Archivi categoria: Unione europea

Le ragioni storiche che pesano sulla Brexit

Un’antica profezia risalente al XIII secolo assegnava agli inglesi una metamorfosi nella loro identità politica che li avrebbe portati a perdere i caratteri terrestri tipici del feudalesimo continentale per assumere i tratti della civiltà marinara. In poche parole era riassunto un singolare destino:

bandiera britannica
La bandiera britannica: nello scudo inquartato, i tre leoni in fila nei due quadranti rappresentano l’Inghilterra, il leone rampante su fondo giallo la Scozia, l’arpa su fondo blu l’Irlanda del Nord

I figli del Leone saranno trasformati in pesci del mare

La profezia si avverò. Gli inglesi (fatta eccezione per l’aristocrazia guerriera), nel Medioevo erano stati soprattutto pastori di pecore la cui lana era venduta nelle Fiandre ove operavano manifatture specializzate nella lavorazione delle stoffe. Nel corso del XVI secolo si trasformarono in “schiumatori del mare”. I Tudor, soprattutto sotto il regno di Elisabetta I (1558-1603), curarono l’allestimento di una flotta d’avanguardia: i velieri a vela quadra, d’invenzione olandese, erano in grado di sfruttare non solo il vento di poppa, ma anche quello di prua. Il destino dei vecchi galeoni, mossi in gran parte dalla forza delle braccia umane, era segnata. Fu l’avvento dei poderosi velieri che, sfruttando il vento di bolina, poterono allontanarsi con più efficacia dalle coste europee e lanciarsi con velocità nella navigazione oceanica alla scoperta di nuove rotte. L’impero britannico, di cui i sudditi di Sua Maestà vanno tuttora orgogliosi nel ricordarne i fasti sette-ottocenteschi, sarebbe stato impossibile senza quella moderna flotta di velieri dotata delle più avanzate tecniche di marineria.

Le conseguenze di questa metamorfosi investirono l’essenza stessa dell’identità inglese, che imparò a convivere con l’insicurezza e l’instabilità tipiche della navigazione. Qual era la differenza tra l’elemento “mare” e l’elemento “terra”? Nel mare, nelle distese sterminate degli oceani, non era possibile tracciare confini, non esistevano spazi da dividere. Una civiltà marinara si fondava sul commercio – per sua natura instabile, aleatorio – ma anche sulla rapina contro le imbarcazioni inermi. Non esistevano diritti acquisiti, diritti da rivendicare in base a una storia radicata nei segni di una civiltà terrestre. Non si poteva vivere con le rendite di una terra i cui cicli produttivi erano regolati dal costante alternarsi delle stagioni. Il mare era il regno dell’ignoto, del pericolo costante, dell’instabilità perenne. Era il regno di nessuno, il regno del bellum omnium contra omnes, in cui l’uomo tornava alla sua natura primigenia di predatore. Gli inglesi, da modesti pastori e valorosi cavalieri, si trasformarono in marinai spregiudicati. Fu l’avveramento della profezia: i figli del leone si trasformeranno in pesci del mare.

Elisabetta I
Elisabetta I, regina d’Inghilterra e d’Irlanda dal 1558 al 1603

Quando i corsari e i pirati – soprattutto inglesi – costituirono una formidabile minaccia per gli Stati europei tra la fine del XVI e la prima metà del XVIII secolo, la metamorfosi dell’Inghilterra era compiuta. I corsari potevano contare su un atto giuridico quale la lettera di “corsa”, in cui era affidata la missione da intraprendere. Per quelli inglesi si trattava di affrontare in piena libertà i pericoli dell’oceano esplorando nuove vie commerciali, liberi di arricchirsi saccheggiando le navi europee a patto che una parte cospicua del tesoro fosse andata ad impinguare le casse della corona. A un ambasciatore spagnolo che aveva protestato contro gli atti della pirateria, la regina Elisabetta rispose nel 1580 chiedendo con grande sense of humour se non era vero che il mare, come l’aria, fosse libero all’uso di tutti.

