Archivi categoria: federalismo

Perché la Lombardia Sì merita più autonomia

Mancano ormai poche ore all’apertura dei seggi per il referendum sull’autonomia della Lombardia.

Chi ha letto i miei articoli sul Monitore sa che mi sono battuto in passato per una riforma della Costituzione in senso autenticamente federale. Purtroppo la Costituzione italiana non è una Costituzione federale. Tuttavia  la riforma della Carta avvenuta nel 2001 (approvata dagli italiani con referendum) ha attribuito maggiori autonomie alle Regioni e prevede addirittura una procedura che consente di accrescere ulteriormente i loro poteri mediante un’intesa con il governo centrale approvata dal Parlamento a maggioranza assoluta: è una via che porterebbe a un regionalismo differenziato assai vicino al federalismo, una via pensata per quelle Regioni – come Lombardia, Veneto e tante altre con conti in ordine e servizi efficienti – che si sentissero pronte per esercitare  nuove funzioni con le relative risorse. E’ quanto prescrive l’articolo 116, terzo comma della Costituzione.

Maroni e Zaia, i due governatori di Lombardia e Veneto che hanno organizzato i referendum nelle rispettive Regioni, chiedono il consenso dei cittadini a trattare con Roma migliori condizioni di autonomia. Molti, soprattutto nel centrosinistra, hanno criticato la decisione di spendere risorse pubbliche per i referendum:  sostengono che i due governatori avrebbero potuto trattare direttamente con il governo centrale come sta facendo in questi mesi il presidente dell’Emilia Romagna Stefano Bonaccini. In realtà, occorre rilevare che l’Emilia – gestita da un’amministrazione di centrosinistra – ha deciso di trattare con il governo (di centrosinistra) solo dopo che Maroni e Zaia avevano annunciato la decisione di indire i referendum per l’autonomia. Se i due governatori lombardo veneti non si fossero mossi in tal senso, è difficile pensare che l’Emilia si sarebbe spinta fino a chiedere ulteriori poteri al governo centrale. In secondo luogo, Maroni e Zaia hanno organizzato i referendum nel pieno rispetto di  un’ordinanza della Corte costituzionale, che nel 2001 ha stabilito che nel caso di “scelte fondamentali di livello costituzionale” tra Regione e Stato, sia del tutto legittimo ricorrere a una consultazione referendaria. L’attribuzione di ulteriori poteri a una Regione ex articolo 116, terzo comma, è certamente una scelta fondamentale di livello costituzionale perché renderebbe Lombardia e Veneto due Regioni “speciali” con poteri e attribuzioni vicini a quelli del Trentino o del Friuli Venezia Giulia. In attesa di una riforma costituzionale in senso autenticamente federale, credo che la via ex art.116 terzo comma, sia lo strumento migliore per garantire maggiore autonomia al Lombardo Veneto. Per questo motivo andrò a votare e voterò Sì al referendum.

Roberto_Maroni-Festival_dell'Economia_2
Il Governatore della Regione Lombardia, Roberto Maroni

Non mi aspetto certamente che le cose cambino tutto d’un tratto. E’ difficile che il governo centrale, da sempre condizionato dagli interessi corporativi della burocrazia romana, sia disposto a sedersi a un tavolo per attribuire realmente più poteri e risorse alle due Regioni. Un’alta affluenza alle urne e una vittoria imponente dei Sì suonerebbero tuttavia come un campanello d’allarme per la classe politica romana, rendendola consapevole che una riforma costituzionale non potrà prescindere in futuro da un assetto rigorosamente federale dei pubblici poteri. Ricordo che nella riforma costituzionale del centrosinistra bocciata dagli italiani il 4 dicembre 2016, il federalismo era assente e si era deciso addirittura di limitare i poteri delle Regioni. Ecco, non foss’altro che per riportare al centro la questione delle autonomie, val la pena recarsi al seggio e votare Sì.

La Lombardia e il Veneto hanno saputo assicurare ai cittadini servizi pubblici di qualità. Certo, casi di malversazione e di corruzione si sono verificati anche al Nord. C’è ancora molto da fare per migliorare in molti settori. Eppure, se paragoniamo questi servizi con quelli di altri territori in Italia, le due Regioni si pongono in vetta alla classifica.

Inoltre mi sembra legittimo che una Regione come la Lombardia – la cui cultura di autogoverno e autoamministrazione risale in molti casi ai secoli della dominazione asburgica – possa disporre di maggiori risorse ed estendere le proprie competenze esclusive in settori quali la giustizia di pace, la tutela ambientale, la tutela della cultura, la gestione dell’istruzione, l’agricoltura, l’ordinamento comunale e tanti altri. Che senso ha che a Roma vengano gestiti servizi che la Regione può assicurare meglio e a un costo minore? Lo stesso vale per il Veneto.

Secondo i sostenitori del No – presenti soprattutto in una parte del centro-sinistra – l’attribuzione alla Lombardia di ulteriori competenze, oggi gestite in tutto o in parte dallo Stato centrale, porterebbe a una retrocessione dell’Italia in campo europeo. Un’Italia in cui Lombardia e Veneto avessero all’incirca le stesse competenze del Trentino Alto Adige – dicono – finirebbe per essere uno Stato diviso, frammentato, privo di spina dorsale. In secondo luogo, ritengono che l’idea di una Lombardia autonoma, “fai da te”, sia anacronistica, legata a un periodo storico – gli anni Novanta – definitivamente passato.

Sono due tesi che mi trovano in disaccordo. Quanto alla seconda, basta guardare a quanto sta accadendo in Catalogna. Siamo proprio sicuri che le piccole patrie siano al tramonto? O non stiamo forse entrando in un’epoca in cui i bisogni dei cittadini si fanno sempre più complessi e richiedono apparati pubblici snelli, i cui servizi siano maggiormente soggetti al controllo della comunità locale? Certo, c’è una grande differenza tra la Catalogna e il Lombardo Veneto. La prima ha indetto un referendum sull’indipendenza violando la Costituzione spagnola. In Lombardia e Veneto si terranno al contrario due referendum sull’attribuzione di maggiori autonomie nel pieno rispetto della Costituzione.

La prima argomentazione rivela invece la mancanza di cultura federale in molta parte della classe dirigente e della classe politica di questo Paese. Il modello di riferimento resta quello giacobino dello Stato unitario, di un’Italia ancora pensata come un corpo vivente i cui organi – le Regioni – possono svolgere le loro funzioni purché stiano accucciati sotto il potere centrale, subordinati ai supremi interessi di una Nazione rappresentata come un blocco immutabile. Riferirsi all’Italia – come fanno i detrattori del referendum lombardo – con espressioni quali “spina dorsale” per indicare la necessità di un Paese forte, potente, capace di decidere contro ogni presunta divisione rappresentata dalle autonomie speciali, è segno di una visione nazionalista che sacrifica ogni diversità sull’altare di un’artificiosa unità.

Settant’anni di Repubblica unitaria non hanno ridotto le diseguaglianze tra Nord e Sud; le hanno accresciute. Colpevole dei mali italiani non è quindi il federalismo, che in Italia non è mai esistito. I nostri difetti risiedono piuttosto nella struttura rigidamente burocratica dei pubblici poteri, nella cultura formalistica di uno Stato le cui leggi sono lunghe, oscure e cavillose; in un’amministrazione statale farraginosa, lenta e costosa, ingabbiata in un formalismo normativo che lascia in secondo piano l’attenzione al risultato, al fine da raggiungere. Occorre al contrario che lo Stato centrale si ritiri da alcuni servizi pubblici, lasciando alle Regioni virtuose i poteri e le risorse per esercitare quelle funzioni con maggiore efficienza nell’interesse dei cittadini.

Guardiamo all’estero, ai Paesi governati da una Costituzione federale. In Germania il federalismo non ha affatto indebolito l’unità dei tedeschi. Un bavarese o un cittadino del Baden si sentono diversi da un berlinese, come quest’ultimo da un cittadino della Sassonia: tutti e quattro sono coscienti di avere tradizioni, stili di vita, istituzioni politico amministrative differenti; nelle loro Regioni (i Länder) risiede una parte significativa dell’amministrazione pubblica e la stessa legislazione sugli enti locali è di competenza regionale. Eppure tutti questi cittadini si riconoscono nelle istituzioni federali del loro Paese, si sentono tedeschi. L’Italia presenta da sempre un policentrismo, un particolarismo territoriale che è per certi versi assai simile a quello tedesco. A me sembra che il federalismo costruito a partire dalle Regioni – alcune delle quali unite in Macroregioni – possa avvicinare i cittadini alle istituzioni della Repubblica. E’ così che l’Unità si costruisce dal basso, dalle Comunità territoriali in cui i cittadini si riconoscono. L’Unità artificiosa costruita dall’alto ha finito per converso con l’allontanare i cittadini dalle istituzioni. I dati sull’affluenza alle urne sono lì a ricordarcelo.

Non basta. Più autonomia significa che maggiori fondi verrebbero trasferiti dallo Stato in Lombardia come avviene oggi in Trentino: risorse che la Regione potrà investire in tanti settori a sostegno dell’economia locale. Questo, com’è facile immaginare, consentirebbe di incrementare ulteriormente il ruolo di Milano, ma anche di potenziare lo sviluppo della Lombardia accrescendo il suo ruolo di locomotiva del Paese a beneficio di tutta l’Italia. La piccola patria lombarda, libera di agire in modo responsabile senza dipendere dai vincoli burocratici dello Stato centrale, potrebbe essere un esempio di buona amministrazione in tanti campi che oggi sono inspiegabilmente sottratti alla competenza delle Regioni. Più risorse quindi, maggiori funzioni, più responsabilità perché la Lombardia le merita. La prossima sfida sarà riportare il tema delle autonomie al centro delle riforme costituzionali perché il federalismo è gestione, tutela e salvaguardia delle diversità in un ordinamento in cui le istituzioni territoriali sono in concorrenza tra loro.

 

L’importanza delle autonomie

E’ di grande interesse il nuovo numero dell’Annale Isap “Storia Amministrazione Costituzione” 2016. L’Isap, Istituto per la Scienza dell’Amministrazione Pubblica, venne fondato nel 1959 per impulso di Feliciano Benvenuti e Gianfranco Miglio: è un ente, con sede a Milano in Piazza Castello 3, specializzato nell’analisi storica e comparata delle istituzioni pubbliche. Tra le varie pubblicazioni, l’Annale “Storia Amministrazione Costituzione” contiene saggi afferenti alla storia delle istituzioni politiche e amministrative.

L’Annale 2016 presenta in apertura due documenti, redatti a Milano, su cui vorrei soffermarmi. Risalgono entrambi agli anni della Resistenza armata nel Nord Italia contro il nazifascismo. Sono per lo più sconosciuti al pubblico: il primo è la lettera aperta della Segreteria del Partito d’Azione dell’Alta Italia al comitato esecutivo del partito dell’Italia Centro Meridionale, risalente alla fine di ottobre del 1944; il secondo è un’altra lettera aperta del Partito d’Azione, rivolta questa volta a tutti i partiti aderenti al Comitato di Liberazione Nazionale, pubblicata su “Italia libera” il 30 novembre 1944. Segue un saggio del Direttore dell’Isap, il professor Ettore Rotelli, dal titolo Resistenza non costituente (pp.25-83), in cui viene svolta un’analisi del contesto politico e sociale in cui maturò la stesura delle due lettere.

La parte a mio avviso più importante di questo saggio è quella in cui il professor Rotelli esamina le ragioni che portarono all’insuccesso del programma di riforma del Partito d’Azione dell’Alta Italia: un programma, illustrato nel dettaglio nella seconda lettera del 30 novembre, che poggiava sulla convinzione che una repubblica democratica non potesse prescindere da un ordinamento fortemente autonomistico, federale nel metodo, che seppellisse definitivamente le istituzioni centraliste di ascendenza napoleonica che erano state proprie non solo dello Stato italiano fascista, ma anche di quello pre-fascista.

Quale utilità può rivestire oggi la lettura di questi documenti? Almeno due. In primo luogo aiutano a capire quale alternativa vi fosse alla restaurazione dello Stato italiano accentrato decisa dai partiti politici negli anni del dopoguerra. La Costituzione italiana del ’48 e la riforma costituzionale del 2001 fanno dell’Italia una repubblica democratica unitaria informata ai principi del decentramento e dell’autonomia. Però le autonomie territoriali non sono state coerentemente sviluppate; gli apparati burocratici centrali e periferici dello Stato sono ancora in funzione, in molti casi con poca utilità per i cittadini. Se abbiamo a che fare con un’amministrazione pubblica e una burocrazia professionale lenta e inefficiente, troppo spesso non al servizio della collettività, rinchiusa in un formalismo giuridico che mette fatalmente in secondo piano il conseguimento del risultato; se il calo di consensi nei confronti dei partiti politici nazionali ha raggiunto livelli altissimi perché troppo spesso estranei ai bisogni dei cittadini; se l’Italia è uno dei paesi a più basso tasso di senso civico e di cura per la cosa pubblica, questo è dovuto al fatto che alle origini della Repubblica, in quegli anni drammatici eppur così ricchi di proposte di riforma politica, non si volle costruire lo Stato dal basso, partendo dalle istituzioni rivoluzionarie che avevano saputo reggersi responsabilmente in piena autonomia e libertà negli anni della guerra. Si scelse di restaurare l’ordinamento dello Stato prefascista.

