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ASL 2021: studi su Milano napoleonica e sulla città universitaria del primo ‘900

Il volume pubblicato dalla Società Storica Lombarda è dedicato alle istituzioni culturali e scientifiche che fiorirono in città nei primi anni del secolo scorso; la seconda sezione centrata sul bicentenario napoleonico e portiano.

L’Archivio Storico Lombardo 2021 (Milano, Scalpendi Editore, 415p). presenta contributi di notevole interesse nel campo degli studi storici. La prima sezione del libro è dedicata alla Milano degli anni Venti del Novecento, la seconda al bicentenario dalla morte di Napoleone e del poeta milanese Carlo Porta (1821-2021). In questa sede ci si soffermerà brevemente su queste parti, anche se occorre precisare che le altre sezioni del volume presentano saggi di notevole originalità, come ad esempio quello di Marino Viganò su Varese negli anni tormentati della dominazione francese del ducato di Milano (1499-1512; 1515-1521) oppure il contributo di Elisa Occhipinti sulle Tracce di Lombardia nella Divina Commedia ove è preso in esame il concetto medievale di Lombardia in Dante. 

Nella prima sezione dell’Annale 2021 i contributi prendono in esame le istituzioni universitarie e culturali esistenti nella Milano dei primi anni del XX secolo, una città interessata all’epoca da un profondo cambiamento nella sua struttura urbanistica. L’aumento demografico della popolazione, che superava largamente il mezzo milione di abitanti nel 1911 (600.612 cittadini) costrinse l’amministrazione a superare il vecchio piano regolatore Beruto sostituendolo a partire dal 1912 con quello Masera-Pavia: il nuovo piano creò le condizioni per l’imponente trasformazione del comune urbano. Varrà la pena ricordare in proposito la sostituzione dei viali alberati lungo il tracciato dei Bastioni, che furono demoliti per costruire nuove arterie stradali. 

Come mette in evidenza Adele Buratti Mazzotta nel saggio di introduzione alla prima sezione, il piano Masera-Pavia, nell’allargare ulteriormente la struttura urbanistica ad anelli concentrici fino a comprendere nuove aree dell’antico contado, intese rispondere all’accresciuta attività industriale della città; esso intese pure far fronte alla richiesta di nuove abitazioni dovuta all’aumento demografico che si è sopra ricordato. Fu in questa Milano in tumultuoso sviluppo urbanistico che si costruirono le prime case, rese effettive ad opera dell’Istituto Autonomo Case Popolari (fondato nel 1908) sotto la guida energica dell’architetto Giovanni Broglio.

In questa Milano rinnovata sorsero istituzioni universitarie e culturali destinate ad arricchire la vita sociale della città. Occorre ricordare in primo luogo il Politecnico, il cui edificio venne costruito nell’area un tempo agricola delle Cascine Doppie tra il 1915 e il 1927. Un’altra importante novità, come messo in evidenza nel saggio di Lorenzo Ornaghi, fu la fondazione nel 1921 dell’Università Cattolica per volontà di padre Agostino Gemelli e di un gruppo di cattolici italiani particolarmente sensibili al progresso della scienza e della cultura. La prima sede si trovava in via Sant’Agnese 2, poi trasferita nei chiostri bramanteschi dell’ex Ospedale Militare di Sant’Ambrogio negli anni Trenta. Padre Gemelli volle che i giovani cattolici italiani ricevessero una formazione rigorosa, informata ai più aggiornati metodi didattici allora esistenti, sul modello di atenei quali l’università di Lovanio o di Berlino: l’obiettivo era la costituzione di una classe dirigente cattolica culturalmente attrezzata per favorire la rinascita cristiana nell’Italia del primo Dopoguerra. 

