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La sfida di un’esistenza rinnovata

Gli effetti della pandemia cambieranno non solo i nostri stili di vita e comportamenti, ma anche le stesse forme di convivenza.

In un interessante articolo pubblicato il 20 marzo, Cinque domande aperte sul dopo-Covid, Piero Bassetti ha delineato con grande lucidità gli interrogativi cui dovrà rispondere l’Italia per risolvere nei prossimi anni i problemi collegati agli effetti sociali e civili dalla pandemia. Come l’amico Carlo Alberto Rinolfi, cercherò anch’io di rispondere a tali domande: riprendendo l’insegnamento del professor Giuseppe Lazzati, il quale invitava alla “fatica del pensare”, spero di poter contribuire, sia pur in piccola parte, al dibattito in corso. 

Piero Bassetti, presidente di Regione Lombardia dal 1970 al 1974.

La prima domanda di Bassetti insiste sul conflitto tra le opinioni amplificate a dismisura dai media e, dall’altra parte, le conoscenze scientifiche, le “conoscenze incarnate dalla prassi” (come le chiama lui) le quali rinviano ai progressi impressionanti conseguiti negli ultimi anni dall’innovazione tecno-scientifica. In questi mesi il conflitto è stato lampante: da un lato le fake news, le notizie di complotti nella confezione del virus che, nei giorni del panico, hanno rapito l’attenzione di molti; dall’altro gli interventi degli specialisti, degli infettivologi, dei maggiori luminari della scienza. 

Ai cittadini che vanno in cerca di certezze sul futuro, gli scienziati non danno però risposte definitive. Non possono. Le loro ipotesi si fondano sul metodo della “probabilità” proprio di tutte le scienze, compresa quella storica. Il Coronavirus è piombato nella nostra vita cogliendoci impreparati. Non ne sapevamo nulla e per certi versi ancora oggi non sappiamo abbastanza sulla sua evoluzione. Gli scienziati, grazie agli strumenti tecnologici di cui dispongono, sono stati in grado di studiare in breve tempo questo virus, ma sono anch’essi lontani da una piena conoscenza. Non sappiamo quello che ci attenderà nei prossimi mesi, se vi sarà un ritorno dell’epidemia con il calare delle temperature in autunno. E’ meglio tuttavia seguire i consigli di persone competenti come i medici, piuttosto che abboccare alle facili dietrologie e alle spiegazioni semplicistiche di persone non qualificate.

L’amico Rinolfi sostiene, nel suo interessante articolo La grande riabilitazione, che “sul piano della società globale l’evento pandemico sembra segnare l’avvento di una nuova forma di tecnopolitica più adatta alla società biotecnologica, capace di sospendere e trasformare le libertà individuali assicurando la sopravvivenza in salute e di condizionare l’economia di mercato prevalente”. 

L’attenzione è per una civiltà che torni ad essere rispettosa degli equilibri della natura, in cui i diritti della comunità dovranno essere salvaguardati e posti al di sopra degli interessi dei singoli: il diritto alla salute, il diritto a vivere in un ambiente sano e non inquinato grazie al progresso tecno-scientifico dovrà obbligare i sistemi industriali a riconvertirsi. E’ un quadro che mi sento di condividere in massima parte. Teniamo però in considerazione anche questo: quei cittadini che hanno bisogno di risposte sul futuro non fanno che esprimere domande ai poteri pubblici, domande cui governanti responsabili dovranno rispondere non solo con l’aiuto degli esperti. Servono politiche di lungo periodo perché non basta sopravvivere in salute, bisogna assicurare un futuro sostenibile alle nuove generazioni.

Il secondo tema riguarda il lavoro e la formazione, due realtà che sono state letteralmente sconvolte dall’esplosione della pandemia. E’ evidente che tali ambiti di vita sociale e lavorativa dovranno essere ripensati radicalmente: lo stiamo vedendo in questi giorni di quarantena. Il rischio concreto di perdere il lavoro o di essere costretti a bloccare le attività produttive per ragioni di sicurezza pubblica non dovrà più avvenire in futuro perché si è visto che le conseguenze nell’impoverimento economico del Paese sono devastanti. Nei prossimi anni lo sviluppo delle tecnologie informatiche sarà decisivo nell’implementare su larga scala il lavoro da casa: cambieranno i nostri comportamenti, saremo più legati alle nostre case, che diventeranno “case-lavoro” assai più di quanto non sia accaduto negli ultimi anni. 

