamenti, indusse San Carlo Borromeo, nella seconda metà del XVI secolo, a riformare il calendario abolendo quella festa. I milanesi continuarono tuttavia a celebrare la ricorrenza, che venne sentita come una vera e propria festa civica. Fu così stabilito che il 21 febbraio, giorno della festa di Sant’Ambrogio alla Vittoria, la processione si svolgesse entro la città di Milano e terminasse nella basilica di Sant’Ambrogio.

La natura non federale del ‘federalismo municipale’

Un buon progetto di autonomia finanziaria dei Comuni che nulla ha però da spartire con il federalismo. Questo il giudizio di fondo che si ricava da una rapida lettura del decreto legislativo sul ‘federalismo municipale’; il decreto, che non è passato all’esame consultivo della ‘bicameralina’ per parità di voti (15 a 15 per il no decisivo del finiano Mario Baldassarri), verrà approvato tra pochi giorni in Parlamento per espressa volontà del governo, deciso a farlo passare con il voto di fiducia.

Quali sono in sostanza le linee di fondo di questa riforma? La normativa inciderà in misura notevole sull’autonomia dei Comuni. Oggi gli enti locali si finanziano potendo contare su proprie fonti di gettito e sui trasferimenti che lo Stato centrale attua in base al criterio della spesa storica. Tale criterio produce spesso inefficienza perché ogni anno i sindaci dei comuni male amministrati incassano la stessa ingente quantità di fondi; i cittadini di quei municipi, non avendo la percezione dei costi effettivi della macchina burocratica locale – costi oggi pagati in larga parte dallo Stato mediante i trasferimenti – non possono esercitare alcun controllo effettivo sulla destinazione di quei fondi. Con ogni probabilità le cose cambieranno sensibilmente con la nuova normativa.

I Comuni, soppressi i trasferimenti dello Stato centrale sulla base della spesa storica, potranno finanziarsi con una serie di strumenti che serviranno a pagare il fabbisogno standard, vale a dire il costo medio dei servizi essenziali che i Comuni dovranno sostenere tanto al Nord quanto al Sud. Il sindaco che vorrà incassare più risorse per garantire ulteriori servizi ai suoi cittadini, dovrà introdurre apposite “tasse di scopo”, il che lascia presupporre che sarà costretto ad operare in modo trasparente di fronte ai suoi amministrati.

La normativa predisposta dal governo ha il merito di decretare l’eliminazione o l’accorpamento di 10 delle 18 forme impositive attualmente esistenti. L’imposta municipale unica (IMU) raggrupperà gran parte delle attuali tasse comunali, a partire dall’Ici sulle seconde case e sugli esercizi commerciali. Val la pena ricordare, a tal proposito, che l’Ici sulle prime abitazioni non verrà reintrodotta come invece chiedevano i finiani.

Il secondo strumento cui potranno ricorrere i sindaci in seguito all’approvazione del decreto sul ‘federalismo municipale’ sarà l’imposta municipale secondaria (IMU2) nella quale verranno raggruppate altre tasse locali. I Comuni potranno poi beneficiare della cedolare secca sugli affitti, il cui gettito è stimato a un livello superore ai 15 miliardi di euro. E’ previsto inoltre lo sblocco dell’addizionale comunale Irpef, la cui soglia, come concordato dal governo con l’Anci (Associazione nazionale dei comuni italiani), non sarà superiore allo 0,4%. Dal 2014 i Comuni italiani, per finanziare la spesa standard, potranno infine ricorrere alla compartecipazione a una serie di tributi statali calcolata su base provinciale: l’imposta sul registro, l’imposta di bollo, l’imposta ipotecaria e catastale, l’Iva per 2,8 miliardi di euro.

Merita infine di essere ricordato che, a partire dal 2011, verrà costituito un fondo sperimentale di riequilibrio della durata di cinque anni: ad esso potranno attingere i Comuni che non saranno riusciti a coprire la spesa standard. Il fondo sarà alimentato dal gettito degli stessi tributi cui attingeranno i Comuni a partire dal 2014 mediante le già ricordate forme di compartecipazione.

Alcuni opinionisti hanno sostenuto che questa normativa finirà con l’aumentare il divario tra i Comuni del Nord e i Comuni del Sud. A ben vedere, se si tiene conto del fondo perequativo e delle varie forme di compartecipazione ai tributi erariali, è difficile pensare che i Comuni dei territori più poveri verranno considerevolmente penalizzati. Occorre invece riconoscere che il decreto del governo ha il merito di rendere più difficili sprechi di risorse pubbliche grazie all’introduzione della spesa standard che annullerà definitivamente l’opposto principio della spesa storica, causa di inefficienza e di spreco di risorse pubbliche.