Agli anni Venti del Novecento risale anche la fondazione dell’Università degli Studi di Milano: fu in seguito alla riforma Gentile che fu possibile costituire nel capoluogo lombardo un ateneo pubblico in grado di competere con quello antico e prestigioso di Pavia. Nel 1924 l’Università degli Studi con sede negli antichi chiostri dell’Ospedale Maggiore in via Festa del Perdono si aggiunse quindi alla Cattolica nel panorama delle istituzioni accademiche milanesi, articolata nelle facoltà di Medicina e Chirurgia, di Lettera e Filosofia, di Giurisprudenza, di Scienze fisiche, matematiche e sperimentali. 

Di notevole interesse per la qualità e l’originalità dei saggi è anche la seconda sezione dell’Annale dedicata come si è accennato al bicentenario napoleonico. Carlo Capra si sofferma sulle numerose pubblicazioni dedicate al tema negli ultimi due anni, prova di un rinnovato interesse per il periodo napoleonico. Di immediata lettura è ad esempio il libro di Andrea Merlotti e Paola Bianchi, Andare per l’Italia di Napoleone (Il Mulino, Bologna 2021)ove sono presi in esame i luoghi della penisola di più stretta relazione con la famiglia Bonaparte, con una penetrante analisi delle dimore e monumenti napoleonici i cui ambienti rivestirono un ruolo importante non solo nell’Italia del Risorgimento, ma anche nell’Italia liberale e negli anni del regime fascista. 

Un altro studio interessante è quello di Vittorio Criscuolo dedicato all’esilio di Sant’Elena e in particolar modo alla formazione del culto romantico di Napoleone (Ei fu. La morte di Napoleone, Bologna, Il Mulino 2021); sulla base delle memorie scritte negli ultimi anni della sua vita, Bonaparte volle essere ricordato come erede della Rivoluzione, promotore delle scienze e delle arti, combattente e difensore della libertà dei popoli. Un’immagine distante anni luce dall’effettivo stile di governo e dalla natura dei regimi autoritari ch’egli instaurò in Europa negli anni in cui il suo potere raggiunse l’apogeo; un’immagine ch’egli tuttavia riuscì a trasmettere con successo a tanti patrioti romantici che nel culto della sua memoria, nel ricordo delle gesta militari e delle esperienze fondamentali che pure furono possibili nel campo della cultura, delle arti, delle scienze nelle monarchie amministrative napoleoniche, trovarono ispirazione per immaginare un nuovo ordine costituzionale da opporre all’Europa conservatrice uscita dal Congresso di Vienna. 

Un altro saggio di notevole interesse è il contributo di storia demografica di Emanuele Pagano che, sulla base dello studio sistematico degli atti di matrimonio firmati dai nubendi davanti all’ufficiale di stato civile negli anni 1807, 1808 e 1809, ha preso in esame il tema dell’immigrazione, dei mestieri e delle professioni nella Milano capitale del regno italico: la modernità delle istituzioni napoleoniche con le novità portate in tanti ambiti della vita civile non intaccarono fenomeni di lunga durata come le scelte matrimoniali che coinvolsero famiglie che appartenevano nella stragrande maggioranza dei casi alla stessa classe sociale; relativamente alla mobilità del mercato del lavoro, Milano si confermava città di immigrazione di tanti lavoratori i cui territori di provenienza restavano però in gran parte quelli legati a Milano per la vicinanza geografica o per i tradizionali legami storico-culturali risalenti allo Stato di Milano di antico regime.

Occorre inoltre ricordare il saggio di Gian Marco Gaspari che si sofferma sull’ode in morte di Napoleone scritta da Pietro Custodi, ex funzionario del ministero delle finanze italico, celebre economista del primo Ottocento: la poesia, composta poco tempo dopo il celebre Cinque Maggio, è interessante perché, originata anch’essa dalla notizia della scomparsa dell’Empereur, rivela ideali e giudizi nei confronti di Napoleone notevolmente diversi da quelli di Manzoni. Se questi – come noto – rinviava ai posteri un giudizio complessivo sulle sue imprese, Custodi nei suoi versi non perdonò a Bonaparte di aver tradito gli ideali di libertà instaurando regimi autoritari le cui strutture amministrative servirono ai vincitori per rendere ancor più schiave le popolazioni conquistate.