Scrisse con una punta di amara ironia il giurista tedesco Carl Schmitt in un saggio memorabile del 1954:

da tutti i mari affluivano all’isola britannica i favolosi bottini dei corsari e dei pirati inglesi. La regina si rallegrava di tali tesori e se ne arricchiva. Da questo punto di vista, con tutta la sua verginità non fece niente di diverso da ciò che facevano un gran numero di uomini e di donne inglesi del suo tempo, sia nobili che borghesi. Tutti partecipavano al grande affare del bottino. Centinaia e migliaia di uomini e di donne inglesi divennero in quel tempo corsairs-capitalists “corsari capitalisti”. Anche questo rientra nella svolta elementare dalla terra al mare…

[C. Schmitt, Terra e mare, Adelphi, Milano 2006, pag.48]

In fondo, la natura anfibia degli inglesi (per metà europei, per metà “atlantici”), il loro orgoglioso isolamento, nascono da qui: da un istinto selvaggio, quasi primordiale, alla libertà assoluta che li ha portati a fondare un impero marittimo i cui territori, visti con gli occhi del navigatore, erano relitti dispersi nel mondo oceanico.  Questo fu lo spirito dello Stato britannico, del Leviathan inglese per usare un termine tratto dal titolo di una celeberrima opera di Thomas Hobbes. Questo spiega la politica estera condotta per secoli dagli inglesi, che si sforzarono (con successo) di ostacolare la formazione sul continente di un potere pubblico di dimensioni imperiali: dall’Impero napoleonico al Reich germanico. L’avversione della parte più profonda dell’Inghilterra verso le istituzioni europee ha radici profonde. La civiltà marinara, che ha forgiato in misura indelebile l’identità nazionale inglese caratterizzandola per almeno cinque secoli, ci aiuta a capire il senso della Brexit.

Queste le riflessioni che mi son venute in mente nell’ascoltare il discorso di Cameron pronunciato quattro giorni fa in occasione delle sue dimissioni. Nel commentare il senso della sua decisione, egli si è servito di una metafora afferente al mondo della marineria:

Cameron
David Cameron, Primo ministro britannico

I will do everything I can as Prime Minister to steady the ship over the coming weeks and months but I do not think it would be right for me to try to be the captain that steers our country to its next destination.

“Farò tutto quel che posso come Primo Ministro per rendere stabile la nave nelle prossime settimane e nei prossimi mesi. Non penso tuttavia che sarebbe giusto per me tentare di essere il capitano che fissa la rotta del paese per la sua prossima destinazione”.

Resta da vedere se il Regno Unito riuscirà a tutelare la sua unità politica evitando il distacco di territori i cui cittadini hanno votato per restare nell’Unione Europea: dalla Scozia all’Irlanda del Nord, alla Grande Londra metropolitana. Qualora ciò avvenisse, l’Inghilterra tornerebbe al suo passato di orgoglioso isolamento, nave “corsara” nell’oceano della globalizzazione. Pur nelle contraddizioni e nei limiti tipici del popolo inglese, resta l’amore per una patria che è stata culla delle prime istituzioni liberali e che, per riprendere uno stupendo verso di Shakespeare, resta una “pietra preziosa incastonata nell’argento del mare”.

Macroregioni e Regioni: pilastri del buongoverno in una riforma federale

Recentemente il ministro dell’ambiente, Gianluca Galletti, ha proposto di ridurre il numero delle regioni portandole a 11. Tale riforma viene caldeggiata da una parte dei democratici per ora apparentemente minoritaria. Difatti, oltre a Galletti, non sono molti ad essersi schierati a sostegno di questa proposta. L’unico ad avergli fatto eco è stato il neogovernatore dell’Emilia Romagna, Stefano Bonaccini. A far discutere è stata in particolare l’idea di accorpare la Regione Emilia Romagna con la Toscana dando vita ad un’unica macroregione tosco emiliana. Un’idea certamente originale, che può avere una sua giustificazione nella storia peculiare di quei territori e nello stile di vita degli abitanti.