Queste lettere mostrano che il Partito d’Azione – unico partito ad essersi sciolto dopo la fine della guerra – credeva nella necessità di fondare una Repubblica fortemente autonomista che mandasse al macero tutte le istituzioni burocratiche e accentrate dello Stato fascista e pre-fascista.

Questi documenti aiutano a capire quanto fosse importante per i maggiori esponenti del Partito d’Azione dell’Alta Italia (da Leo Valiani ad Altiero Spinelli, da Riccardo Lombardi a Vittorio Foa) che nella penisola venisse costituita una repubblica autonomistica che abituasse gli italiani a prendersi cura della cosa pubblica mediante una diretta partecipazione dei cittadini a forti istituzioni territoriali democratiche.

In secondo luogo, se pensiamo alla riforma costituzionale bocciata il 4 dicembre scorso ove le autonomie regionali erano fortemente limitate a vantaggio dello Stato centrale – uno dei difetti più vistosi in una riforma che per il resto presentava molti elementi positivi – diventa ancor più importante capire le ragioni delle autonomie e del federalismo.

Adriano_Olivetti_fotoritratto
Adriano Olivetti (1901-1960)

Il Partito d’Azione dell’Alta Italia riteneva che il vecchio Stato centralistico, ove l’amministrazione degli enti locali era soggetta ai controlli di merito e di legittimità dei prefetti (funzionari dell’amministrazione periferica del governo centrale), fosse uno dei maggiori responsabili del malgoverno: questo tipo di Stato aveva abituato gli italiani a non prendersi cura della cosa pubblica, a rinchiudersi nella cura dei loro interessi particolari lasciando a una classe politica, spesso non all’altezza del suo ruolo, la libertà di governare e di spadroneggiare senza alcun freno. Pochi mesi prima che fosse scritta la prima lettera aperta, il 17 luglio, Luigi Einaudi aveva pubblicato su “L’Italia e il Secondo Risorgimento”, supplemento settimanale della “Gazzetta Ticinese”, il celebre articolo Via il Prefetto! Nel Partito d’Azione dell’Alta Italia e in molti intellettuali e imprenditori vicini a quel partito, come ad esempio l’ingegnere Adriano Olivetti, si riteneva prioritaria una riforma costituzionale che si ponesse in netta discontinuità con l’ordinamento unitario dello Stato fascista e prefascista.

Olivetti, nello Schema preliminare di trasformazione dello Stato unitario in Stato federale, inviato ad Altiero Spinelli, risalente all’incirca alla metà di dicembre 1944, proponeva di costituire grandi enti comunali realmente dotati di autonomia finanziaria e amministrativa, le Comunità, la cui popolazione avrebbe dovuto attestarsi sui 90.000 abitanti. Scomparse le Province, occorreva però costituire, oltre alle Comunità, “Stati regionali” governati da Consigli di Stato che – un po’ come avveniva nella Svizzera articolata in Cantoni autonomi – avrebbero gestito quelle funzioni pubbliche che le Comunità non avrebbero potuto assolvere in modo efficace: proseguendo con metodo federale, a loro volta i governatori degli “Stati regionali” Piemonte, Liguria, Lombardia, Veneto, Emilia Romagna, avrebbero partecipato al governo centrale di Roma ricoprendo la carica di ministri senza portafoglio.

Leo_valiani
Leo Valiani (1909-1999)

Leo Valiani, autore di entrambe le lettere aperte, svolgeva l’ufficio di Segretario del Partito d’Azione dell’Alta Italia. In questi documenti, svolgendo argomentazioni che si ponevano su alcuni punti in sintonia con il pensiero di Einaudi e di Olivetti, riteneva che un autentico ordinamento autonomistico avrebbe salvaguardato la libertà e la democrazia spazzando via i “vecchi rottami” dello Stato fascista e pre-fascista. La proposta era di partire dai Comitati di Liberazione Nazionale (CLN) facendone la pietra di base delle autonomie per la futura vita democratica: formati da esponenti dei cinque partiti antifascisti (comunista, socialista, azionista, liberale, democratico cristiano), i CLN si erano costituiti in ogni Comune, Provincia e Regione agendo in clandestinità e operando, nei territori liberati, come autonome amministrazioni territoriali. Valiani intendeva aprire i CLN alla partecipazione degli organismi di massa della società civile per fondare le basi del nuovo Stato autonomistico.

La situazione tuttavia era completamente diversa nell’Italia centro-meridionale. Qui, ove la liberazione dal dominio nazifascista era avvenuta già nel 1943-44, il governo Bonomi, formato dai partiti antifascisti, si era servito degli apparati burocratico amministrativi del vecchio Stato centralizzato, limitandosi a sostituire i vecchi prefetti fascisti con personale di carriera. Nulla era stato fatto per cambiare la natura unitaria e centralizzata dello Stato.

Scriveva Valiani nella prima lettera aperta risalente alla fine di ottobre 1944 commentando i provvedimenti presi dal governo di Roma nell’Italia del Centro-Sud:  

Noi disapproviamo completamente il modo con cui si è proceduto alla ricostruzione dello Stato italiano. E’ stato il peggiore cui si potesse ricorrere. Si è proceduto con un metodo autoritario alla ricostruzione di un partito autoritario. Il governo, formato dalla coalizione di partiti, genera dall’alto tutti gli organi amministrativi; nomina prefetti e sindaci ed è privo di qualsiasi legame organico con il popolo. Quali che siano le intenzioni dei ministri, un tale procedimento non può [che] riprodurre il tipo malsano di stato centralizzato e centralizzatore, che il fascismo aveva potenziato, e che preesisteva al fascismo, e che non è certo un modello a cui tornare.

[Lettera della Segreteria del Partito d’Azione dell’Alta Italia al comitato esecutivo del partito dell’Italia centro-meridionale, fine ottobre 1944, in «Annale ISAP», 2016, pag.7].

Queste lettere ci mostrano in altri termini quanto fosse profonda la frattura politico istituzionale tra le due Italie: nel Centro-Sud, liberato dagli anglo-americani, si era conservato lo Stato monarchico con i suoi apparati amministrativi di ascendenza napoleonica risalenti a prima del fascismo e che il fascismo aveva potenziato: in primis le prefetture; al Nord invece, ove, in seguito all’armistizio dell’8 settembre 1943, era stata costituita per volere di Hitler la Repubblica di Salò sotto controllo nazi-fascista, i partigiani operavano in brigate e riuscirono in molti casi ad occupare porzioni del territorio amministrandole in modo autonomo mediante i CLN; in alcuni casi, riuscirono a costituire vere e proprie Repubbliche Partigiane come nel Friuli, nella Val d’Ossola, nella Carnia, in Valsesia o nel Monferrato; in altri, come in Toscana, il CTLN (Comitato Toscano di Liberazione Nazionale), aveva esercitato poteri di governo provvisorio dal 2 al 16 agosto 1944, in particolar modo dopo la liberazione di Firenze avvenuta l’11 agosto. Qui il CTLN, ove grande influenza ebbe lo storico e critico d’arte Carlo Ludovico Ragghianti, aveva espresso il netto rifiuto del prefetto come istituzione autoritaria e si era identificato come “Regione e autonomia regionale” in opposizione all’ordinamento centralistico dello Stato unitario.

Come il professor Rotelli lascia intendere nel titolo del suo contributo, Resistenza non costituente, il programma autonomista del Partito d’Azione non fu accolto né dal Comitato centrale del Partito a Roma né dagli altri partiti antifascisti cui era diretta la seconda lettera del 30 novembre 1944. L’elezione dell’Assemblea Costituente nel 1946, la stesura della nuova Carta costituzionale entrata in vigore nel 1948, segnarono senza dubbio uno spartiacque rompendo con il vecchio ordinamento monarchico centralizzato. La struttura burocratica dello Stato italiano rimase però intatta. Non solo alcune istituzioni previste dalla Costituzione del ’48 dovettero attendere molto tempo per essere realizzate: pensiamo ad esempio alle Regioni, istituite solo nei primi anni Settanta con competenze e funzioni assai limitate. Non solo l’ordinamento comunale e provinciale continuò ad essere disciplinato fino al 1990 da una legge di epoca fascista che ereditava quella centralistica del 1865 (testo unico del 1934). La struttura burocratica dello Stato è restata in piedi fino ad oggi, come si vede dal numero spropositato dei ministeri a Roma che si occupano di materie che le Regioni (o le Macroregioni) potrebbero disimpegnare in modo più efficace: dall’agricoltura ai trasporti, dall’istruzione primaria e secondaria all’ambiente. Il conferimento di tali competenze amministrative a grandi enti territoriali era già presente nei progetti liberali elaborati da Cavour, Farini e Minghetti.

Aver rifiutato fin dall’inizio il programma del Partito d’Azione dell’Alta Italia – il solo partito rivoluzionario, come ricordava Altiero Spinelli, che non teorizzi la conquista del potere centrale come mezzo per la realizzazione del suo programma – significò produrre una Repubblica unitaria parlamentare ove al centro, a Roma, nel Parlamento e nel Governo, i partiti nazionali, lontani dall’avere un rapporto diretto con i bisogni dei cittadini, si perdono spesso nelle inutili polemiche della lotta politica: partiti troppo sensibili alla conquista di un potere che la forma unitaria (non federale) dello Stato realizza in dimensioni troppo vaste. Si tratta di un tema, come si può facilmente constatare, di enorme importanza per la società di oggi.

La “demostocrazia” di Fantuzzi nella Milano ‘giacobina’

In questo periodo a dominare il dibattito politico è la riforma costituzionale su cui saremo chiamati ad esprimerci nel referendum del prossimo autunno.

In questa sede vorrei soffermarmi su un periodo cruciale per la storia di Milano in merito al tema delle riforme costituzionali. A ben vedere, i periodi importanti per la città di Ambrogio furono due: il primo risale all’arrivo in Lombardia, nella primavera del 1796, degli eserciti rivoluzionari francesi comandati dal generale Bonaparte e può esser fatto concludere nel luglio 1797, quando venne promulgata la Costituzione moderata cisalpina esemplata sulla carta francese dell’anno III (1795). Il secondo periodo può essere individuato negli anni compresi tra il 1801 e il 1814 quando, nella Milano napoleonica capitale di uno Stato unitario nell’Italia del Centro-Nord, alcuni tra i più eminenti intellettuali – da Vincenzo Cuoco a Gian Domenico Romagnosi – lavorarono a un modello di costituzione che fosse in grado di garantire l’efficienza amministrativa del governo in uno Stato di diritto fondato sul riconoscimento dei diritti civili. Tornerò in un altro articolo su questo secondo periodo.

truppe francesi a Milano 1796
Ingresso delle truppe francesi a Milano da Porta Romana nella primavera del 1796. Incisione a colori di J. Duplessis

Oggi vorrei soffermarmi brevemente sul primo periodo, quello che potremmo ricondurre al pensiero più avanzato del “giacobinismo italiano”. Tra il settembre del 1796 e il 1797, nella Milano liberata dalla dominazione austriaca, l’Amministrazione generale della Lombardia bandì un concorso intitolato “Quale dei governi liberi meglio convenga alla felicità d’Italia”. Il concorso fu voluto probabilmente dal generale Bonaparte per capire quale fosse il pensiero dei patrioti italiani su temi quali la democrazia, la libertà repubblicana, la costituzione.

Furono presentati cinquantasette progetti costituzionali ove, in vista del crollo degli Stati d’antico regime, si proponevano molteplici assetti istituzionali per l’Italia. Quel concorso fu vinto com’è noto da Melchiorre Gioia, il quale auspicava la liberazione della penisola dal dominio straniero e la formazione di uno Stato nazionale unitario.

Altri progetti riflettevano un’impostazione federale. Riconosciuta l’esigenza di costituire un potere pubblico nazionale, era ritenuto opportuno tutelare le diversità storiche esistenti nella penisola oppure riconoscere gli Stati rivoluzionari che si erano costituiti nel frattempo sulle ceneri degli ex regimi. I lavori di quell’autentico laboratorio di storia costituzionale furono raccolti e studiati negli anni Sessanta del secolo scorso dallo storico Armando Saitta in due preziosi volumi intitolati: Alle origini del Risorgimento: i testi di un celebre concorso (Roma, Istituto Storico italiano per l’età moderna e contemporanea, 1964).

In questa sede desidero focalizzare l’attenzione sul progetto del patriota bellunese Giuseppe Fantuzzi. Un progetto poco conosciuto in cui l’autore , quantunque avesse proposto uno Stato nazionale mostrando la sua adesione per la soluzione unitaria, lasciava trasparire a chiare lettere la sua cultura federale e democratica radicale.

 

Vita di Giuseppe Fantuzzi

Chi era Giuseppe Fantuzzi? Nato a Belluno il 10 ottobre 1762, Fantuzzi aveva trascorso il periodo dell’adolescenza lavorando come trasportatore di pini e abeti lungo il corso del Piave. All’età di vent’anni lavorò a Venezia presso il dazio dei vitelli, un’attività di cui il padre era riuscito a procurarsi la gestione in monopolio grazie a una speciale concessione del governo veneziano.