Il 2021 è stato anche il bicentenario della morte del poeta milanese Carlo Porta. Nel saggio che chiude questa seconda sezione sui due bicentenari, Renato Marchi si è soffermato sullo studio del Giovanni Maria Visconti, opera che il Porta scrisse con Tommaso Grossi per uno spettacolo che si sarebbe dovuto tenere al Teatro della Canobbiana nel Carnevale del 1818. L’argomento, tratto dalla storia medievale di Milano, verteva sulle malefatte del duca Giovanni Maria Visconti: questi, assunto il governo del Ducato nel 1402 alla morte del padre Gian Galeazzo, venne assassinato nel 1412 nella chiesa di San Gottardo per una congiura di palazzo. L’opera teatrale, in stile tragicomico, mescola elementi di storia e di finzione, contiene parti in milanese e parti in italiano. Marchi ricostruisce le origini di questo lavoro, da cui risalta lo stile romantico di Grossi e Porta in un periodo storico caratterizzato dalla nota querelle tra classici e romantici. L’opera, scritta di getto in soli quindici giorni, non potè essere rappresentata a teatro per l’intervento di una censura austriaca in quegli anni particolarmente attiva. Varrà la pena ricordare in proposito la coeva chiusura del Conciliatore, la rivista cui collaborarono gli esponenti più illustri della Milano romantica.

La Galleria Vittorio Emanuele: incrocio di destini tra ‘800 e ‘900

Un volume di cultura milanese ripercorre la storia contrastata del celebre monumento del Mengoni e delle illustri personalità che ad esso furono legate

Il libro di Giovanna Ferrante, Galleria Vittorio Emanuele II. Un sogno di vetro e d’acciaio (Historica, Roma 2018, pp.115, euro 14) è un piccolo volume che ha il pregio di leggersi tutto d’un fiato. Un’opera che si può definire “anfibia” non foss’altro perché vi troviamo elementi che la avvicinano a un libro di storia, mentre altri la fanno rientrare nel genere della narrativa e questo per ragioni che esporremo più avanti. Il libro costituisce un ottimo strumento per conoscere uno dei monumenti più celebri di Milano, un volume particolarmente adatto a chi si avvicina per la prima volta alla storia della Galleria Vittorio Emanuele II.

GIOVANNA FERRANTE, Galleria Vittorio Emanuele II. Un sogno di vetro e acciaio. Historica, Roma 2018, 14 euro, 115 p.

L’autrice, che nel suo sito internet si definisce “meneghina doc ‘innamorata’ della sua città”, è attiva da tempo nel mondo della cultura ambrosiana: i suoi libri sono dedicati alla storia urbana, presa in esame nei vari campi dell’architettura, del costume, della cucina, della vita sociale e politica. Giovanna Ferrante, che in passato è stata autrice e conduttrice di trasmissioni radiofoniche presso Radio Meneghina, ha curato interessanti rubriche settimanali dedicate alla città. Insignita dell’Ambrogino d’Oro nel 2007, dal 2016 è responsabile della “Direzione Storie e Tradizioni milanesi” per il Centro Studi Grande Milano. L’autrice è quindi un’esperta di cultura milanese.

Il libro, come si è accennato, non è un’opera storica in senso stretto. E’ un racconto suggestivo in cui l’autrice ripercorre le controverse fasi di costruzione della Galleria Vittorio Emanuele II, facendo quasi rivivere le persone che ad essa furono legate in un modo o nell’altro: oltre alle analisi storiche condotte dalla Ferrante in merito ai tempi di realizzazione, all’inaugurazione e alle dimensioni di tale monumento, il lettore viene quasi portato per mano nella Milano dell’Otto e Novecento, come se fosse chiamato ad assistere a frammenti di vita quotidiana di personalità che furono legate alla storia della galleria. 