Galletti e Bonaccini
Il ministro dell’ambiente Galletti e il governatore dell’Emilia Romagna Bonaccini (da Il Resto del Carlino)

Per il resto l’accorpamento interesserebbe almeno 15 delle 20 regioni esistenti. Resterebbero invariate, oltre alle isole, Lombardia, Puglia e Campania. Troveremmo invece quali “macroregioni”, oltre ad Emilia Romagna-Toscana, Piemonte-Liguria-Valle d’Aosta; Friuli Venezia Giulia-Veneto-Trentino Alto Adige; Umbria-Lazio; Marche-Abruzzo-Molise; Basilicata-Calabria.

La fusione delle Regioni rivela una concezione sostanzialmente estranea alle ragioni dell’autonomia: si propone di modificare dall’alto, con provvedimenti decisi a tavolino, l’assetto di enti territoriali la cui nascita è in molti casi antecedente all’attuale ordinamento repubblicano. Penso ad esempio al Trentino Alto Adige-Sud Tirol o alla Valle d’Aosta-Vallée d’Aoste. Cambiamenti nella fisionomia di questi territori non possono essere decisi in via unilaterale dal Parlamento perché le autonomie speciali vennero riconosciute alla fine della guerra con veri e propri trattati di diritto internazionale.

La proposta di costituire le macroregioni accorpando le regioni esistenti non è nuova. La Fondazione Agnelli elaborò nel 1993 un progetto analogo che proponeva 12 regioni. L’unico ad avere introdotto il tema delle macroregioni coniugando l’esigenza della funzionalità amministrativa con le ragioni dell’autonomia e dell’autogoverno è stato però Gianfranco Miglio. Nel suo modello, presentato per la prima volta nel 1994, la riforma degli enti locali si accompagnava a una riscrittura completa della Costituzione in senso federale. Oltre all’abolizione delle province, era proposta la conservazione delle Regioni esistenti che, per un migliore governo del territorio, avrebbero formato tre o quattro macroregioni disegnate secondo criteri afferenti alla geografia economica: una macroregione individuata nella Valle padana (Liguria, Piemonte, Lombardia, Veneto, Emilia Romagna); una nel Centro Italia (Toscana, Umbria, Marche, Lazio) e una nel Sud Italia (Abruzzo, Molise, Puglia, Calabria, Campania, Basilicata). Le 5 Regioni a Statuto speciale sarebbero state salvaguardate. Se vuoi saperne di più, ho trattato questo tema nell’articolo Le tre Repubbliche di Miglio.

Macroregione alpina

Il progetto migliano rivela in larga parte la sua attualità. Un’area rilevante della macroregione padana è stata riconosciuta dall’Unione Europea come parte integrante di una macroregione alpina estesa su un territorio di 450 mila chilometri quadrati comprendente 46 Regioni appartenenti a sette Stati diversi (Francia, Italia, Svizzera, Austria, Slovenia, Germania, Liechtenstein). Le Regioni italiane coinvolte nella macroregione alpina (EUSALP) sono cinque: Piemonte, Valle d’Aosta, Veneto, Lombardia, Friuli Venezia Giulia. A queste si aggiungono le Province autonome di Trento e Bolzano. In base all’accordo di Grenoble, firmato il 18 ottobre 2013, la macroregione alpina sarà oggetto di specifiche politiche europee: le Regioni potranno individuare e finanziare interventi comuni nelle materie dell’ambiente, delle infrastrutture, nonché delle politiche economiche e sociali. La costituzione della macroregione alpina si pone sullo stesso piano di analoghe esperienze portate avanti dall’Unione europea verso territori contraddistinti da lineamenti culturali e geofisici abbastanza precisi: è il caso della macroregione danubiana o della macroregione del Baltico.

Italia 4 Macroregioni copia
L’Italia formata da 9 enti territoriali: 4 Macroregioni e 5 Regioni a Statuto Speciale

Una macroregione padano alpina (costituita dall’unione di Piemonte, Liguria, Lombardia, Veneto) potrebbe essere integrata in un progetto di riforma federale teso non solo a conservare le Regioni a Statuto Speciale ma anche ad individuare le macroregioni sulla base dell’autonomia finanziaria, delle dinamiche geo-economiche, dei caratteri geofisici e soprattutto dei peculiari lineamenti storico culturali risalenti al periodo preunitario.