Richiamato a Belluno, Fantuzzi si dedicò agli studi di storia e di fisica, formandosi sulle opere degli enciclopedisti francesi. La lettura di Rousseau fu decisiva – come si vedrà più avanti – per la sua formazione politica. Fece un lungo viaggio nell’Impero germanico e in Russia, lasciando trapelare nei suoi scritti un giudizio negativo sui governi assoluti. Tornato a Venezia, strinse amicizia con un principe polacco che accompagnò a Varsavia nel 1793. Difensore dell’indipendenza della Polonia, combatté nella battaglia di Praga a fianco dei patrioti polacchi contro i russi. Sconfitta la repubblica polacca, Fantuzzi riuscì a sfuggire all’arresto ricorrendo a un fortunato travestimento in panni femminili. Dopo aver soggiornato a Vienna, fece ritorno a Belluno. Sulla guerra combattuta in difesa del popolo polacco, conservò un ricordo assai vivo, sembrandogli quella esperienza un esempio concreto di lotta per la difesa della libertà. Scriveva al fratello Luigi:

Avreste veduto da per voi quai sforzi è obligato a fare un popolo per acquistare la sua libertà una volta che l’ha perduta: sforzi degni dell’uomo, ma purtroppo sovente inutili”.

Fu uomo d’azione, ardente soldato, amante della guerra. Non esitò a sostenere che “la musica del cannone” era la vera “musica dell’uomo”, non le “opere buffe e serie”.

Con la discesa in Italia del generale Bonaparte, si schierò in favore dei francesi contro il regime della Serenissima. Occorre tuttavia ricordare che, prima di partecipare attivamente agli eventi rivoluzionari, Fantuzzi aveva proposto al governo veneto un Piano di organizzazione militare informato ai principi democratici, piano che puntava a una riforma di Venezia che potesse renderla capace di fronteggiare l’invasione dei francesi. Fu la bocciatura di quel piano a farlo passare dalla parte del “nemico”. Sperava e si illudeva che i principi rivoluzionari potessero servire all’edificazione di uno Stato italiano indipendente dalla Francia, retto su basi rigorosamente democratiche. Assieme al fratello Luigi, Giuseppe si arruolò quindi nell’esercito francese.

Il-giovane-generale-Napoleone-sul-ponte-di-Arcole-provincia-di-Verona-durante-la-campagna-d’Italia-1796-1797-Antonie-Jean-Gros
Il generale Bonaparte sul ponte di Arcole durante la Campagna d’Italia, dipinto di Antoine Jean Gros (1771-1835)

Tra l’estate del 1796 e i primi mesi del 1797 partecipò alle battaglie di Lonato, Castiglione, Caldiero, Arcole, rivestendo l’ufficio di capo battaglione della legione cisalpina. Fautore dell’indipendenza italiana, in una lettera scritta al generale Bonaparte tra il 6 e il 19 gennaio 1797 propose la formazione di un’armata italiana di cui facessero parte i patrioti più illuminati; armata che avrebbe dovuto scontrarsi contro le truppe veneziane ed austriache sottraendo la penisola alla “schiavitù dei tiranni”. Si illudeva che i francesi, una volta mutato l’assetto geo-politico dell’Italia, si sarebbero ritirati entro i confini del loro Stato. Nella citata lettera a Bonaparte, Fantuzzi non risparmiava giudizi severi verso la nazione italiana, giudicata “corrotta, ignorante e superstiziosa”.

A pochi mesi dal trattato di Campoformio, il patriota bellunese si impegnò per la salvaguardia dell’italianità del Veneto, proponendo la costituzione di un comitato centrale “con funzioni di governo provvisorio che rappresentasse legalmente e tutelasse gli interessi politici di tutta la regione veneta”. La sorte del Veneto era tuttavia segnata. Inutili i tentativi con cui Fantuzzi,  inviato a Campoformio in missione segreta, cercò di promuovere l’annessione della regione alla repubblica cisalpina.

Divenuto cittadino della repubblica il 24 gennaio 1798, rivestì nuovi incarichi nell’amministrazione civile. Dopo aver svolto a Parigi le funzioni di delegato per conto del Direttorio, fu nominato capo della seconda divisione del dipartimento della guerra. In tale veste compì due missioni – a Rimini e a Mantova – per reprimere l’ammutinamento di alcuni soldati, porre sotto controllo la contabilità militare, svolgere indagini nei confronti dei cittadini corrotti ed incapaci.

Il nuovo conflitto che oppose i francesi agli eserciti austro-russi nel 1799-1800 vide il Fantuzzi militare nell’esercito cisalpino in qualità di aiutante generale e poi di generale di brigata. Morì il 2 maggio 1800 durante l’assalto al forte “La Coronata” nello scontro di Novi Ligure.

 

Per un’Italia unita, democratica e federale: Il progetto “demostocratico” di Fantuzzi

Rousseau
Jean Jacques Rousseau (1712-1778)

Fantuzzi partecipò al concorso milanese con il suo Discorso filosofico politico sopra il quesito proposto dall’Amministrazione generale della Lombardia “Quale dei governi liberi meglio convenga alla felicità d’Italia”. Si tratta di un opuscolo di 122 pagine presentato, come precisato nell’avvertenza, “il 15 dicembre 1796”. In omaggio al suo maestro di pensiero, Jean Jacques Rousseau, il  frontespizio riprendeva le parole con cui si apriva il primo capitolo del primo libro del Contratto Sociale: “L’homme est né libre, et partout il est dans les fers”: l’uomo è nato libero e ovunque è in catene. Un’ammirazione sconfinata, quella di Fantuzzi nei confronti del filosofo ginevrino; un’ammirazione che condivideva con quella di tanti patrioti italiani ardenti fautori dei valori democratico-rivoluzionari affermatisi in Francia negli anni del giacobinismo  (1792-94).  Scriveva Fantuzzi:

Nell’alto argomento, in cui inseparabile si trova la felicità d’una grande nazione, e forse quella dell’intiera umanità; rivolgo i miei prieghi, ed invoco in soccorso Te, mio maestro, mio duce, mio divino Rousseau! Tu che dall’alto impassibile miri le umane passioni, Tu degna presiedere le mie idee, dirigere la mia penna,  ed ispirar al mio cuore quel filantropico orgoglio, che ti rese quaggiù celebre, ed immortale!

Dopo aver effettuato una breve analisi sulle forme di Stato, Fantuzzi proponeva la fondazione in Italia di uno Stato unitario “demostocratico” (sic!). La sua vicinanza al pensiero costituzionale francese era limitata alla concezione radicale della sovranità popolare, che risiedeva a suo giudizio nel potere legislativo esercitato direttamente dal popolo mediante i “consigli primitivi della nazione”: si tratta di istituzioni appena accennate nel suo progetto che sembrano tuttavia simili alle “assemblee primarie” titolari del potere legislativo contenute nel memorabile Plan de constitution girondino del febbraio 1793. Per il resto, il suo progetto rifletteva un’impostazione originale che mostrava il tentativo di adeguare la riforma costituzionale al particolarismo dell’Italia.

Egli faceva risiedere il potere legislativo interamente nel popolo ma gli altri due poteri non erano che la divisione del potere esecutivo in “potere esecutivo esterno” e “potere esecutivo interno”. Nessuna parola sul “potere” giudiziario, evidentemente concepito – in un tipo di “Stato di diritto legislativo popolare” – come un ordine dello Stato, non già come un potere. Scriveva Fantuzzi:

Per Demostocrazia intendo la distinta divisione di tre poteri nel corpo politico e sono: potere legislativo e sovrano, potere esecutivo interno, potere esecutivo esterno. Il concorso di questi tre poteri ad un solo scopo formerà la garanzia dell’istituzione politica, e conserverà la nazione libera, ed indipendente.

Lo Stato italiano di Fantuzzi doveva essere unitario e indivisibile. Tuttavia, il suo modello di costituzione rifletteva una struttura federale nel criterio con cui si sarebbero formate le istituzioni repubblicane. L’Italia, “unica, sola, ed indivisibile” era articolata in dieci repubbliche che avrebbero coinciso in parte con gli Stati regionali esistenti alla fine del 1796 (era il caso della Repubblica Lombarda, di quella Alpina Piemontese), in parte con gli Stati che si sarebbero dovuti costituire sulle rovine degli Stati d’antico regime (sarebbe stato il caso della Repubblica Cispadana proclamata nel marzo 1797 o di quella Ligure la cui costituzione sarebbe stata approvata il 2 dicembre 1797).

L’Italia di Fantuzzi era quindi articolata in dieci Repubbliche. La Repubblica Alpina (capitale Torino), la Repubblica Liguriana (capitale Genova), la Repubblica Etrusca (capitale Firenze), la Repubblica Lombarda (Milano), la Repubblica Adriatica (Venezia), la Repubblica Bellica o cispadana (Bologna), la Repubblica Ausonica (Roma), la Repubblica Vesuviana (Napoli), la Repubblica Sillacarida (Palermo), la Repubblica Isorica (Cagliari). In ciascuna di queste dieci repubbliche avrebbe avuto sede un Senato titolare del potere esecutivo interno.

Fantuzzi sosteneva di ispirarsi, nella divisione del potere esecutivo tra governo centrale e governi territoriali, a Stati quali l’Inghilterra o l’antica Polonia. Nel caso polacco egli aveva avuto modo di osservare il funzionamento di quelle peculiari istituzioni nel viaggio che si è ricordato all’inizio. In realtà, nel proporre l’istituzione del Senato, egli lasciava trasparire un certo qual attaccamento – sia pure indiretto – al governo della Repubblica di San Marco, tutta informata al principio della collegialità degli organi costituzionali (a partire dal Maggior Consiglio).

I Senati di ciascuna Repubblica si sarebbero composti di 300 membri, 100 dei quali rinnovati mediante elezione popolare a cadenza annuale. Quali funzioni sarebbero spettate ai senatori? In cosa concerneva per Fantuzzi il potere esecutivo interno?

Il primo dovere dei Senatori consisteva nel vegliare sulla severa esecuzione delle leggi approvate dal Popolo sovrano. Avrebbero poi esercitato la sorveglianza su tutte le cariche dello stato, sia di quelle elette dai cittadini nei vari comuni e dipartimenti, sia di quelle burocratico-professionali appartenenti all’amministrazione attiva. Pari controlli sui tribunali civili, criminali, e di polizia eletti dal popolo.

Il Senato di ciascuna Repubblica avrebbe poi esercitato poteri di governo nelle materie attinenti al culto, all’educazione, alle forze terrestri e marittime dello stato, agli spettacoli pubblici, ai pubblici edifizi, agli archivi, alle biblioteche, all’agricoltura, alle arti, al commercio; avrebbe curato la riscossione dei tributi, l’amministrazione del tesoro, delle derrate, la “distribuzione dei terreni”. A questi uffici sarebbero stati nominati dai vari Senati gli “opportuni uffiziali e ministri”.

Con “distribuzione dei terreni” Fantuzzi si riferiva a un punto cruciale del suo progetto costituzionale: egli riteneva che ciascun cittadino della Repubblica Italiana, in quanto tale, avrebbe avuto in usufrutto un pezzo di terra la cui rendita gli potesse garantire una vita dignitosa. Tuttavia, in caso di violazione delle leggi, il cittadino avrebbe perso i diritti politici e con essi il diritto alla proprietà del terreno. In questo modo, secondo Fantuzzi, gli italiani non avrebbero avuto alcun interesse a violare la Costituzione mancando ai loro doveri di cittadini. Doveri considerevoli perché, come si è ricordato sopra, ad essi spettava il potere legislativo diretto secondo una concezione radicale della sovranità popolare di ascendenza giacobina.

I Senati avrebbero nominato inoltre funzionari periferici che potremmo avvicinare in parte ai prefetti o ai viceprefetti: questi avrebbero esercitato un controllo sulle amministrazioni comunali e sui tribunali civili, criminali per verificare l’esatta esecuzione delle leggi informando i Senati dell’ordine e dell’applicazione delle medesime.

I Senati avrebbero scelto gli ufficiali e comandanti delle forze armate di terra e di mare de’ loro rispettivi governi, fatta eccezione per il comandante generale, da scegliere solo in caso di guerra. La gestione politica delle forze armate sarebbe spettata tuttavia al governo centrale della Repubblica Italiana – chiamato da Fantuzzi “Consiglio dei Saggi”.  I Senati non avrebbero potuto trasmettere ordini alle forze armate senza una preventiva deliberazione del Consiglio dei Saggi, o per espresso loro comando.

L’operato dei Senati di ciascuna delle 10 Repubbliche sarebbe stato sottoposto al controllo del governo centrale. Qui invece traspariva la forma unitaria dello Stato da lui immaginato per l’Italia.

Si è detto che Fantuzzi, fedele a una concezione radicale della sovranità di matrice giacobina, riconosceva al popolo il potere legislativo diretto. In casi che richiedevano l’adozione di provvedimenti urgenti, egli faceva intervenire tuttavia gli organi di democrazia rappresentativa autorizzandoli ad emanare un tipo di leggi provvisorie che potremmo avvicinare ai nostri decreti legge. Difatti Fantuzzi conferiva ai Senati la possibilità di proporre al Consiglio dei Saggi progetti di legge per il benessere della nazione o per il bene particolare di una sua parte. Egli pensava a leggi che, approvate dalla maggioranza del governo centrale, sarebbero entrate in vigore nelle repubbliche i cui Senati ne avevano promosso l’attuazione. Definite leggi parziali, sarebbero rimaste in vigore per sei mesi, un tempo nel quale i “consigli primitivi del popolo” avrebbero dovuto procedere alla loro ratifica. In caso di bocciatura popolare, sarebbero state abrogate. Scriveva il patriotra bellunese:

I Senati hanno la facoltà d’indicare al Consiglio dei Saggi quelle leggi che la loro maturità stimasse le migliori per il bene della nazione in generale; e così pure proporre quelle che credessero utili e necessarie al bene parziale della loro repubblica. Se le leggi parziali porteranno con esse l’urgenza, e che siano approvate dalla maggiorità del Consiglio dei Saggi, porteranno il nome di leggi istantanee, e la loro esecuzione verrà demandata ai Senati che le avranno proposte. Il vigore di queste leggi che detta il bisogno del momento, non potrà essere che di sei mesi, nell’intervallo dei quali, dovranno essere presentate ai consigli primitivi del popolo. Essendo approvate verranno registrate nel codice con la distintiva di Legge parziale. Allora soltanto prenderanno il nome di leggi attive e permanenti. Verranno esse leggi demandate a tutt’i Senati della nazione perché conoscano, s’elle convenghino ancora al ben essere dei popoli che governano. Se queste leggi non venissero accettate dal popolo sovrano, passati li sei mesi non avranno più alcun vigore, come neppure effetti retroattivi.