Lo stesso riguarderà la formazione: la scuola si dovrà aggiornare. E’ facile immaginare che le lezioni tradizionali continueranno a tenersi negli istituti, non foss’altro che per consentire ai genitori di recarsi al lavoro. Il rischio legato all’insorgere di nuovi contagi costringerà però a ripensare il modo di stare in classe: penso al numero degli alunni nelle varie aule o alla stessa disposizione dei banchi. Già la ministra della pubblica istruzione Azzolina ha rilasciato dichiarazioni che sembrano anticipare provvedimenti che vanno in questa direzione. Credo che si dovrà anche ripensare ai programmi e alle didattiche, aprendo in modo significativo ai sistemi di formazione online, come già sta avvenendo nelle scuole più aggiornate. 

C’è però un altro scenario che si potrebbe realizzare. Lo smart working, se dovesse affermarsi su larghissima scala, consentirebbe in molti casi ad almeno un genitore di restare in casa: questo risolverebbe in parte il problema della didattica a distanza, perché i figli potrebbero assistere in modo proficuo alle lezioni online come avviene oggi. Questo però non è sufficiente perché sappiamo bene che non tutti possiedono abitazioni grandi e non tutti dispongono di una connessione internet. La scuola aperta a tutti continuerà pertanto a basarsi sulla classica didattica nelle aule. E’ facile immaginare che si andrà verso un sistema di istruzione misto: in parte online e in parte classico. 

Il terzo interrogativo posto da Bassetti riguarda il potere. A suo giudizio il virus avrebbe annullato l’antica opposizione che divideva Stati o gruppi umani in base ad interessi di potenza. Il virus li avrebbe resi solidali di fronte all’epidemia. Io non sono così ottimista. Credo al contrario che le reazione dei poteri pubblici più sviluppati di fronte al virus abbia fatto venire in luce i punti di forza e i punti di debolezza dei vari Stati nel mondo; credo che tutto questo abbia rivelato le contraddizioni interne in molti Stati-nazione, soprattutto in Europa. Non si può escludere che la crisi economica successiva alla pandemia, se non gestita in modo prudente e lungimirante dalle istituzioni europee, finirà con il mettere in discussione lo stesso sistema monetario dell’Euro, provocando cambiamenti geo-politici in alcuni Stati del Vecchio Continente. D’altra parte l’ intervento poderoso dell’Europa a sostegno dei paesi più colpiti dall’epidemia dovrebbe consentire agli Stati di riprendersi. L’Italia nei prossimi anni dovrà riconvertire pezzi importanti della sua economia con politiche di largo respiro contro l’inquinamento ambientale. Penso soprattutto all’Italia padano cisalpina, in particolar modo all’area metropolitana milanese e lombarda .  Difatti gli scienziati non hanno escluso che le polveri sottili delle aree più inquinate siano state tra le cause di maggiore diffusione del virus. Saprà l’Italia impiegare con efficacia i fondi che l’Europa sta mettendole a disposizione se permangono le inefficienze nella burocrazia pubblica dello Stato centrale? Riusciremo noi Italiani ad impiegare quei fondi e a non disperderli nei mille rivoli della spesa pubblica improduttiva? 

Bassetti si chiede, nella sua quarta domanda, quali istituzioni potranno meglio governare comunità di cittadini che chiedono alle amministrazioni risposte adeguate ai loro bisogni locali e al contempo si sentono parte della comunità globale grazie ad Internet. “Per effetto dell’innovazione – scrive Bassetti – il bottom up e la rete seppelliscono le certezze della gerarchia, della democrazia rappresentativa, del centralismo democratico, dell’assolutismo di mercato”. Difficile rispondere a questa domanda.

A mio parere i problemi più grandi per noi italiani sono essenzialmente tre: 1. Uno Stato unitario (non-federale) che, fin dalla sua fondazione, ha preteso di governare allo stesso modo comunità territoriali completamente diverse per storia, tradizioni, stili di vita. 2. Un apparato burocratico amministrativo del tutto inefficiente, agli ultimi livelli nelle classifiche internazionali, che in troppi casi non è in grado di fornire ai cittadini servizi pubblici in tempi certi e ragionevoli. 3. Uno scollamento tra cittadini e istituzioni pubbliche che traspare nella scarsa partecipazione alle elezioni politico amministrative e nel fallimento dell’istituto del referendum quale è stato previsto nella Costituzione del 1948. Per queste ragioni, credo che una coraggiosa riforma costituzionale e amministrativa in senso federale e presidenziale sia fondamentale per assicurare il buongoverno del Paese e delle sue comunità. Una riforma che dia maggiore responsabilità ai territori (federalismo) e consenta al contempo ai cittadini un più stretto controllo sulla classe politica (locale, regionale e nazionale) mediante un potenziamento degli istituti di democrazia diretta (referendum abrogativi, territoriali, ma anche propositivo deliberativi senza quorum come in Svizzera). Si dovranno inoltre impiegare le piattaforme informatiche per rendere possibile ai cittadini l’esercizio del diritto di voto da casa in completa sicurezza, come già avviene in tanti Stati nel mondo.