La macroregione tosco emiliana proposta da Galletti e Bonaccini potrebbe essere una scelta felice a patto che sia integrata in una più ampia riforma federale che preveda, oltre alla macroregione padano alpina, una macroregione del Centro Italia (composta da Marche, Umbria e Lazio e coincidente in via tendenziale con la parte di territorio rimasta più a lungo nello Stato pontificio) e una macroregione del Sud Italia (Abruzzo, Molise, Puglia, Basilicata, Campania, Calabria) ricalcata sulla parte continentale dell’antico Regno delle due Sicilie.

Le Regioni non dovrebbero scomparire. Ad esse spetterebbe l’amministrazione del territorio nelle materie di competenza macroregionale; inoltre i Presidenti delle Regioni, in quanto membri del Direttorio della macroregione, parteciperebbero direttamente a un esecutivo presieduto dal governatore della macroregione eletto direttamente dai cittadini.

Seguendo il modello di Costituzione di Miglio, si potrebbe estendere la forma direttoriale al governo federale che, presieduto da un Presidente della Repubblica eletto direttamente dai cittadini italiani, sarebbe composto dai Governatori delle quattro macroregioni (padano alpina, tosco-emiliana, Centro Italia, Sud Italia) e da un Presidente a turno annuale di Regione a Statuto Speciale.

Lo show di Gheddafi a Disneyland Italia

E’ facile immaginare che il soggiorno a Roma di Muammar Gheddafi finirà per rafforzare ancor più i rapporti economici tra Italia e Libia. Grazie alla stretta amicizia tra il premier Berlusconi e il colonnello libico gli investimenti italiani nel paese africano non potranno che beneficiarne in misura notevole.

Ma le dichiarazioni che Gheddafi ha rilasciato nel corso della sua visita romana hanno provocato serio imbarazzo nell’opinione pubblica italiana e non sembrano agevolare i rapporti diplomatici. Ieri il raìs, intervenendo all’Accademia libica circondato da una folla di ragazze italiane appositamente reclutate dall’agenzia Hostessweb, non solo ha invitato le avvenenti fanciulle a convertirsi all’Islam, ma ha sostenuto che la religione di Maometto dovrebbe “diventare la religione di tutta l’Europa”. In un continente la cui civiltà è radicata fortemente nel cristianesimo, in un paese come l’Italia giardino del cattolicesimo romano, in una Roma antica capitale del potere pubblico pontificio e tuttora sede dello Stato Vaticano, tali dichiarazioni rivelano il tentativo maldestro di irridere la civiltà europea e ancor più la religione cattolica su cui si fonda in larga parte l’identità italiana. Le dichiarazioni rilasciate oggi dal colonnello libico non contribuiscono a gettare acqua sul fuoco. Esse sembrano mostrare addirittura un certo atteggiamento sprezzante nei confronti dell’Occidente. Gheddafi ha chiesto all’Unione europea cinque miliardi di euro in cambio della sua opera di contrasto all’immigrazione clandestina. In caso contrario, ha detto senza mezzi termini il raìs “l’Europa potrebbe diventare Africa, potrebbe diventare nera”.

Qualunque uomo di Stato in visita in un paese straniero si guarderebbe dal rilasciare simili dichiarazioni. Il guaio è che il soggiorno italiano di Gheddafi, lungi dal presentare i caratteri di un viaggio diplomatico, assomiglia terribilmente alla gita spensierata di un turista spaccone in un paese dove tutto gli è concesso. Berlusconi ha grandi responsabilità nell’aver consentito che i rapporti tra Italia e Libia venissero portati fino a questo punto. La tutela dei nostri interessi economici è certamente importante, ma non può venire anteposta al dovere di rappresentare uno Stato europeo come l’Italia.