Veniamo ora al governo centrale della Repubblica delineato da Fantuzzi. Ai Senati sarebbe spettata l’elezione dei membri del Consiglio dei Saggi. Il primo anno ogni Senato avrebbe eletto nel suo seno sei Saggi: dato che i Senati di ciascuna Repubblica sarebbero stati 10, il Consiglio dei Saggi sarebbe stato di 60 membri. Il principio del rinnovo parziale del collegio, assai diffuso nelle istituzioni europee tra fine Settecento e primo Ottocento, sarebbe stato alla base anche di questo collegio. Ogni semestre il Senato di ciascuna Repubblica avrebbe eletto un Saggio in sostituzione del membro cessato dalla carica. Il governo centrale era così formato, in base a un principio autenticamente federale, da membri dei governi territoriali. Scriveva Fantuzzi:

Tutti i senatori attivi dei rispettivi Senati hanno vocazione all’alto consiglio nazionale, e saranno dalle assemblee senatorie tutti egualmente nominati. Quei trenta che uniranno maggiori voci in loro favore, saranno i candidati per l’alto consiglio. Si rimanderanno nuovamente i candidati all’elezione, e quelli sei che riuniranno in loro favore la maggiorità al di là de’ due terzi delle voci, saranno dichiarati membri del Consiglio dei Saggi. Queste due elezioni non si potranno fare in un sol giorno, ma in due successivi.

Il Consiglio dei Saggi sarebbe stato permanente. Ogni Saggio sarebbe durato in carica al massimo tre anni. Nelle sedute del Consiglio, segrete, le decisioni sarebbero state prese a maggioranza. Il Presidente del Consiglio dei saggi, eletto ogni anno, avrebbe acquisito il titolo di Saggissimo. Quali funzioni avrebbe esercitato quello che Fantuzzi definiva come “potere esecutivo esterno”? Il Consiglio dei Saggi avrebbe mantenuto relazioni politiche con le potenze straniere; ad esso sarebbe spettato inviare e ricevere ambasciatori; fare trattati, concludere alleanze. Avrebbe avuto la direzione delle forze di terra e di mare con il potere di fare la guerra e la pace. La guerra sarebbe stata dichiarata nel solo caso in cui la nazione fosse stata attaccata o minacciata d’esserlo.

La natura federale dell’ordinamento delineato da Fantuzzi traspariva anche nella procedura ch’egli aveva previsto quando si fosse trattato di dichiarare guerra a un altro Stato. In tal caso il Consiglio dei Saggi avrebbe informato i dieci Senati con un messaggio segreto per chiedere l’autorizzazione delle 10 Repubbliche. Il Consiglio dei Saggi sarebbe stato autorizzato a dichiarare guerra solo con il consenso dei due terzi dei Senati (7 su 10).

Il Consiglio dei Saggi avrebbe controllato inoltre il corretto svolgimento delle sedute nei Senati di ciascuna Repubblica, esercitando un controllo di legittimità e di merito agendo come custode della “Costituzione demostocratica”. I Senati, come si è accennato, avrebbero vigilato sul buon ordine e sull’esatta esecuzione delle leggi.

Ho insistito in una rapida descrizione del progetto costituzionale di Fantuzzi perché esso si caratterizzava per l’originalità della sua impostazione. Tre i tratti peculiari.

In primo luogo una concezione radicale della sovranità popolare tipica del giacobinismo francese di ascendenza girondina fondato sul ruolo centrale delle Assemblee primarie (ognuna delle quali composta da alcune centinaia di cittadini) nell’esercizio del potere legislativo.

In secondo luogo, una struttura federale fondata sulla divisione del potere amministrativo e di governo tra i Senati territoriali e il Consiglio dei Saggi.

In terzo luogo, un’influenza legata alle istituzioni repubblicane europee d’antico regime che risaltava nel principio della maggioranza dei due terzi o addirittura superiore ai due terzi per l’elezione dei membri del governo centrale o per decisioni importanti come la dichiarazione di guerra soggetta al voto dei 10 Senati.

Macroregioni e Regioni: pilastri del buongoverno in una riforma federale

Recentemente il ministro dell’ambiente, Gianluca Galletti, ha proposto di ridurre il numero delle regioni portandole a 11. Tale riforma viene caldeggiata da una parte dei democratici per ora apparentemente minoritaria. Difatti, oltre a Galletti, non sono molti ad essersi schierati a sostegno di questa proposta. L’unico ad avergli fatto eco è stato il neogovernatore dell’Emilia Romagna, Stefano Bonaccini. A far discutere è stata in particolare l’idea di accorpare la Regione Emilia Romagna con la Toscana dando vita ad un’unica macroregione tosco emiliana. Un’idea certamente originale, che può avere una sua giustificazione nella storia peculiare di quei territori e nello stile di vita degli abitanti.

Galletti e Bonaccini
Il ministro dell’ambiente Galletti e il governatore dell’Emilia Romagna Bonaccini (da Il Resto del Carlino)

Per il resto l’accorpamento interesserebbe almeno 15 delle 20 regioni esistenti. Resterebbero invariate, oltre alle isole, Lombardia, Puglia e Campania. Troveremmo invece quali “macroregioni”, oltre ad Emilia Romagna-Toscana, Piemonte-Liguria-Valle d’Aosta; Friuli Venezia Giulia-Veneto-Trentino Alto Adige; Umbria-Lazio; Marche-Abruzzo-Molise; Basilicata-Calabria.

La fusione delle Regioni rivela una concezione sostanzialmente estranea alle ragioni dell’autonomia: si propone di modificare dall’alto, con provvedimenti decisi a tavolino, l’assetto di enti territoriali la cui nascita è in molti casi antecedente all’attuale ordinamento repubblicano. Penso ad esempio al Trentino Alto Adige-Sud Tirol o alla Valle d’Aosta-Vallée d’Aoste. Cambiamenti nella fisionomia di questi territori non possono essere decisi in via unilaterale dal Parlamento perché le autonomie speciali vennero riconosciute alla fine della guerra con veri e propri trattati di diritto internazionale.

La proposta di costituire le macroregioni accorpando le regioni esistenti non è nuova. La Fondazione Agnelli elaborò nel 1993 un progetto analogo che proponeva 12 regioni. L’unico ad avere introdotto il tema delle macroregioni coniugando l’esigenza della funzionalità amministrativa con le ragioni dell’autonomia e dell’autogoverno è stato però Gianfranco Miglio. Nel suo modello, presentato per la prima volta nel 1994, la riforma degli enti locali si accompagnava a una riscrittura completa della Costituzione in senso federale. Oltre all’abolizione delle province, era proposta la conservazione delle Regioni esistenti che, per un migliore governo del territorio, avrebbero formato tre o quattro macroregioni disegnate secondo criteri afferenti alla geografia economica: una macroregione individuata nella Valle padana (Liguria, Piemonte, Lombardia, Veneto, Emilia Romagna); una nel Centro Italia (Toscana, Umbria, Marche, Lazio) e una nel Sud Italia (Abruzzo, Molise, Puglia, Calabria, Campania, Basilicata). Le 5 Regioni a Statuto speciale sarebbero state salvaguardate. Se vuoi saperne di più, ho trattato questo tema nell’articolo Le tre Repubbliche di Miglio.

Macroregione alpina

Il progetto migliano rivela in larga parte la sua attualità. Un’area rilevante della macroregione padana è stata riconosciuta dall’Unione Europea come parte integrante di una macroregione alpina estesa su un territorio di 450 mila chilometri quadrati comprendente 46 Regioni appartenenti a sette Stati diversi (Francia, Italia, Svizzera, Austria, Slovenia, Germania, Liechtenstein). Le Regioni italiane coinvolte nella macroregione alpina (EUSALP) sono cinque: Piemonte, Valle d’Aosta, Veneto, Lombardia, Friuli Venezia Giulia. A queste si aggiungono le Province autonome di Trento e Bolzano. In base all’accordo di Grenoble, firmato il 18 ottobre 2013, la macroregione alpina sarà oggetto di specifiche politiche europee: le Regioni potranno individuare e finanziare interventi comuni nelle materie dell’ambiente, delle infrastrutture, nonché delle politiche economiche e sociali. La costituzione della macroregione alpina si pone sullo stesso piano di analoghe esperienze portate avanti dall’Unione europea verso territori contraddistinti da lineamenti culturali e geofisici abbastanza precisi: è il caso della macroregione danubiana o della macroregione del Baltico.

Italia 4 Macroregioni copia
L’Italia formata da 9 enti territoriali: 4 Macroregioni e 5 Regioni a Statuto Speciale

Una macroregione padano alpina (costituita dall’unione di Piemonte, Liguria, Lombardia, Veneto) potrebbe essere integrata in un progetto di riforma federale teso non solo a conservare le Regioni a Statuto Speciale ma anche ad individuare le macroregioni sulla base dell’autonomia finanziaria, delle dinamiche geo-economiche, dei caratteri geofisici e soprattutto dei peculiari lineamenti storico culturali risalenti al periodo preunitario.

La macroregione tosco emiliana proposta da Galletti e Bonaccini potrebbe essere una scelta felice a patto che sia integrata in una più ampia riforma federale che preveda, oltre alla macroregione padano alpina, una macroregione del Centro Italia (composta da Marche, Umbria e Lazio e coincidente in via tendenziale con la parte di territorio rimasta più a lungo nello Stato pontificio) e una macroregione del Sud Italia (Abruzzo, Molise, Puglia, Basilicata, Campania, Calabria) ricalcata sulla parte continentale dell’antico Regno delle due Sicilie.

Le Regioni non dovrebbero scomparire. Ad esse spetterebbe l’amministrazione del territorio nelle materie di competenza macroregionale; inoltre i Presidenti delle Regioni, in quanto membri del Direttorio della macroregione, parteciperebbero direttamente a un esecutivo presieduto dal governatore della macroregione eletto direttamente dai cittadini.

Seguendo il modello di Costituzione di Miglio, si potrebbe estendere la forma direttoriale al governo federale che, presieduto da un Presidente della Repubblica eletto direttamente dai cittadini italiani, sarebbe composto dai Governatori delle quattro macroregioni (padano alpina, tosco-emiliana, Centro Italia, Sud Italia) e da un Presidente a turno annuale di Regione a Statuto Speciale.

I fondamenti del vero federalismo secondo Gianfranco Miglio

Questo articolo è uscito sul quotidiano online L’Indipendenza

Quali sono per Gianfranco Miglio i fondamenti di un vero regime federale? Nell’introduzione al volume Federalismi falsi e degenerati (Milano, Sperling&Kupfer 1997), Miglio elencava con grande chiarezza i pilastri su cui deve poggiare un regime fondato su un patto costituzionale in grado di salvaguardare e conciliare l’irriducibile diversità dei territori. Le vere Costituzioni federali sono quelle in cui:
“a) il federalismo è interno al sistema politico e ne costituisce l’asse portante”.
In tutti i sedicenti sistemi “federali” (Germania, Stati Uniti) o quasi “federali” è la prima Camera a rivestire un ruolo politico decisivo nella legislazione e – nei regimi parlamentari – a controllare il governo dandogli o togliendogli la fiducia. La Camera dei rappresentanti statunitense, il Bundestag tedesco sono collegi in cui dominano i grandi partiti “nazionali”, in cui i parlamentari sono eletti direttamente dal “popolo sovrano”. Quelli per Miglio erano falsi sistemi federali perché il federalismo tende ad essere confinato in una seconda camera (Bundesrat in Germania, Senato negli Stati Uniti) che ha uno scarso potere di controllo nei confronti del governo centrale. Se il federalismo deve essere l’asse portante del sistema, questo significa che per Miglio la Camera politica, quella in grado di controllare il governo federale deve essere l’assemblea in cui siedono i rappresentanti delle maggiori Comunità territoriali in cui si articola la Federazione. Nel modello costituzionale di Miglio l’Assemblea federale sarebbe formata dalla riunione periodica delle Diete (Parlamenti) delle tre Repubbliche i cui membri verrebbero eletti dalle rispettive popolazioni: 100 deputati dalla Padania, 100 dal Centro Italia, 100 dal Mezzogiorno. A questi 300 deputati si aggiungono i delegati dei Consigli delle 5 Regioni a Statuto speciale: 15 deputati siciliani, 10 sardi, 10 friulani, 6 dal Trentino Alto Adige/Sud Tirolo, 5 dalla Valle d’Aosta. In tutto 346 deputati con un taglio di 284 parlamentari rispetto ai 630 del nostro ordinamento.