Non c’è che dire: nel complesso è una buona normativa. Se una critica può esser mossa al governo, bisogna rilevare che il nome con cui è stata definita tale riforma (federalismo municipale) non ha niente da spartire con il suo contenuto, riguardante – come si è cercato di spiegare in questa sede – l’autonomia finanziaria dei municipi e nulla di più. Il decreto legislativo poggia sull’amministrazione finanziaria dello Stato unitario e presuppone l’esistenza di quest’ultima per la sua concreta realizzazione; il che, come è facile intuire, costituisce la palese negazione del federalismo. Nei decreti delegati approvati dal governo o in via di approvazione la fissazione delle imposte (dirette e indirette) e la loro riscossione non è competenza delle maggiori Comunità territoriali, come avverrebbe in un regime federale. Il presidente della Corte Costituzionale Ugo De Siervo in un’intervista del 4 febbraio scorso, nel commentare la legge sul “federalismo municipale” ha rilevato opportunamente il marchiano errore terminologico compiuto dal governo: “il federalismo è un processo di unificazione progressiva di Stati che erano sovrani verso un unico Stato gestore. Che cosa c’entra questo con l’autonomia finanziaria dei Comuni decisa dal Parlamento nazionale? Con il termine federalismo si spaccia ciò che è autonomismo degli enti locali” (intervista a cura di Donatella Stasio per “Il Sole 24 Ore”). Per capire come l’autonomia finanziaria dei comuni possa essere realizzata in un regime autenticamente federale, varrà la pena ricordare il caso della Svizzera, dove la legislazione tributaria dei Comuni, lungi dall’essere competenza della Confederazione, viene regolata in via esclusiva dai Cantoni; la compartecipazione dei Comuni avviene in quel paese con addizionali poste sui tributi cantonali, non sulle imposte federali. Ora, nel sedicente “federalismo municipale” le quote di compartecipazione riguardano i tributi dello Stato, tributi che vengono decisi e riscossi dall’amministrazione centrale. Insomma, a me pare che siamo lontani anni luce dai principi del federalismo.

Il caso Ruby mette a nudo le vergogne degli italiani

In rete sta circolando un breve scritto di Elsa Morante (1912-1985). 
Benito Mussolini è la persona su cui si concentrano le riflessioni della scrittrice. 
Lo riporto integralmente perché mi sembra attuale. 


A seguire, alcune mie considerazioni. 




“Il capo del Governo si macchiò ripetutamente durante la sua carriera di
delitti che, al cospetto di un popolo onesto, gli avrebbero meritato la
condanna, la vergogna e la privazione di ogni autorità di governo. Perché
il popolo tollerò e addirittura applaudì questi crimini? Una parte per
insensibilità morale, una parte per astuzia, una parte per interesse e
tornaconto personale. La maggioranza si rendeva naturalmente conto delle
sue attività criminali, ma preferiva dare il suo voto al forte piuttosto
che al giusto. Purtroppo il popolo italiano, se deve scegliere tra il
dovere e il tornaconto, pur conoscendo quale sarebbe il suo dovere, sceglie
sempre il tornaconto. 



Così un uomo mediocre, grossolano, di eloquenza volgare ma di facile
effetto, è un perfetto esemplare dei suoi contemporanei. Presso un popolo
onesto, sarebbe stato tutt’al più il leader di un partito di modesto
seguito, un personaggio un po’ ridicolo per le sue maniere, i suoi
atteggiamenti, le sue manie di grandezza, offensivo per il buon senso della
gente e causa del suo stile enfatico e impudico. In Italia è diventato il
capo del governo. Ed è difficile trovare un più completo esempio italiano.
Ammiratore della forza, venale, corruttibile e corrotto, cattolico senza
credere in Dio, presuntuoso, vanitoso, fintamente bonario, buon padre di
famiglia ma con numerose amanti, si serve di coloro che disprezza, si
circonda di disonesti, di bugiardi, di inetti, di profittatori; mimo abile,
e tale da fare effetto su un pubblico volgare, ma, come ogni mimo, senza un
proprio carattere, si immagina sempre di essere il personaggio che vuole
rappresentare.” 

Le indagini portate avanti dai pm di Milano nei confronti della vita privata del presidente del Consiglio hanno gettato il Paese in uno stato di turbamento e di profondo disagio. Mai come in questi giorni l’Italia ha dimostrato di essere alla deriva non solo in base ai valori etico morali, ma ancor più sul piano dei principi che stanno alla base dello Stato di diritto europeo liberal-democratico. Perché qui – bisogna esser chiari fino in fondo – a scandalizzare non è tanto la vita privata del presidente del consiglio. A suscitare indignazione è l’indifferenza, il disinteresse, la sostanziale apatia di noi italiani. 