Efficace ad esempio il ritratto dell’architetto Giuseppe Mengoni – colui che vinse il concorso per la costruzione dell’edificio e lo realizzò nell’arco di più di dieci anni – descritto nell’atto di parlare al suo canarino o alla moglie mentre rivela i tormenti, le paure o le delusioni che lo attanagliavano. 

La Galleria Vittorio Emanuele all’ingresso verso Piazza del Duomo: a destra il primo Campari, a sinistra il secondo Campari (Camparino). Foto risalente ai primi anni del XX secolo.

Un’altra pagina di storia milanese è quella che si apre con il ritratto della famiglia Campari, che l’autrice disegna con grande efficacia narrativa facendo parlare la moglie di colui che fu il vero artefice del successo: Gaspare. Emigrato a Milano da Novara nella speranza di fare fortuna nell’attività di distillazione dei liquori e nella gestione di un caffè, nei primi anni Sessanta dell’Ottocento Gaspare aprì la sua attività nel Coperto dei Figini, un portico quattrocentesco che occupava il lato nord della piazza del Duomo. La demolizione di questo edificio dovuta all’allargamento della piazza e alla costruzione della Galleria non colse impreparato il commerciante novarese, che non esitò ad investire i suoi pochi fondi per prenotare uno spazio nel nuovo edificio. Il lettore apprende queste notizie dalle parole della signora Letizia, che possiamo immaginare con quale felicità avesse appreso dal marito che gran parte dei risparmi erano stati impiegati nella nuova impresa del Campari in Galleria: “Cosa stai dicendo? Non abbiamo ancora sistemato tutte le pendenze, stiamo appena cominciando a vedere i primi frutti di tanti pensieri e tanta fatica e adesso quest’altra bella novità! Gaspare, ma cosa ti viene in mente? Prima ancora di sapere cosa sarà questa nuova costruzione, no guarda, non posso crederci, hai prenotato una bottega in una Galleria che è ancora solo sulla carta” (pag,66). Da storico non posso che diffidare di questo racconto, frutto della pura immaginazione dell’autrice. E’ un discorso chiaramente inventato; ma come appare verosimile e, soprattutto, come si integra bene nel contesto storico che si sta descrivendo! Quelle non sono certo le parole di Letizia, ma qualcosa di quei pensieri dovette frullarle nella testa mentre il marito rischiava il suo patrimonio nell’investimento in Galleria. Gaspare vide giusto: il Campari divenne uno dei locali più rinomati di Milano e, mezzo secolo dopo, nel 1915, la famiglia riuscì perfino ad allargare la sua attività nel celebre passaggio vetrato del Mengoni aprendo, sul lato opposto (lato ovest), il Camparino, uno dei locali più caratteristici di Milano, tuttora esistente. 

Eugenio Torelli Viollier (1842-1900), primo direttore del “Corriere della Sera”.

L’analisi storica in questo libro si alterna così alla parte per così dire “narrativa”, rendendone accessibile la lettura anche a un pubblico di non specialisti. Si succedono le storie di Eugenio Torelli Viollier, primo direttore del “Corriere della Sera”; la prima sede del giornale si trovava in due stanze nell’ammezzato della galleria, un ufficio composto da tre redattori e quattro operai. L’autrice dedica particolare attenzione alla moglie del direttore, Maria Antonietta Torriani: fu la prima firma femminile della testata. Quella tra Torelli Viollier e la Torriani fu una relazione sofferta, dai risvolti tragici. La loro unione, durata due anni (1875-1877), fu bruscamente spezzata dalla morte improvvisa della nipote di Maria Antonietta, la giovanissima e avvenente Eva, suicidatasi mentre era ospite dei coniugi Viollier a Milano; la ragazza non resse agli attacchi di gelosia di Maria Antonietta, che l’aveva derisa davanti a conoscenti e amici, non perdonandole la relazione intima che il marito andava intrattenendo con lei. Nelle pagine della Ferrante si susseguono altre storie di personaggi che in un modo o nell’altro furono legati alla Galleria: da Ernest Hemingway a Umberto Boccioni, dal deputato radicale Felice Cavallotti agli scrittori veristi Giovanni Verga e Luigi Capuana.