“b) i poteri di governo e amministrazione sono distribuiti (e costituzionalmente garantiti) su almeno due livelli territoriali: Cantoni e Federazione.
La netta separazione di funzioni tra potere centrale e poteri locali era basilare per Miglio. Questo non accade nei falsi federalismi che si sono accennati. Ad esempio la Costituzione tedesca, quantunque stabilisca una separazione di funzioni tra Bund e Länder, non è stata in grado di evitare il netto prevalere dello Stato centrale nella legislazione e – in diversi casi – nella stessa amministrazione, un intervento reso necessario in Germania per assicurare su tutto il territorio i livelli di prestazioni pubbliche dello Stato sociale. Ma lo Stato sociale, scriveva Miglio, “è un sottoprodotto dello Stato unitario e centralizzato di grandi dimensioni” perchè legato a governi che dispongono di ingenti risorse finanziarie. “La falsa idea di trovarsi davanti ‘un corno dell’abbondanza’ di cui non si vede mai la fine, è infatti il fondamento delle politiche di scambio di favori e privilegi, contro sicurezza elettorale e permanenza della classe politica al potere”.
In Germania la revisione costituzionale del 1969 ha fissato i Gemeinschaftsaufgaben, i compiti comuni che, soprattutto in materia finanziaria, hanno finito per amputare l’autonomia dei territori facendo saltare l’originaria coerenza dell’ordinamento tedesco basato sulla divisione di competenze tra Bund e Länder. Una realtà ben presente a Miglio che scriveva: “Se l’equilibrio fra gli almeno due livelli di potere non è solidamente garantito – anche e soprattutto nei confronti degli Stati o Cantoni –  è fatale che chi detiene il potere centrale (federale) tenda ad allargarlo fino ad assorbire le prerogative dell’altro livello o a ridurlo a un significato puramente formale. Così deperiscono (e muoiono) le Costituzioni federali. Il maggior problema tecnico di queste ultime è rappresentato dalla necessità di stabilire espedienti i quali rendano molto difficile ai cittadini degli Stati o Cantoni di rinunciare alle loro prerogative. Perciò il miglior presidio di un ordinamento federale sta nella determinazione con cui il popolo è deciso a resistere contro le intimidazioni e, soprattutto, le suasioni dell’autorità centrale” (Federalismi falsi e degenerati, pp.XIV-XV).


“c) I Cantoni hanno dimensioni tali da poter assolvere la parte principale dell’attività governamentale, resistendo altresì all’eventuale potere di assorbimento dell’autorità federale”.
Le tre macroregioni (Nord, Centro, Sud) fissate dal professore nel Decalogo di Assago presentato nel dicembre 1993 sono individuate in base a criteri etno-linguistici, geo-economici e soprattutto funzionali. Miglio era convinto che non si potesse costruire un vero ordinamento federale partendo dalle venti Regioni attuali. Nel Modello di Costituzione federale per gli italiani scriveva: “Se si creasse una Federazione fra le 20 attuali Regioni, alcune di queste (le più grandi e forti) prenderebbero il volo, e controbilancerebbero validamente l’autorità federale; mentre le più piccole e più deboli, incapaci di assolvere i compiti loro attribuiti, si getterebbero tra le braccia proprio dei poteri federali. Il risultato finale sarebbe quello di una Repubblica squilibrata e dilacerata, e di una restaurazione a furor di popolo del governo centralizzato”. Previsione a un passo dal verificarsi se si pensa alle riforme costituzionali elaborate dal centro-destra (Lega Nord inclusa) e dal centro-sinistra.
“d) Tutte le regole che disciplinano il funzionamento del sistema sono ispirate al principio del contratto (negoziato) e della maggioranza qualificata”.
Il principio della maggioranza semplice, in una repubblica federale in cui vivono popolazioni diverse per storia, costumi, tradizioni, è una violenza intollerabile perché attenta i diritti delle minoranze. Nel volume Federalismo e Secessione (Milano, Mondadori 1997, pp.118-122) il professore rivolgeva una critica radicale al principio di maggioranza: “Cosa ha di più saggio la metà più uno degli uomini? Come si può accettare un criterio tanto rozzo, fondato in definitiva su quell’uno, cioé su di un numero talvolta piccolissimo, in una divisione del mondo nella quale da una parte vi è la metà, che soccombe, e dall’altra la metà più uno che vince? Quell’uno finisce per diventare l’arbitro, il signore della Comunità”. Il principio del contratto, tipico del diritto privato – in base al quale i territori decidono su un piano di parità, sforzandosi di convincere le controparti per raggiungere una mediazione che possa garantire le ragioni di ciascuno – è cosa ben diversa dalla legge o dal regolamento approvato a maggioranza semplice. Ogni atto giuridico dovrebbe essere il prodotto di un negoziato tra le parti. Questo spiega per quale motivo, nel modello di costituzione federale redatto da Miglio il governo è non solo direttoriale –  composto dai governatori delle maggiori Comunità in cui si compone la Federazione – ma esercita le sue funzioni secondo la regola della maggioranza qualificata. “Stabilirei come regola generale la maggioranza dei due terzi e, nel caso in cui non si raggiunga, richiederei il sorteggio. Si presuppone che una scelta condivisa da una larga maggioranza sia ‘più vera’ di quella condivisa soltanto da una minoranza, perché se riduciamo la minoranza ad un terzo o ad un quarto è evidente che esiste una qualche giustificazione al fatto che l’opinione dei pochi, eventualmente dei pochissimi, sia messa da parte” (Federalismo e Secessione, pag122). Il professore proponeva addirittura che il Direttorio federale approvasse all’unanimità materie cruciali quali l’introduzione di nuovi tributi a livello federale, il sostegno economico alle aree svantaggiatate, la legge di bilancio. Il ridotto numero dei membri che compongono il Direttorio (nel suo progetto non più di cinque o sei persone) renderebbe assai facile il raggiungimento dell’accordo in tempi certi e ridotti. Il professore aveva infatti abbozzato una regola d’oro che nel suo modello era in grado di garantire la governabilità: egli lasciava al Direttorio federale otto giorni di tempo per approvare un provvedimento, un Regolamento o un Decreto oggetto di controversie, al termine dei quali sarebbe scattata la “procedura di emergenza”: se entro una settimana il governo non fosse pervenuto a una decisione, i membri sarebbero decaduti dall’incarico e non avrebbero potuto ripresentarsi agli elettori per due legislature. “La minaccia efficace di togliere ai politici la poltrona su cui siedono – diceva nel presentare il suo modello – è un ottimo strumento per farli andare d’accordo nell’interesse del Paese!”.
“e) La Costituzione contiene procedure che rendano sempre certa e rapida la decisione degli affari di governo: per esempio la presenza di un Presidente coordinatore del Direttorio, eletto da tutti i cittadini della Federazione”.

Qui Miglio mostrava di accettare il presidenzialismo: pensava a un Presidente federale eletto direttamente dai cittadini, erede in parte delle funzioni esercitate oggi dal Capo dello Stato e dal Presidente del Consiglio. Il Presidente federale avrebbe nominato i ministri, che per entrare in carica avrebbero dovuto godere della fiducia del Direttorio. Un Presidente federale “ingabbiato” nel Direttorio. E’ precisamente quest’ultimo il vero e unico governo della Confederazione: composto, oltre che dal Presidente federale, dai Governatori dei tre Cantoni (eletti direttamente dalle rispettive popolazioni) e da un Presidente (a turno annuale) di Regione a Statuto Speciale.

“f) La struttura fiscale, coordinata dal Direttorio federale, poggia su due livelli: municipale e cantonale”. Come si vede, un principio completamente estraneo al “federalismo fiscale” italiano, che assegna allo Stato centrale la completa gestione delle imposte (dirette e indirette).

Le tre Repubbliche di Miglio

Questo articolo è uscito sul quotidiano online L’Indipendenza.

Il modello di Costituzione federale elaborato da Gianfranco Miglio prevede una riscrittura della Costituzione che riguarderebbe non solo la seconda parte, ma anche numerosi articoli contenuti nella prima parte e nei principi fondamentali. La stragrande maggioranza dei costituzionalisti ritiene che i primi articoli della Costituzione italiana siano intoccabili. Il professore comasco non era per nulla d’accordo: ho ascoltato tempo fa la registrazione di un’intervista del 1994 in cui sosteneva che la Carta del ’48 era rivoltabile come un calzino. A suo giudizio, l’unico articolo che non poteva essere modificato era il 139, ove è scritto esplicitamente che “la forma repubblicana non può essere oggetto di revisione costituzionale”. Naturale quindi che per Miglio fosse del tutto insensata una riforma limitata alla seconda parte della Carta, come invece ci propongono tutti i partiti italiani, dal centrodestra al centrosinistra compreso il Presidente della Repubblica. No, direbbe oggi il professore: “Le vere Costituzioni federali o sono tali o non lo sono”.
Ma veniamo al modello costituzionale elaborato da Miglio. Presentato al Congresso della Lega Lombarda tenuto Assago nel 1993, venne perfezionato e parzialmente modificato nelle pubblicazioni apparse negli anni successivi: il Modello di Costituzione federale per gli italiani uscito nel 1995, la prima edizione dell’Asino di Buridano (1999) e la seconda edizione del 2000.


I Principi fondamentali della Costituzione federale proposta da Miglio
Quali sarebbero i Principi fondamentali su cui dovrebbe poggiare la Repubblica federale italiana? Come andrebbe modificato ad esempio l’articolo quinto che oggi sancisce l’unità e l’indivisibilità dello Stato unitario?
Nell’Asino di Buridano il professore dava un’indicazione precisa:
“1. L’Italia è una Repubblica, radicata nei Municipi, e fondata su di un patto di unione fra le comunità naturali in cui i cittadini si articolano. La Repubblica è formata da quindici Regioni, raggruppate in tre Comunità regionali – Nord, Centro e Sud – e dalle cinque Regioni a Statuto Speciale, che hanno dignità di Comunità regionale, e possono adottare, nel loro Statuto, le istituzioni e le procedure previste per le Comunità regionali.
2. Il potere di decidere – sul piano legislativo, governamentale ed amministrativo – appartiene al popolo, il quale lo esercita o per mezzo dei suoi rappresentanti oppure direttamente (referendum). Una legge costituzionale definisce le forme di referendum, i “quorum” necessari, e le procedure che ne regolano lo svolgimento nelle diverse aree della Repubblica.
3. La Costituzione riconosce e garantisce i diritti individuali dell’uomo e stabilisce i doveri del cittadino. Nessun vincolo è posto alla circolazione ed all’attività dei cittadini sul territorio della Repubblica: tale libertà può essere limitata solo per motivi penali. La Costituzione garantisce le quattro fondamentali libertà europee: circolazione delle persone, dei capitali, delle merci e dei servizi. La libertà d’impresa è un diritto costituzionale”. (L’Asino di Buridano, Vicenza, Neri Pozza, 1999, pp.79-80).

Le tre Italie

I soggetti del patto federale coincidono in larga parte con le patrie etno-linguistiche o addirittura – è il caso del Sud Italia –  con antichi Stati preunitari. Nei progetti pubblicati nel corso degli anni cambiano i nomi delle comunità territoriali in cui dovrebbe articolarsi la Confederazione italiana: Repubbliche nel 1993, Cantoni nel 1995, Comunità regionali – come si è appena visto – nel 1999 e 2000. L’impianto del modello resta in larga parte immutato.
La Comunità regionale del Nord coincide con la Padania (Liguria, Piemonte, Lombardia, Veneto, Emilia Romagna) ove sono parlate le lingue padane gallo-italiche e venete; la Comunità regionale del Centro corrisponde in gran parte all’area ove sono parlate le lingue dell’italiano centrale o mediano (Marche, Umbria, Lazio e Toscana); la Comunità regionale del Sud Italia (Abruzzo, Molise, Puglia, Campania, Basilicata, Calabria) coincide con l’antico Regno di Napoli, territorio in cui sono parlate le lingue italiane meridionali.
Le cinque Regioni a Statuto speciale (Sicilia, Sardegna, Valle d’Aosta, Trentino Alto Adige/Sud Tirol, Friuli Venezia Giulia) vengono riconosciute nella loro peculiare identità, rese completamente autonome come avverrebbe per le tre Comunità regionali: istituzioni pienamente responsabili in materia di tassazione e imposte, non più dipendenti dai trasferimenti dello Stato centrale.
Miglio scriveva nel Modello di Costituzione federale per gli italiani (1995):
“Comunque si rigirino le cose, i Cantoni della Federazione devono essere formati dalle quindici Regioni a statuto ordinario, che già vengono abitualmente raggruppate a fini statistici e geo-economici (ma anche dal linguaggio quotidiano) – in tre aree: la Valle padana (Liguria, Piemonte, Lombardia, Veneto, Emilia-Romagna), l’Italia centrale (Toscana, Umbria, Lazio, Marche) e l’Italia meridionale (Abruzzo, Molise, Puglia, Campania, Basilicata, Calabria), unificate ciascuna da una innegabile omogeneità storico culturale”.
Le Regioni e i Municipi
Le Regioni non spariscono nel modello di Miglio. Il governo di ciascuna Repubblica (o Cantone o Comunità regionale a seconda delle varie fonti) è direttoriale: composto da un Governatore, eletto dai cittadini, e dai Presidenti delle Regioni comprese entro ciascuna Repubblica italiana. Scriveva nel Modello:
“Le Regioni non scompaiono affatto: perché il Cantone è in fondo, alle sue origini, un ‘consorzio di Regioni’ e il Cantone governa e amministra per mezzo delle Regioni i cui vertici costituiscono il governo del Cantone stesso. Ognuna delle quindici Regioni a Statuto ordinario potrà darsi la struttura interna e la legge elettorale che i suoi cittadini preferiscono. Però ognuna di esse deve culminare con un Presidente eletto direttamente dal popolo: perché i Presidenti delle Regioni comprese nel Cantone devono formare il Direttorio (governo) del Cantone stesso, guidato da un Governatore, eletto anch’esso da tutti i cittadini”. Le Province, inutili e costose per Miglio, vengono soppresse.