Questo però non basta perché, per cercare di risolvere il secondo punto, occorrono riforme radicali anche nell’impianto generale dell’amministrazione pubblica: sarà fondamentale velocizzare al massimo l’andamento delle operazioni negli uffici portandole ai livelli europei. Un risultato per nulla scontato perché oggi dobbiamo fare i conti con una macchina burocratica che negli anni passati non è stata neppure in grado di utilizzare i fondi europei. Servirà nei prossimi anni una classe politica coraggiosa e incorruttibile, che sappia intervenire in modo chirurgico nell’amministrazione centrale e periferica dello Stato per snellire gli apparati, semplificare leggi e atti burocratici, abbreviare drasticamente i tempi delle operazioni seguendo i migliori esempi europei sul campo. Federalismo per mettere in competizione le Comunità territoriali in cui l’Italia è naturalmente articolata da secoli e porre le condizioni per un miglioramento nel servizio pubblico grazie all’esempio dei migliori. Buongoverno nel potere centrale mediante una riforma presidenziale che dia al governo una completa autonomia per organizzare gli uffici e assicurare la buona amministrazione nei servizi che da esso ancora dipenderanno. Rafforzamento degli istituti di democrazia diretta per rendere più incisivo il controllo dei cittadini sulla classe politica ed evitare che quest’ultima, a tutti i livelli, viva in una dimensione di potere che la separa dalla Società. 

Siamo giunti infine alla quinta domanda di Bassetti, il quale si chiede quali tipi di comunità saranno destinate ad affermarsi al crepuscolo degli Stati-nazione. E’ difficile fare previsioni e da storico, occupandomi di passato e non di futuro, preferisco non inoltrarmi in un terreno ignoto.

La solitudine dell’eroismo civile

Venerdì scorso, presso il Palazzo delle Stelline in Corso Magenta, ho assistito alla presentazione dell’ultimo libro di Umberto Ambrosoli: Ostinazione civile. Idee e storie di una rigenerazione civica (Guerini e Associati, Milano 2016). L’autore è stato intervistato da Daniela Mainini, presidente del Centro Studi Grande Milano, una istituzione che opera da anni mettendo in campo iniziative di grande spessore culturale.

ostinazione civileAl centro del libro di Ambrosoli sono i valori fondanti di una comunità politica. In primo luogo, la legalità, il rispetto delle regole che ha senso nella misura in cui risponde all’utilità sociale, al senso profondo di una comunità. Il titolo del volume, Ostinazione civile, esprime la passione per la buona politica che deve orientare l’agire quotidiano di chi è chiamato a ruoli di responsabilità pubblica. L’uomo pubblico deve agire per il bene comune nell’interesse esclusivo dei cittadini contro la prepotenza dei più forti, che tendono a prevaricare violando le regole per i loro interessi personali. La vera politica è tale nella misura in cui si fa umile servizio, praticata con coerenza per migliorare il benessere della comunità. Ascolto Ambrosoli e mi rendo conto che la sua ostinazione civile è un convincimento profondo, che solleva inevitabilmente il tema del rapporto di ciascuna persona con gli altri.

In un Paese come l’Italia, venato da secolari pulsioni individualiste e corporative contrarie al civismo, Ambrosoli rilancia la missione di educare i cittadini perché lo spirito pubblico prevalga sempre sull’interesse privato. Nell’ascoltare il suo discorso appassionato, il pensiero corre al fondamento dell’obbligo politico e alla cultura anglosassone della rule of law, che non è solo rispetto della legalità formale, ma ancor più il senso di appartenenza a una comunità politica fondata sui valori della libertà e del bene comune. Mi è venuta in mente la lezione di alcuni filosofi politici, in particolar modo di Alessandro Passerin d’Entrèves (1902-1985), il quale non si stancava di sottolineare l’importanza cruciale che in una democrazia liberale ha il nesso legalità-legittimità. Il fondamento di una comunità non può reggersi soltanto sulla legalità, sul rispetto esteriore delle regole; occorre che vi sia la legittimità, vale a dire il consenso dei governati sulla bontà delle leggi e sul diritto dello Stato. Un consenso che si ottiene nella misura in cui i cittadini vengono coinvolti nel funzionamento delle istituzioni politiche mediante gli istituti di democrazia diretta e rappresentativa.

Lo Stato liberaldemocratico non è un sistema di potere basato esclusivamente sul “monopolio della forza”: occorre che quella forza – per riprendere una bella espressione di Max Weber – sia “legittima”. La legittimità riposa sull’autorità dell’ordinamento costituito: i cittadini prestano obbedienza perché si riconoscono nei suoi valori fondanti. Uno Stato liberaldemocratico, uno Stato di diritto e sociale è tale non solo quando garantisce ai cittadini la “libertà positiva” – partecipazione alla vita della comunità mediante l’esercizio della democrazia diretta e della democrazia rappresentativa – ma ancor più quando si erge a salvaguardia della libertà negativa dei cittadini, quando rende operanti i diritti dell’uomo e del cittadino presenti nelle costituzioni moderne.