Il popolo italiano non esiste. E’ sempre stata l’invenzione di una minoranza di poeti, intellettuali e politici spregiudicati. Gli italiani non sentono di appartenere a una comunità nazionale perché c’è sempre stata una classe politica  s e p a r a t a  dalla società che ha pensato per loro, che si è occupata di politica facendo – spesso male – quel che loro stessi avrebbero dovuto controllare che fosse fatto bene. Non c’è in Italia una cultura civica. Questo spiega l’apatia, l’indifferenza, il totale disinteresse di larga parte dei cittadini nei confronti della politica, buona o cattiva che sia.


Si può sostenere con relativa attendibilità che in 150 anni alcune minoranze hanno confezionato tre camice di forza per gli italiani: prima lo Stato monarchico (‘parlamentare’ e accentrato), poi lo Stato fascista (governativo e accentrato), infine la Repubblica italiana (parlamentare, decentrata e a tratti ‘autonomista’ ma in realtà partitocratica). Tre regimi imposti dall’alto, tre poteri pubblici nei quali gli italiani hanno recitato quasi sempre il ruolo di comparse: comparse buone in circostanze eccezionali per le manifestazioni in piazza o per le rivoluzioni  (pensiamo alle lotte partigiane combattute contro i nazi-fascisti al centro-nord), ma tenute  rigorosamente lontane dalle stanze del potere, chiamate a intervenire solo nel giorno delle elezioni.


E’ una storia che in fondo risale all’Unità. Prendiamo le leggi di unificazione amministrativa approvate dal governo il 20 marzo 1865 ed estese a tutta la penisola: la camicia, di taglia piemontese, venne fatta indossare ai popoli italiani senza coinvolgere le classi dirigenti, senza chieder loro se le misure fossero adatte alla costituzione naturale dei territori. Il risultato fu scontato: la classe politica ‘italiana’, nel timore di attentare all’Unità nazionale (eterno spauracchio agitato dalla classe politica contro qualunque riforma minacci di intaccare il suo potere), bocciò i timidi progetti regionalisti avanzati da Luigi Carlo Farini e da Marco Minghetti, ingabbiando il paese nel vestito di un nano (il piccolo Piemonte).


Ottantatrè anni dopo: stesso copione. Caduto il fascismo dopo vent’anni di dittatura, i nostri “padri costituenti” emanarono nel 1948 la Costituzione repubblicana guardandosi bene dal sottoporla a referendum. I francesi e gli spagnoli, riottenuta la libertà, agirono in modo diverso e chiesero al popolo di esprimersi con plebiscito sulle Costituzioni repubblicane. Da noi, nisba. Il popolo, chiamato due anni prima ad eleggere l’assemblea costituente, decise soltanto tra monarchia e repubblica. Scrisse a fine ottobre 1944 la Segreteria del Partito d’Azione dell’Alta Italia: “Che importa avere un presidente anziché un re se tutto l’apparato statale è fondato sul principio monarchico dell’autorità che scende dall’alto?” (Lettera aperta della Segreteria del Partito d’Azione dell’Alta Italia al comitato esecutivo del partito dell’Italia centro-meridionale, pubblicata in E. ROTELLI, L’avvento della Regione in Italia, Milano, Giuffré, 1967, pp.45-46). Sagge parole. Quel che avvenne è noto a tutti. Anziché rifondare l’ordinamento repubblicano su basi autonomiste e rendere democratici i Cln regionali, i partiti antifascisti scelsero di conservare l’apparato amministrativo dello Stato unitario. Un apparato amministrativo unitario e centralizzato che i fascisti avevano ricevuto in eredità dallo Stato liberale e avevano perfezionato in base alla logica autoritaria di Mussolini.


Anche negli anni della Repubblica lo Stato italiano continuò ad essere fondato sulla struttura unitaria e centralizzata della sua burocrazia, né valse l’introduzione delle Regioni (avvenuta negli anni Settanta del secolo scorso) a migliorare una situazione che divenne sempre più ingessata, pietrificata, irriformabile. Anzi. Le Regioni, lungi dall’esercitare le funzioni prima detenute da alcuni ministeri dello Stato centrale, finirono con il produrre nuova burocrazia e una congerie di uffici che appesantirono ulteriormente l’andamento dell’amministrazione pubblica.       