E i Municipi? La loro autonomia sarebbe pienamente riconosciuta in Costituzione, non prima di aver compiuto un accorpamento degli enti più piccoli mediante apposite Federazioni di Comuni composte da 15.000 abitanti:  “La scienza dell’amministrazione colloca a 15.000 il punto critico al di sotto e al di sopra del quale si alterano i valori di efficienza e partecipazione di un Comune” (Federalismo e Secessione, Milano, Sperling&Kupfer 1997, pag.105). Il professore non escludeva inoltre un controllo degli enti superiori nei confronti dell’ente comunale: “Secondo me i Comuni devono avere la possibilità di fissare le tasse, ma ritengo sia necessario porre un limite alla loro disponibilità. Faccio un esempio: supponiamo che, per sfrenata passione calcistica, un Comune stabilisca una inostenibile imposizione fiscale per costruire uno stadio fuori da ogni logica. Se anche la popolazione si dimostrasse entusiasta per il progetto e per un simile sperpero di denaro, questo dovrebbe essere impedito da un controllo cantonale” (Federalismo e Secessione, pag.103).
Il grado d’intervento dei Municipi nell’amministrazione del Cantone e della Confederazione nelle materie della politica ambientale, delle comunicazioni e dell’urbanistica era tuttavia notevole nel suo progetto. I Sindaci avrebbero composto le Consulte municipali. Nell’Asino di Buridano (1999) Miglio descriveva dettagliatamente la composizione e le funzioni delle Consulte municipali:
“Presso ogni Direttorio di Comunità regionale è costituita una Consulta municipale comunitaria formata da 30 Sindaci eletti da tutti i Sindaci della Comunità in ragione di 15 rappresentanti dei Comuni fino a 10.000 abitanti, 10 rappresentanti dei Comuni da 10.000 a 25.000 abitanti, 5 rappresentati dei Comuni con più di 25.000 abitanti.
Presso il Direttorio federale è costituita una Consulta municipale federale formata da 30 Sindaci eletti da tutti i Sindaci della Repubblica in ragione di 20 rappresentanti dei Comuni che abbiano fino a 100.000 abitanti, e 10 rappresentanti dei Comuni che abbiano più di 100.000 abitanti. I Sindaci dei Comuni i quali abbiano più di un milione di abitanti fanno parte di diritto della Consulta municipale federale”.
La procedura con cui le Consulte avrebbero espresso i loro pareri ai diversi livelli di governo (cantonali e federali) lascia trasparire il ruolo incisivo dei Municipi nel modello elaborato dal professore: “Il parere espresso da una Consulta municipale con una maggioranza dei due terzi dei componenti è vincolante per il rispettivo organo di governo presso il quale la Consulta è costituita”.

Gli esiti di una riforma costituzionale ispirata al modello di Gianfranco Miglio

Nel complesso le riforme proposte dal professore nel Modello di Costituzione federale contengono notevoli punti di forza. La nuova Costituzione presenterebbe:
–          una maggiore stabilità istituzionale con un governo di legislatura sciolto dal vincolo di maggioranza (forma di governo non parlamentare);
–          la separazione delle funzioni: chi ricopre cariche pubbliche negli organi rappresentativi (Consiglio comunale, Consiglio regionale, Dieta di una delle tre Repubbliche-Assemblea federale) non potrebbe esercitare funzioni amministrative o di governo (Sindaco, Governatore di Regione, Governatore di una delle tre Repubbliche, Presidente di una delle cinque Regioni a Statuto speciale, Presidente federale, Segretario di Stato): in tal modo si formerebbe nel tempo una classe politica responsabile, non sottoposta ai ricatti di parlamentari desiderosi di diventare ministri o governatori;
–          la separazione della magistratura inquirente dalla magistratura giudicante;




–      referendum propositivo deliberativi con l’attribuzione ai cittadini di un potere d’intervento nella legislazione e nell’amministrazione a tutti i livelli della Confederazione: dal Comune alla Regione, dalle Repubbliche o Cantoni alla Federazione (come in Svizzera).

Il presidenzialismo

Il professore comasco riteneva che il presidenzialismo fosse necessario per garantire stabilità al sistema politico: egli pensava a un Presidente federale eletto dagli italiani a suffragio universale e diretto, un presidente dotato in parte delle funzioni esercitate nel nostro ordinamento dal Presidente del Consiglio e dal Capo dello Stato. Miglio riteneva però indispensabile che il presidenzialismo venisse bilanciato da tre contrappesi: a) un forte federalismo istituzionale presente nella prima Camera (quella politica) e nella stessa composizione del governo; b) una Corte costituzionale modificata nella composizione e rafforzata nel suo ruolo di garante della nuova Costituzione; c) Referendum propositivo deliberativi per consentire ai cittadini di intervenire nelle questioni politiche e amministrative contro l’insorgere del dispotismo dei partiti cui è incline la democrazia puramente rappresentativa (modello svizzero).

L’Assemblea federale

Come si è detto, il Parlamento e il Governo centrale verrebbero composti in base al principio federale. Relativamente al Parlamento, la prima Camera – la sola cui spetterebbe il potere di sfiduciare il governo con una maggioranza dei due terzi  – sarebbe l’Assemblea federale e verrebbe formata dalla riunione periodica delle Diete (Parlamenti) delle tre Repubbliche i cui membri sono eletti dalle rispettive popolazioni: 100 deputati dalla Padania, 100 dal Centro Italia, 100 dal Mezzogiorno. A questi 300 deputati si aggiungono i delegati dei Consigli delle 5 Regioni a Statuto speciale: 15 deputati siciliani, 10 sardi, 10 friulani, 6 dal Trentino Alto Adige/Sud Tirolo, 5 dalla Valle d’Aosta. In tutto 346 deputati con un taglio di 284 parlamentari rispetto ai 630 del nostro ordinamento. Nel progetto del professore gran parte della funzione legislativa e amministrativa passerebbe alle tre Repubbliche e alle cinque Regioni a Statuto speciale. Le poche leggi federali e le ristrette funzioni amministrative lasciate alla Federazione sarebbero il risultato di un autentico compromesso tra i rappresentanti delle grandi aree del Paese che siedono nelle Diete riunite nella già ricordata Assemblea federale. Si otterrebbe in tal modo un considerevole risparmio di risorse, non foss’altro perché – lo ripetiamo – sarebbero gli stessi deputati delle Diete a riunirsi periodicamente per formare l’Assemblea federale: questa sarebbe la sola Camera politica della Confederazione, l’unica in grado di sfiduciare il governo con una maggioranza non inferiore ai due terzi che sia concorde nell’indicare un Presidente federale da opporre a quello sfiduciato (sfiducia costruttiva). La sfiducia del Presidente comporterebbe elezioni anticipate: i cittadini sarebbero chiamati a rinnovare le Diete e ad eleggere il Presidente federale scegliendolo tra la persona sfiduciata e il candidato indicato dall’Assemblea nella mozione di sfiducia.

Il Direttorio federale

Ma il federalismo istituzionale investirebbe anche la composizione del governo centrale: un Direttorio presieduto dal Presidente federale (eletto da tutti gli italiani), formato dai Governatori delle tre Repubbliche (anch’essi eletti dalle rispettive popolazioni) e dal Presidente (a turno annuale) di una delle cinque regioni a Statuto speciale. La nomina dei ministri (che nel modello di Miglio assumono la qualifica di “Segretari di Stato”) spetterebbe al Presidente federale, il quale dovrebbe però sottoporli alla fiducia del Direttorio. In altre parole, il Direttorio federale sarebbe un governo di legislatura destinato a durare in carica quattro anni. Un governo schiettamente federale che, a mio parere, Miglio avrebbe voluto dotare di funzioni non solo amministrative ma anche legislative (nelle poche competenze lasciate alla Confederazione italiana). L’Assemblea federale si riunirebbe periodicamente solo per discutere materie importanti per le quali si ritiene indispensabile una legge quadro federale. In tal modo verrebbe sancito il ruolo fondamentale rivestito dal governo nella legislazione, com’è avvenuto d’altra parte negli ultimi vent’anni con i governi di centro-destra e di centro-sinistra, i quali – nell’attuale ordinamento unitario retto sulla forma di governo parlamentare – hanno abusato dei decreti legge e dei decreti legislativi violando la lettera della Costituzione. Nel modello di Miglio tale scostamento tra Costituzione reale e Costituzione formale verrebbe finalmente a cessare: il governo federale avrebbe tutti gli strumenti per esercitare le funzioni senza degenerare in governo autoritario: ricordiamo che saremmo in un ordinamento federale – non più unitario – in cui i Governatori delle diverse Italie – eletti direttamente dalle rispettive popolazioni – compongono il Direttorio federale.

Il Senato legislativo

Nel progetto di Miglio è prevista una seconda Camera. E’ il “Senato legislativo”: una Camera di alta legislazione in gran parte tecnica, specializzata nella redazione dei progetti di legge riguardanti i Principi fondamentali e la prima parte della Costituzione. In questo modo Miglio riusciva finalmente a separare la funzione legislativa da quella propriamente politica, spettante all’Assemblea federale. Formato da 200 senatori in possesso dei titoli per essere eletti a tale ufficio, il Senato legislativo verrebbe eletto dai cittadini italiani con metodo proporzionale. Sarebbe l’unica Camera ‘unitaria’ della Repubblica, il cui ruolo – in un ordinamento veramente federale come quello delineato nel modello migliano – sarebbe confinato a una funzione meramente tecnica. Difatti l’Assemblea federale, riunendosi periodicamente perché i suoi deputati lavorerebbero nelle Diete delle tre Repubbliche italiane e nei Consigli delle Cinque Regioni a Statuto Speciale, affiderebbe al Senato la redazione di progetti di legge nelle materie di competenza federale, progetti che l’Assemblea, tornata a riunirsi, approverebbe in via definitiva con la possibilità di modificarli. Il Senato legislativo sarebbe l’unico collegio rappresentativo riunito stabilmente a Roma.

La Corte Costituzionale

Il potenziamento della Corte costituzionale era fondamentale per il professore. Nel Modello di Costituzione federale per gli italiani egli proponeva una modifica significativa nella composizione della Consulta: “La Corte dovrebbe essere composta da giudici nominati per un quarto dell’Assemblea federale, per un quarto della Diete e per una metà dalle supreme magistrature ordinarie e amministrative. I membri dovrebbero essere portati a venti [dai quindici attuali]”. Riteneva peraltro importante che fosse istituita una Sezione competente in merito all’amministrazione economica della Repubblica.
Il rafforzamento della Corte si otterrebbe in due modi. Anzitutto affidando al Presidente della Consulta (che durerebbe in carica un anno, sorteggiato tra i venti giudici costituzionali) le funzioni di garanzia esercitate oggi dal Capo dello Stato: val la pena ricordare ad esempio la firma e la promulgazione delle leggi, nonché il potere delicatissimo di sciogliere le Camere. In secondo luogo, la Corte verrebbe rafforzata mediante l’introduzione del Procuratore della Costituzione: un altissimo magistrato nominato dalla Consulta al di fuori di essa, tra i candidati in possesso dei requisiti per essere eletti giudici della Corte costituzionale. Il Procuratore, che durerebbe in carica sette anni, avrebbe il potere di impugnare davanti alla Corte tutte le leggi (federali e territoriali) e regolamenti (federali e territoriali) di dubbia costituzionalità. Giova infine ricordare che, nel modello di Miglio, il Procuratore della Costituzione costituirebbe il vertice della Magistratura inquirente e, nell’adozione dei provvedimenti disciplinari, agirebbe di concerto con una commissione di 8 membri eletta dal Senato legislativo.
Il modello di Costituzione federale presentato da Miglio renderebbe l’Italia una vera Repubblica federale, garantendo al Paese piena governabilità nel rispetto della sovranità dei cittadini, ma anche delle Comunità territoriali esistenti nella penisola.

La natura non federale del ‘federalismo municipale’

Un buon progetto di autonomia finanziaria dei Comuni che nulla ha però da spartire con il federalismo. Questo il giudizio di fondo che si ricava da una rapida lettura del decreto legislativo sul ‘federalismo municipale’; il decreto, che non è passato all’esame consultivo della ‘bicameralina’ per parità di voti (15 a 15 per il no decisivo del finiano Mario Baldassarri), verrà approvato tra pochi giorni in Parlamento per espressa volontà del governo, deciso a farlo passare con il voto di fiducia.