Cosa è rimasto oggi di quel mondo? Come possiamo descrivere la Galleria Vittorio Emanuele al giorno d’oggi? Il monumento del Mengoni ha vissuto negli ultimi anni un’autentica evoluzione. Non si tratta solo di una diversa atmosfera che vi si respira. Ad essere cambiata sembra essere la stessa percezione che ne hanno i milanesi. Tale risultato è dipeso in buona parte dall’oculata gestione degli spazi che l’amministrazione comunale ha saputo condurre ormai da tempo. E’ di poche settimane la notizia che Giorgio Armani, dopo un confronto serrato con Tod’s, si è aggiudicato l’affitto di un locale (302 metri quadrati) ove fino a pochi mesi fa aveva sede un negozio TIM. Lo stilista ha così rafforzato la sua presenza nella Galleria ove hanno sede, ormai da anni, alcuni tra i marchi di moda più esclusivi: basti ricordare, per citarne alcuni, Prada, Luis Vuitton, Gucci.

Anche la presenza dei ristoranti si è in gran parte rinnovata ed arricchita: certo, c’è ancora il Savini, nei cui locali, tra la seconda metà dell’Ottocento e il XX secolo, si ritrovavano cantanti, attori, personalità della cultura, della classe dirigente e della classe politica italiana: qui esiste ancora il tavolo 7, un tempo riservato alla celebre cantante lirica Maria Callas e al suo compagno, l’armatore greco Aristotele Onassis. 

Carlo Cracco, chef pluripremiato, proprietario dell’omonimo ristorante in Galleria

L’arrivo di Cracco, che si è stabilito in alcuni locali del braccio meridionale, è stata una vera novità: il cuoco vicentino ha svecchiato il comparto della ristorazione di qualità, che in galleria era rimasto da troppi anni immutato per quanto concerne l’allestimento delle vetrine. Il risultato è pero che oggi il passaggio coperto del Mengoni è divenuto un salotto esclusivo, tempio del lusso, i cui spazi possono essere frequentati solo da una ricca clientela. E’ come se la galleria, da almeno un decennio, abbia finito per assumere una sua identità separata dal resto della città, un po’ come avviene nel celebre “Quadrilatero della Moda”. 

E’ vero che a riportarci alla Milano dei milanesi morigerati ci sono ancora negozi ‘normali’ come la libreria Rizzoli (oggi del Gruppo Mondadori) nel braccio nord o la Feltrinelli nel braccio sud. Esiste ancora il Camparino ove si può ammirare uno stupendo orologio risalente agli anni dell’Art Nouveau. Però l’impressione è appunto quella che ho tracciato sopra: la Galleria si è trasformata in uno spazio del lusso. 

Un tempo le cose non stavano così. Gli storici ci dicono che la Galleria, poco tempo dopo la sua costruzione, divenne sede di vivaci aziende del commercio, della ristorazione. Alcuni anni fa, in uno dei miei articoli, dimostrai addirittura come il passaggio coperto del Mengoni fosse divenuto nella seconda metà dell’Ottocento un punto di ritrovo per tutte le classi sociali, dagli umili artigiani fino all’intraprendente borghesia degli affari che viveva e lavorava nelle vicinanze. La Galleria costituì inoltre un luogo irrinunciabile anche per i tanti cantanti, ballerini e ballerine, attori e attrici, registi attivi nel vicino Teatro alla Scala. Non basta. Nella Milano ove sono ambientati i racconti di Giovanna Ferrante, ma anche nella città novecentesca la Galleria costituì una meta fondamentale per quanti lavoravano nelle vicinanze: dai funzionari delle vicine banche d’affari agli esponenti della classe politica milanese che svolgevano l’ufficio di consiglieri comunali o di assessori a Palazzo Marino, dagli impiegati pubblici alla vivace borghesia del commercio attiva nei negozi circostanti, tutti passarono sotto il monumento del Mengoni: un’opera destinata a divenire ben presto uno dei simboli di Milano.