I difetti fondamentali che avevano segnato la fine dello Stato italiano nato dal Risorgimento finirono ben presto con il riformarsi inesorabilmente nella Repubblica Italiana. Ancora oggi, tutto viene imposto dall’alto. I cittadini sono concepiti alla stregua di minorenni eternamente immaturi. Basta guardare all’impianto della nostra Costituzione: una Carta fondata sulla centralità del Parlamento (quindi dei politici di professione) e sul ruolo marginale riservato ai cittadini e agli enti territoriali, nonostante la falsa riforma federale. Finché rimarrà questa tara, continueremo ad essere governati da una minoranza legale inevitabilmente staccata dal paese reale. Diciamolo chiaramente e una volta per tutte. Finché sarà in vigore questa Costituzione, l’Italia continuerà ad essere un Paese ove i professionisti della politica detengono il sostanziale monopolio del potere; dove i cittadini, concepiti come pupilli inadatti ad assumersi la responsabilità di decidere sui problemi più importanti, son tenuti lontano dalla politica attiva, condannati ad esprimersi nel giorno delle elezioni, nei casi alquanto rari in cui un referendum abrogativo raggiunga il quorum o nei casi in cui  i parlamentari votino una riforma della costituzione con una maggioranza inferiore ai due terzi.


La Costituzione vigente  concentra gran parte delle funzioni pubbliche negli istituti della democrazia rappresentativa, prerogativa di una classe politica normalmente mediocre. L’intellettuale meridionale Gaetano Salvemini, uno dei grandi interpreti del federalismo,  quando lesse la Costituzione del ’48, intuì con grande lucidità quel che sarebbe avvenuto e non esitò a sostenere che “il presente regime politico può essere definito il fascismo meno  Mussolini più le Regioni” (passo citato in E. ROTELLI, Regionalismo, in «Amministrare», a.XXXIV, n.3, dicembre 2004, pag.349). Non poteva dir meglio e il giudizio resta in larga parte valido nonostante il federalismo all’acqua di rose approvato dal centrosinistra nel 2000 e confermato dagli italiani con referendum.     


Ma, a ben vedere, questa situazione risale alla nostra ‘nascita’ come “Stato-Nazione”: lungi dal costruire una Confederazione di Stati nel rispetto delle piccole patrie facendo dialogare fra loro i popoli italiani (come chiedevano i federalisti cattolici e democratici), si volle cancellare d’un tratto e con violenza inaudita il patrimonio storico giuridico degli Stati preunitari, fondando sullo Stato piemontese il nuovo regime italiano. Si dirà che tale esito era inevitabile vista l’opposizione delle classi dirigenti preunitarie alla politica del Piemonte (Austria in primis). E’ vero. Questo tuttavia non basta a giustificare quanto avvenne in seguito all’unificazione, soprattutto nell’ex Regno delle Due Sicilie. Lo scollamento dei cittadini dalle istituzioni, la cesura tra paese reale e paese legale già presente in parte negli Stati preunitari, si acuì maggiormente con la fondazione dello Stato italiano.


In Svizzera avvenne il fenomeno inverso: la costruzione di un nuovo soggetto politico unitario (la Confederazione elvetica), quantunque fosse avvenuta  in modi e tempi diversi, non portò all’annientamento radicale delle radici statuali preunitarie. In Svizzera i Cantoni tendono ancora oggi ad essere i Cantoni preunitari. Possiamo dire lo stesso per le nostre Regioni? La risposta è evidentemente negativa.


Sempre in terra elvetica, nel 1874, venne introdotto il referendum legislativo per garantire piena voce al popolo allontanando il rischio che la concentrazione di alcune funzioni nella Confederazione rischiasse di produrre il dispotismo partitocratico. Oggi l’autentico federalismo a base cantonale e i referendum (propositivo deliberativi in campo legislativo e costituzionale) garantiscono alla Svizzera una vera democrazia. Beati loro. Noi dobbiamo fare i conti con lo strapotere dei partiti e con uno Stato nazionale inevitabilmente fittizio perché imposto dall’alto.


A voler essere paradossali, Berlusconi ha avuto il merito di mettere finalmente a nudo le vergogne degli italiani. Altro che 150 anni di Unità d’Italia! Il caso Berlusconi dimostra che l’Italia non esiste.


Se l’Italia esistesse e, come vanno dicendo, fosse uno Stato europeo di diritto liberal-democratico, sarebbe stato  impossibile al Cavaliere salire al potere e rimanerci così a lungo. Ma gli italiani, come scriveva bene la Morante, pensano al loro tornaconto, al loro particulare.


Il bene della comunità nazionale non esiste. E’ una sovrastruttura imposta da una minoranza che pensa “amorevolmente” per gli italiani. Il risultato? Una televisione di Stato gestita dai partiti, una stampa in larga parte asservita e due milioni di miliardi di debito pubblico.