Quali sono in sostanza le linee di fondo di questa riforma? La normativa inciderà in misura notevole sull’autonomia dei Comuni. Oggi gli enti locali si finanziano potendo contare su proprie fonti di gettito e sui trasferimenti che lo Stato centrale attua in base al criterio della spesa storica. Tale criterio produce spesso inefficienza perché ogni anno i sindaci dei comuni male amministrati incassano la stessa ingente quantità di fondi; i cittadini di quei municipi, non avendo la percezione dei costi effettivi della macchina burocratica locale – costi oggi pagati in larga parte dallo Stato mediante i trasferimenti – non possono esercitare alcun controllo effettivo sulla destinazione di quei fondi. Con ogni probabilità le cose cambieranno sensibilmente con la nuova normativa.

I Comuni, soppressi i trasferimenti dello Stato centrale sulla base della spesa storica, potranno finanziarsi con una serie di strumenti che serviranno a pagare il fabbisogno standard, vale a dire il costo medio dei servizi essenziali che i Comuni dovranno sostenere tanto al Nord quanto al Sud. Il sindaco che vorrà incassare più risorse per garantire ulteriori servizi ai suoi cittadini, dovrà introdurre apposite “tasse di scopo”, il che lascia presupporre che sarà costretto ad operare in modo trasparente di fronte ai suoi amministrati.

La normativa predisposta dal governo ha il merito di decretare l’eliminazione o l’accorpamento di 10 delle 18 forme impositive attualmente esistenti. L’imposta municipale unica (IMU) raggrupperà gran parte delle attuali tasse comunali, a partire dall’Ici sulle seconde case e sugli esercizi commerciali. Val la pena ricordare, a tal proposito, che l’Ici sulle prime abitazioni non verrà reintrodotta come invece chiedevano i finiani.

Il secondo strumento cui potranno ricorrere i sindaci in seguito all’approvazione del decreto sul ‘federalismo municipale’ sarà l’imposta municipale secondaria (IMU2) nella quale verranno raggruppate altre tasse locali. I Comuni potranno poi beneficiare della cedolare secca sugli affitti, il cui gettito è stimato a un livello superore ai 15 miliardi di euro. E’ previsto inoltre lo sblocco dell’addizionale comunale Irpef, la cui soglia, come concordato dal governo con l’Anci (Associazione nazionale dei comuni italiani), non sarà superiore allo 0,4%. Dal 2014 i Comuni italiani, per finanziare la spesa standard, potranno infine ricorrere alla compartecipazione a una serie di tributi statali calcolata su base provinciale: l’imposta sul registro, l’imposta di bollo, l’imposta ipotecaria e catastale, l’Iva per 2,8 miliardi di euro.

Merita infine di essere ricordato che, a partire dal 2011, verrà costituito un fondo sperimentale di riequilibrio della durata di cinque anni: ad esso potranno attingere i Comuni che non saranno riusciti a coprire la spesa standard. Il fondo sarà alimentato dal gettito degli stessi tributi cui attingeranno i Comuni a partire dal 2014 mediante le già ricordate forme di compartecipazione.

Alcuni opinionisti hanno sostenuto che questa normativa finirà con l’aumentare il divario tra i Comuni del Nord e i Comuni del Sud. A ben vedere, se si tiene conto del fondo perequativo e delle varie forme di compartecipazione ai tributi erariali, è difficile pensare che i Comuni dei territori più poveri verranno considerevolmente penalizzati. Occorre invece riconoscere che il decreto del governo ha il merito di rendere più difficili sprechi di risorse pubbliche grazie all’introduzione della spesa standard che annullerà definitivamente l’opposto principio della spesa storica, causa di inefficienza e di spreco di risorse pubbliche.

Non c’è che dire: nel complesso è una buona normativa. Se una critica può esser mossa al governo, bisogna rilevare che il nome con cui è stata definita tale riforma (federalismo municipale) non ha niente da spartire con il suo contenuto, riguardante – come si è cercato di spiegare in questa sede – l’autonomia finanziaria dei municipi e nulla di più. Il decreto legislativo poggia sull’amministrazione finanziaria dello Stato unitario e presuppone l’esistenza di quest’ultima per la sua concreta realizzazione; il che, come è facile intuire, costituisce la palese negazione del federalismo. Nei decreti delegati approvati dal governo o in via di approvazione la fissazione delle imposte (dirette e indirette) e la loro riscossione non è competenza delle maggiori Comunità territoriali, come avverrebbe in un regime federale. Il presidente della Corte Costituzionale Ugo De Siervo in un’intervista del 4 febbraio scorso, nel commentare la legge sul “federalismo municipale” ha rilevato opportunamente il marchiano errore terminologico compiuto dal governo: “il federalismo è un processo di unificazione progressiva di Stati che erano sovrani verso un unico Stato gestore. Che cosa c’entra questo con l’autonomia finanziaria dei Comuni decisa dal Parlamento nazionale? Con il termine federalismo si spaccia ciò che è autonomismo degli enti locali” (intervista a cura di Donatella Stasio per “Il Sole 24 Ore”). Per capire come l’autonomia finanziaria dei comuni possa essere realizzata in un regime autenticamente federale, varrà la pena ricordare il caso della Svizzera, dove la legislazione tributaria dei Comuni, lungi dall’essere competenza della Confederazione, viene regolata in via esclusiva dai Cantoni; la compartecipazione dei Comuni avviene in quel paese con addizionali poste sui tributi cantonali, non sulle imposte federali. Ora, nel sedicente “federalismo municipale” le quote di compartecipazione riguardano i tributi dello Stato, tributi che vengono decisi e riscossi dall’amministrazione centrale. Insomma, a me pare che siamo lontani anni luce dai principi del federalismo.

Il caso Ruby mette a nudo le vergogne degli italiani

In rete sta circolando un breve scritto di Elsa Morante (1912-1985). 
Benito Mussolini è la persona su cui si concentrano le riflessioni della scrittrice. 
Lo riporto integralmente perché mi sembra attuale. 


A seguire, alcune mie considerazioni. 




“Il capo del Governo si macchiò ripetutamente durante la sua carriera di
delitti che, al cospetto di un popolo onesto, gli avrebbero meritato la
condanna, la vergogna e la privazione di ogni autorità di governo. Perché
il popolo tollerò e addirittura applaudì questi crimini? Una parte per
insensibilità morale, una parte per astuzia, una parte per interesse e
tornaconto personale. La maggioranza si rendeva naturalmente conto delle
sue attività criminali, ma preferiva dare il suo voto al forte piuttosto
che al giusto. Purtroppo il popolo italiano, se deve scegliere tra il
dovere e il tornaconto, pur conoscendo quale sarebbe il suo dovere, sceglie
sempre il tornaconto. 



Così un uomo mediocre, grossolano, di eloquenza volgare ma di facile
effetto, è un perfetto esemplare dei suoi contemporanei. Presso un popolo
onesto, sarebbe stato tutt’al più il leader di un partito di modesto
seguito, un personaggio un po’ ridicolo per le sue maniere, i suoi
atteggiamenti, le sue manie di grandezza, offensivo per il buon senso della
gente e causa del suo stile enfatico e impudico. In Italia è diventato il
capo del governo. Ed è difficile trovare un più completo esempio italiano.
Ammiratore della forza, venale, corruttibile e corrotto, cattolico senza
credere in Dio, presuntuoso, vanitoso, fintamente bonario, buon padre di
famiglia ma con numerose amanti, si serve di coloro che disprezza, si
circonda di disonesti, di bugiardi, di inetti, di profittatori; mimo abile,
e tale da fare effetto su un pubblico volgare, ma, come ogni mimo, senza un
proprio carattere, si immagina sempre di essere il personaggio che vuole
rappresentare.” 

Le indagini portate avanti dai pm di Milano nei confronti della vita privata del presidente del Consiglio hanno gettato il Paese in uno stato di turbamento e di profondo disagio. Mai come in questi giorni l’Italia ha dimostrato di essere alla deriva non solo in base ai valori etico morali, ma ancor più sul piano dei principi che stanno alla base dello Stato di diritto europeo liberal-democratico. Perché qui – bisogna esser chiari fino in fondo – a scandalizzare non è tanto la vita privata del presidente del consiglio. A suscitare indignazione è l’indifferenza, il disinteresse, la sostanziale apatia di noi italiani. 





Il popolo italiano non esiste. E’ sempre stata l’invenzione di una minoranza di poeti, intellettuali e politici spregiudicati. Gli italiani non sentono di appartenere a una comunità nazionale perché c’è sempre stata una classe politica  s e p a r a t a  dalla società che ha pensato per loro, che si è occupata di politica facendo – spesso male – quel che loro stessi avrebbero dovuto controllare che fosse fatto bene. Non c’è in Italia una cultura civica. Questo spiega l’apatia, l’indifferenza, il totale disinteresse di larga parte dei cittadini nei confronti della politica, buona o cattiva che sia.


Si può sostenere con relativa attendibilità che in 150 anni alcune minoranze hanno confezionato tre camice di forza per gli italiani: prima lo Stato monarchico (‘parlamentare’ e accentrato), poi lo Stato fascista (governativo e accentrato), infine la Repubblica italiana (parlamentare, decentrata e a tratti ‘autonomista’ ma in realtà partitocratica). Tre regimi imposti dall’alto, tre poteri pubblici nei quali gli italiani hanno recitato quasi sempre il ruolo di comparse: comparse buone in circostanze eccezionali per le manifestazioni in piazza o per le rivoluzioni  (pensiamo alle lotte partigiane combattute contro i nazi-fascisti al centro-nord), ma tenute  rigorosamente lontane dalle stanze del potere, chiamate a intervenire solo nel giorno delle elezioni.


E’ una storia che in fondo risale all’Unità. Prendiamo le leggi di unificazione amministrativa approvate dal governo il 20 marzo 1865 ed estese a tutta la penisola: la camicia, di taglia piemontese, venne fatta indossare ai popoli italiani senza coinvolgere le classi dirigenti, senza chieder loro se le misure fossero adatte alla costituzione naturale dei territori. Il risultato fu scontato: la classe politica ‘italiana’, nel timore di attentare all’Unità nazionale (eterno spauracchio agitato dalla classe politica contro qualunque riforma minacci di intaccare il suo potere), bocciò i timidi progetti regionalisti avanzati da Luigi Carlo Farini e da Marco Minghetti, ingabbiando il paese nel vestito di un nano (il piccolo Piemonte).


Ottantatrè anni dopo: stesso copione. Caduto il fascismo dopo vent’anni di dittatura, i nostri “padri costituenti” emanarono nel 1948 la Costituzione repubblicana guardandosi bene dal sottoporla a referendum. I francesi e gli spagnoli, riottenuta la libertà, agirono in modo diverso e chiesero al popolo di esprimersi con plebiscito sulle Costituzioni repubblicane. Da noi, nisba. Il popolo, chiamato due anni prima ad eleggere l’assemblea costituente, decise soltanto tra monarchia e repubblica. Scrisse a fine ottobre 1944 la Segreteria del Partito d’Azione dell’Alta Italia: “Che importa avere un presidente anziché un re se tutto l’apparato statale è fondato sul principio monarchico dell’autorità che scende dall’alto?” (Lettera aperta della Segreteria del Partito d’Azione dell’Alta Italia al comitato esecutivo del partito dell’Italia centro-meridionale, pubblicata in E. ROTELLI, L’avvento della Regione in Italia, Milano, Giuffré, 1967, pp.45-46). Sagge parole. Quel che avvenne è noto a tutti. Anziché rifondare l’ordinamento repubblicano su basi autonomiste e rendere democratici i Cln regionali, i partiti antifascisti scelsero di conservare l’apparato amministrativo dello Stato unitario. Un apparato amministrativo unitario e centralizzato che i fascisti avevano ricevuto in eredità dallo Stato liberale e avevano perfezionato in base alla logica autoritaria di Mussolini.


Anche negli anni della Repubblica lo Stato italiano continuò ad essere fondato sulla struttura unitaria e centralizzata della sua burocrazia, né valse l’introduzione delle Regioni (avvenuta negli anni Settanta del secolo scorso) a migliorare una situazione che divenne sempre più ingessata, pietrificata, irriformabile. Anzi. Le Regioni, lungi dall’esercitare le funzioni prima detenute da alcuni ministeri dello Stato centrale, finirono con il produrre nuova burocrazia e una congerie di uffici che appesantirono ulteriormente l’andamento dell’amministrazione pubblica.       


I difetti fondamentali che avevano segnato la fine dello Stato italiano nato dal Risorgimento finirono ben presto con il riformarsi inesorabilmente nella Repubblica Italiana. Ancora oggi, tutto viene imposto dall’alto. I cittadini sono concepiti alla stregua di minorenni eternamente immaturi. Basta guardare all’impianto della nostra Costituzione: una Carta fondata sulla centralità del Parlamento (quindi dei politici di professione) e sul ruolo marginale riservato ai cittadini e agli enti territoriali, nonostante la falsa riforma federale. Finché rimarrà questa tara, continueremo ad essere governati da una minoranza legale inevitabilmente staccata dal paese reale. Diciamolo chiaramente e una volta per tutte. Finché sarà in vigore questa Costituzione, l’Italia continuerà ad essere un Paese ove i professionisti della politica detengono il sostanziale monopolio del potere; dove i cittadini, concepiti come pupilli inadatti ad assumersi la responsabilità di decidere sui problemi più importanti, son tenuti lontano dalla politica attiva, condannati ad esprimersi nel giorno delle elezioni, nei casi alquanto rari in cui un referendum abrogativo raggiunga il quorum o nei casi in cui  i parlamentari votino una riforma della costituzione con una maggioranza inferiore ai due terzi.