Oggi siamo in una situazione a dir poco allarmante: il divorzio dei cittadini dalla politica, dall’esercizio dei diritti di libertà positiva è evidente nell’astensionismo dilagante. Un fenomeno dovuto certamente alla mancanza di credibilità di una classe politica corrotta e inefficiente, ma anche all’incapacità dei partiti di intercettare il malcontento per una riforma delle istituzioni che assicuri il miglioramento della governabilità e la piena partecipazione dei cittadini alle istituzioni repubblicane.

Ricordo tuttavia che alle ultime elezioni amministrative le liste civiche hanno coinvolto strati importanti della società civile sulla base di programmi e obiettivi concreti, sia a destra che a sinistra. Un risultato certamente positivo, che tuttavia non è bastato a coinvolgere gli elettori: in un Comune come Milano, l’affluenza alle urne si è fermata al 54,67%. Insomma, per recuperare consenso la politica deve tornare ad essere credibile.

Umberto Ambrosoli ha appreso in famiglia il senso dello Stato e la passione per la buona politica. Il padre Giorgio, commissario liquidatore delle banche di Michele Sindona, sacrificò con la vita la sua dedizione alla causa della legalità. “L’insegnamento di mio padre” – avverte Umberto – “non è l’unico caso di persone che sono morte per il bene comune, che hanno anteposto il bene collettivo agli interessi individuali”. Umberto non torna sulla storia del padre, un tema che scava nel profondo della sua storia familiare. Si limita a commentare con umiltà: “Mio padre non ha sacrificato la sua vita, ha vissuto l’unica vita che avrebbe voluto vivere”.

Nell’incontro organizzato dal Centro Studi Grande Milano, Ambrosoli si sofferma soprattutto sulla sua esperienza politica. Ricorda un episodio della campagna elettorale per la corsa alla presidenza della Regione Lombardia nel 2013; un episodio che gli fece capire il senso della buona politica:

“Ricordo una giornata di lavoro intensissimo. Eravamo nel pieno della campagna elettorale per la corsa al Pirellone. Partiti da Lecco, andammo a Colico, a Sondalo e in altri comuni dell’alta Lombardia. Tornati a Lecco a notte fonda, verso le 2.30 mi chiesero un’intervista sui valori del civismo. Decisi di rilasciare l’intervista nonostante l’ora tarda. In quell’occasione, nel momento in cui occorreva essere svegli nonostante il fisico stesse per cedere alla stanchezza dopo una giornata intensa fatta di comizi e incontri elettorali, ebbi la forza d’insistere consapevole del legame profondo che ci unisce agli altri; nei comportamenti deve guidarci costantemente lo spirito di servizio perché noi politici e amministratori pubblici, rappresentando i cittadini che ci hanno eletto, dobbiamo essere d’esempio”. Il fine di un politico onesto e competente  – ricorda – “non è la vittoria ma vivere in coerenza con le sue motivazioni”.

Il libro è incentrato su questo valore civico: lo spirito di servizio, la dedizione al bene comune. Ambrosoli porta l’esempio di quanti, operando in uffici pubblici di responsabilità, hanno mostrato di non volersi piegare alla prepotenza dei forti, battendosi con coraggio fino a sacrificarsi per la legalità, per il rispetto delle regole.

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Renata Fonte (1951-1984)

Uno dei personaggi citati nel libro è ad esempio Renata Fonte, assessore del partito repubblicano a Nardò in provincia di Lecce, uccisa dalla criminalità organizzata nel 1984 per non essersi piegata alle lobby dei costruttori che intendevano edificare nelle coste salentine in violazione delle leggi sul patrimonio naturalistico. Un delitto reso ancor più vile perché macchiato dal tradimento di un collega venduto alle mafie, ansioso di succedere alla Fonte nell’ufficio ch’ella rivestiva in Comune. Questo caso – come gli altri riportati nel libro – dimostra l’immensa solitudine che comporta l’eroismo. Chi esercita funzioni pubbliche è chiamato non solo a lavorare con probità e onestà, ma ad agire con coraggio dimostrando sul campo di avere la forza di amministrare la cosa pubblica nell’esclusivo interesse dei cittadini. Questo è il senso nobile della politica, questa deve essere l’ostinazione civile di chi è chiamato ad amministrare per il bene della comunità. Per conseguire tale traguardo occorre però una selezione nei partiti che porti ad escludere i profittatori, gli arrivisti, gli incompetenti  e – quel che più conta – i tanti Don Abbondio pronti a chinare il capo davanti alle prepotenze, vasi di terracotta in mezzo a tanti vasi di ferro.