Il cuore pulsante di Milano

Un libro ripercorre la storia della città ambrosiana dalle origini fino ai tempi presenti, individuandone i tratti peculiari e le costanti nel tempo.

Negli ultimi anni la formula “modello Milano” viene costantemente ripetuta da politici, esponenti della classe dirigente e da imprenditori per descrivere un tipo di convivenza civile – quella milanese – che mette al centro la solidarietà e l’operosità dei suoi membri, i quali lavorano al servizio della comunità facendo ciascuno la sua parte. E’ un termine spesso abusato, che trova però un suo fondamento storico: nel corso dei secoli, dalla tarda antichità al Medioevo, dall’Età Moderna ad oggi, la città di Ambrogio ha saputo crescere e progredire grazie alla capacità dei milanesi di rispondere concretamente alle sfide dei tempi: le fratture e le violente divisioni interne – che pure vi furono tra le diverse comunità e famiglie – vennero di volta in volta ricomposte in nome del bene comune. In particolar modo a partire dal Medioevo, la società milanese nelle sue articolazioni cetuali riuscì a intessere con i reggitori del potere un dialogo costruttivo per la tutela dei suoi interessi economici e politici.

“The Milan’s Heart. Identity and History of a European Metropolis”, edited by Danilo Zardin, Milano, Scalpendi editore, 2019, pp.207, 15 euro.

Questa caratteristica di lungo periodo nella storia di Milano è al centro del bel libro The Milan’s heart. Identity and history of a European metropolis (Scalpendi Editore, Milano 2019, 207 p.): si tratta della nuova edizione in inglese, corredata da un elegante apparato di immagini, di un volume curato dal professor Danilo Zardin nel 2012 avente per titolo Il Cuore di Milano. Identità e storia di una “capitale morale” (Rizzoli editore). Vi sono raccolti saggi di storici che hanno posto al centro della loro analisi scientifica il ruolo di Milano nella civiltà europea e i tratti distintivi della sua costituzione interna.

Quali sono gli elementi di lunga durata che caratterizzano il senso di appartenenza alla comunità milanese? In primo luogo, il civismo e una operosa solidarietà, la capacità di accettare il diverso raccogliendo le sfide dei tempi per un modello innovativo di convivenza. Questo avvenne ad esempio nella Milano capitale dell’Impero Romano d’Occidente, quando nel 313 d.C. l’imperatore Costantino vi pubblicò il celebre editto di tolleranza che consentiva ai cattolici di praticare liberamente il loro culto non diversamente da quanto i Romani avevano permesso fino a quel momento alle altre confessioni religiose. Nasce qui la prima forma di quel “modello Milano” cui si è fatto cenno poco sopra, esempio di convivenza tra diversi che si rispettano, vivono e lavorano nell’obbedienza alle leggi.

Agostino Comerio, “Ritratto dell’imperatrice Maria Teresa di Asburgo”, 1834, Milano, Biblioteca Nazionale Braidense, Salone Maria Teresa.