La Costituzione vigente  concentra gran parte delle funzioni pubbliche negli istituti della democrazia rappresentativa, prerogativa di una classe politica normalmente mediocre. L’intellettuale meridionale Gaetano Salvemini, uno dei grandi interpreti del federalismo,  quando lesse la Costituzione del ’48, intuì con grande lucidità quel che sarebbe avvenuto e non esitò a sostenere che “il presente regime politico può essere definito il fascismo meno  Mussolini più le Regioni” (passo citato in E. ROTELLI, Regionalismo, in «Amministrare», a.XXXIV, n.3, dicembre 2004, pag.349). Non poteva dir meglio e il giudizio resta in larga parte valido nonostante il federalismo all’acqua di rose approvato dal centrosinistra nel 2000 e confermato dagli italiani con referendum.     


Ma, a ben vedere, questa situazione risale alla nostra ‘nascita’ come “Stato-Nazione”: lungi dal costruire una Confederazione di Stati nel rispetto delle piccole patrie facendo dialogare fra loro i popoli italiani (come chiedevano i federalisti cattolici e democratici), si volle cancellare d’un tratto e con violenza inaudita il patrimonio storico giuridico degli Stati preunitari, fondando sullo Stato piemontese il nuovo regime italiano. Si dirà che tale esito era inevitabile vista l’opposizione delle classi dirigenti preunitarie alla politica del Piemonte (Austria in primis). E’ vero. Questo tuttavia non basta a giustificare quanto avvenne in seguito all’unificazione, soprattutto nell’ex Regno delle Due Sicilie. Lo scollamento dei cittadini dalle istituzioni, la cesura tra paese reale e paese legale già presente in parte negli Stati preunitari, si acuì maggiormente con la fondazione dello Stato italiano.


In Svizzera avvenne il fenomeno inverso: la costruzione di un nuovo soggetto politico unitario (la Confederazione elvetica), quantunque fosse avvenuta  in modi e tempi diversi, non portò all’annientamento radicale delle radici statuali preunitarie. In Svizzera i Cantoni tendono ancora oggi ad essere i Cantoni preunitari. Possiamo dire lo stesso per le nostre Regioni? La risposta è evidentemente negativa.


Sempre in terra elvetica, nel 1874, venne introdotto il referendum legislativo per garantire piena voce al popolo allontanando il rischio che la concentrazione di alcune funzioni nella Confederazione rischiasse di produrre il dispotismo partitocratico. Oggi l’autentico federalismo a base cantonale e i referendum (propositivo deliberativi in campo legislativo e costituzionale) garantiscono alla Svizzera una vera democrazia. Beati loro. Noi dobbiamo fare i conti con lo strapotere dei partiti e con uno Stato nazionale inevitabilmente fittizio perché imposto dall’alto.


A voler essere paradossali, Berlusconi ha avuto il merito di mettere finalmente a nudo le vergogne degli italiani. Altro che 150 anni di Unità d’Italia! Il caso Berlusconi dimostra che l’Italia non esiste.


Se l’Italia esistesse e, come vanno dicendo, fosse uno Stato europeo di diritto liberal-democratico, sarebbe stato  impossibile al Cavaliere salire al potere e rimanerci così a lungo. Ma gli italiani, come scriveva bene la Morante, pensano al loro tornaconto, al loro particulare.


Il bene della comunità nazionale non esiste. E’ una sovrastruttura imposta da una minoranza che pensa “amorevolmente” per gli italiani. Il risultato? Una televisione di Stato gestita dai partiti, una stampa in larga parte asservita e due milioni di miliardi di debito pubblico.

La boutade di Bossi e i ministeri da riportare nelle ex capitali italiane

Il sindaco di Roma, Gianni Alemanno, ha detto no ad Umberto Bossi che ieri, al tradizionale raduno di Venezia, proponeva di decentrare alcuni ministeri nelle città italiane, in particolar modo nei maggiori centri della Padania. Tale ipotesi,, ha affermato Alemanno, sarebbe irrealizzabile perché, oltre ad avere costi altissimi, nuocerebbe gravemente alla funzionalità del governo. Sono seguite le dichiarazioni dei ministri Renato Brunetta, Maurizio Sacconi e Giancarlo Galan, i quali hanno tranquillizzato il sindaco di Roma affermando che in consiglio dei ministri non è stato presentato alcun disegno di legge che vada in quella direzione.

La proposta di Bossi sembrerebbe avere il sapore della boutade lanciata dal leader per galvanizzare i suoi seguaci. Eppure, a ben vedere, l’idea è assai meno peregrina di quanto si potrebbe immaginare.
Alemanno ha ragione nell’indicare i problemi economici legati al trasferimento del personale o all’acquisto di vasti edifici nelle città ove verrebbero fissate le sedi centrali dei dicasteri. Tuttavia, in una riforma dell’ordinamento repubblicano che vuole essere autenticamente federale mi sembra naturale mettere in conto, tra i vari provvedimenti, il decentramento di una parte dei ministeri che oggi hanno sede a Roma. Non credo siano spese inutili e, se fatte in modo sensato, contribuirebbero certamente ad avvicinare i cittadini alle istituzioni.

I tedeschi, quando fondarono la repubblica federale nel 1949, lungi dal concentrare nella capitale tutti i dicasteri, decisero fin dall’inizio di realizzare il decentramento dei ministeri rompendo definitivamente con la vecchia organizzazione accentrata di stile prussiano e in parte weimariano.

Uno studio pubblicato sedici anni fa dalla Fondazione Agnelli, Capitale reticolare e riforma dello Stato («XXI Secolo», anno VI, numero 1/9, gennaio 1994),  ha dimostrato come in Germania la soluzione di decentrare gli uffici federali nelle città tedesche si sia rivelata vincente e abbia consentito nel tempo il buongoverno del paese.

Certo, la riunificazione ha indotto i tedeschi  a trasferire a Berlino la sede centrale di molti ministeri. Questo tuttavia non ha impedito che molti uffici e dipartimenti pubblici restassero nelle altre città germaniche. Oggi, delle quattordici sedi centrali di ministeri federali, otto hanno sede a Berlino, sei nell’antica capitale della repubblica federale, la cittadina di Bonn. I supremi tribunali federali come la Corte Costituzionale e la Corte Suprema Federale hanno sede a Karlsruhe (Land Baden Wurtemberg); gli uffici centrali della Bundesbank, com’è fin troppo noto, sono a Francoforte (Land Assia).

Se vogliamo fare dell’Italia una repubblica federale, faremmo bene a prendere seriamente in considerazione la proposta della Lega. D’altra parte la storia italiana è caratterizzata dalla presenza secolare di città che furono antiche capitali di stati regionali, sedi di burocrazie fin dalla costituzione dei primi poteri pubblici territoriali.

In assenza di un disegno di legge, concludo lanciando un’ipotesi di spostamento di alcune istituzioni, ministeri e supremi tribunali dello stato in città italiane ex capitali:

Ministero dell’Università a Bologna
Ministero dell’Economia a Milano
Banca d’Italia a Milano
Ministero delle Infrastrutture e Trasporti a Milano
Consiglio di Stato a Genova
Corte Costituzionale a Venezia
Ministero della Difesa a Torino
Ministero dei Beni Culturali a Firenze
Ministero degli Affari Esteri a Roma
Direzioni generali del Ministero dell’Interno a Roma e a Modena
Ministero della Giustizia a Napoli
Direzioni generali del Ministero dell’Ambiente, Tutela del territorio e del Mare a Palermo e a Parma.

Caro Bersani, l’Ulivo non basta a far rinascere l’Italia…

Il leader del Partito Democratico, Pier Luigi Bersani, in un articolo apparso ieri su “Repubblica”, ha sostenuto che è tempo di costituire un nuovo grande Ulivo che sia in grado di realizzare il ‘miracolo’ del 1996: battere Berlusconi. Bersani non si è fermato qui. Ha bandito una “Santa Alleanza” che possa legare tutte le forze politiche che non si riconoscono nella cultura del ‘berlusconismo’. L’idea è quindi una sorta di alleanza costituzionale di cui facciano parte, oltre ai partiti dell’Ulivo (Pd e Di Pietro), le sinistre di Vendola e Ferrero, i centristi di Casini e i finiani. Romano Prodi, in un’intervista apparsa oggi sempre su “Repubblica”, ha plaudito all’iniziativa di Bersani, augurandosi che l’Ulivo cresca con maggiore slancio mediante l’inserimento di diserbanti, innesti e fertilizzanti perché “possa vivere abbastanza a lungo da produrre frutti sufficienti a risollevare le sorti dell’Italia”.

L’iniziativa di Bersani non credo vada nella direzione giusta. Essa si pone in una logica bipolare che a mio giudizio non regge in Italia perché non è in grado di produrre stabilità e quindi governabilità. Diciamolo una volta per tutte. Il bipolarismo è stato un fallimento: non è un bene nell’Italia berlusconiana di oggi, dove il Pdl – come ha detto ieri il premier – vorrebbe rappresentare il progresso e la spinta all’ammodernamento contro il vecchiume dei partiti di centro sinistra legati a una politica ciecamente conservatrice; non lo sarà in un futuro più o meno prossimo, se e quando la Santa Alleanza costituzionale riuscirà a vincere contro il Male incarnato dal centro destra: Berlusconi, la Lega Nord e tutti i partiti colpevoli di non riconoscersi interamente nei principi che sorreggono la Costituzione del ’48.

Come se ne esce? A mio giudizio occorre riconoscere che l’Italia non è un paese unito; è diviso – da sempre – in grandi aree tendenzialmente coincidenti con antichi Stati regionali, territori dove gli elettori votano diversamente perché influenzati da culture, tradizioni, storie e interessi economici molto diversi, se non addirittura opposti. Non si spiega altrimenti per quale motivo la Lega Nord e il Pdl berlusconiano siano nettamente vincenti nel Lombardo Veneto, mentre arranchino nel Nord Ovest e nel Centro Italia. I partiti di sinistra sono invece nettamente maggioritari nelle regioni a cavallo dell’appennino tosco emiliano, sono radicati in Liguria e nel torinese, ma non riescono a sfondare nel Sud Italia (fatta eccezione per la Puglia di Vendola) ove dominano le destre nazionaliste, tradizionaliste e autonomiste.

Credo non si possa ridurre a unità un paese così diviso, costringendo i perdenti a riconoscersi in una maggioranza che, lungi dal rappresentare l’Italia, ne rappresenta solo una parte. Il bipolarismo funziona in paesi di antica unità come Francia e Inghilterra oppure in paesi (gli Stati Uniti) dove il bipartitismo è stato importato dalla cultura anglosassone. A voler fare un paradosso, occorre recuperare lo spirito di mediazione della Prima Repubblica, attribuendo tuttavia non già ai partiti, ma ai rappresentanti dei territori il compito di governare nell’interesse del Paese. Un tale risultato può essere conseguito solo in un regime federale ove la tutela e la salvaguardia degli interessi territoriali sia adeguatamente riconosciuta e fatta convergere in una logica complessiva di unione.

Riprendendo il modello di costituzione federale redatto dal professor Miglio nel 1994, occorre quindi istituire un ordinamento federale strutturato su almeno due livelli: da una parte Stati regionali o Comunità regionali (che a mio giudizio dovrebbero essere i seguenti: Ligure Piemontese, Lombardo Veneta, Tosco Emiliana, Centro Italia, Sud Italia + 5 Regioni a Statuto speciale) che siano in grado di governarsi legiferando e amministrando in piena autonomia nella maggior parte delle materie oggi riservate allo Stato centrale; dall’altro il potere federale il cui governo dovrebbe consistere in un Direttorio presieduto da un Presidente della Repubblica eletto direttamente dagli italiani (presidenzialismo) e composto dai governatori dei cinque Stati (eletti anch’essi a suffragio universale e diretto dalle rispettive popolazioni), nonché da un rappresentante (a turno annuale) delle 5 Regioni a Statuto speciale (elevate a dignità di Stato regionale).

Se vi fosse un Direttorio noi avremmo un governo realmente capace di rappresentare la stragrande maggioranza degli italiani, in grado di produrre decisioni in tempi rapidi, non foss’altro che per il ristretto numero dei suoi componenti (7 direttori). Le decisioni verrebbero assunte a maggioranza in gran parte delle materie di competenza federale e all’unanimità nei casi in cui dovesse discutersi la legge finanziaria, il sostegno economico alle aree svantaggiate, l’introduzione di nuovi tributi, la cessione di nuove competenze agli Stati regionali o, viceversa, l’attribuzione provvisoria al governo federale di una parte delle funzioni detenute dai governi territoriali. Un Direttorio in cui un presidente della Repubblica eletto dagli italiani (sia egli di centro destra o di centro sinistra) dovrebbe mediare e decidere in tempi certi e costituzionalmente regolati assieme ai governatori di centro destra (presumibilmente i presidenti lombardo veneto e sud italiano) e di centro sinistra (presumibilmente i presidenti ligure piemontese, tosco emiliano e centro italiano).

E’ evidente che un tale programma potrà essere realizzato solo con una modifica della Costituzione. Il che è assai difficile nei tempi presenti. Sarebbe tuttavia auspicabile che i maggiori partiti (Lega, Pdl, Pd, Di Pietro) prendano atto che esiste non già un’Italia unita, ma più Italie e che solo facendole dialogare sarà possibile realizzare un vera unione senza violare gli insopprimibili diritti delle minoranze. Che è poi lo spirito del vero federalismo.