Un secondo tratto distintivo di Milano risiede nel suo spirito riformatore, nella capacità di aprirsi al nuovo, di adattare le istituzioni e le politiche di governo ai bisogni della società. Un caso per certi versi emblematico è costituito dal riformismo settecentesco che svecchiò l’amministrazione del Ducato di Milano avvicinandola a quella di uno Stato moderno. In effetti, come ha dimostrato Carlo Capra, in Lombardia le riforme absburgiche furono portate avanti per volontà dei governanti austriaci (l’imperatrice Maria Teresa di Asburgo, l’imperatore Giuseppe II) e videro l’attivo coinvolgimento di funzionari provenienti da altri territori della monarchia (basti pensare al cancelliere di Stato, il viennese di origini morave Anton Wenzel von Kaunitz Rittberg, al trentino Carlo Giuseppe di Firmian, all’istriano Gian Rinaldo Carli, al toscano Pompeo Neri); non va tuttavia sottovalutato il contributo di un patriziato milanese aperto al nuovo, tra i cui esponenti più noti val la pena ricordare Cesare Beccaria e Pietro Verri: dapprima quali intellettuali attivi nel celebre periodico “Il Caffè”, poi nel ruolo di funzionari pubblici al servizio della monarchia austriaca, essi parteciparono attivamente all’attuazione delle riforme illuminate nei campi della giustizia, dell’economia, dell’agricoltura, del commercio. Le riforme del Settecento illuminato in Lombardia (ricordiamo ad esempio quella sull’autoamministrazione delle comunità locali del 1755 o del catasto particellare del 1760), costituirono il primo stadio di un rinnovamento istituzionale che toccherà il vertice negli anni della Repubblica Italiana e del Regno italico (1802-1814), quando il governo napoleonico avrebbe contribuito in modo decisivo a rinnovare le strutture della società. Le riforme absburgiche e napoleoniche fecero di Milano un vero e proprio laboratorio della modernità e questo nonostante le resistenze conservatrici che pure vi furono.

Filippo Abbiati, Solenne ingresso di San Carlo Borromeo a Milano, 1670-1680, Milano, Duomo.

Un altro esempio di riformismo autenticamente milanese riguarda il governo della chiesa ambrosiana. Esso è costituito dall’azione incisiva dell’arcivescovo di Milano, Carlo Borromeo, il quale negli anni del suo ministero al vertice della curia milanese (1564-1584) fece della diocesi un territorio all’avanguardia nell’applicazione rigorosa dei canoni della Riforma Cattolica fissati dal Concilio di Trento. Il riformismo borromaico si radicò in profondità: le articolazioni cetuali della società milanese furono informate allo spirito di una devotio vissuta con appassionato fervore. Il coinvolgimento del fitto tessuto delle confraternite laicali, la fondazione di seminari e collegi per la formazione del clero, le Scuole della Dottrina Cristiana per l’educazione dei giovani, la pubblicazione di opuscoli e libri in italiano per aiutare i laici ad affrontare le difficoltà della vita orientando le opere allo spirito cristiano, furono interventi che segnarono profondamente l’identità milanese. A tal proposito, facendo stampare in italiano catechismi, testi contenenti istruzioni morali, libri spirituali e pedagogici per ciascun ordine o categoria della società (militari, padri e madri di famiglia, capi di bottega), il Borromeo diede un contributo di primo piano alla diffusione dell’alfabetismo in Lombardia già alla fine del XVI secolo. Questo riformismo ambrosiano venne continuato, con accenti e strategie diverse, dal nipote Federico Borromeo (arcivescovo dal 1595 al 1631) e dal successore di questi, il cardinale Cesare Monti (1631-1650). Come ha messo in evidenza il professor Danilo Zardin nel saggio Da Carlo a Federico Borromeo: alle origini di una nuova identità “ambrosiana” (nella edizione inglese From Carlo to Federico Borromeo: at the Origins of a new “ambrosian identity”, pp.95-102), alla battagliera opera di San Carlo per un riforma della società che lo portò a scontrarsi in più occasioni con le istituzioni civili del Ducato di Milano, i due presuli sostituirono una più prudente azione pastorale che puntò soprattutto a rafforzare le istituzioni culturali nella diocesi per una discreta ma non meno profonda formazione degli spiriti: basti pensare alla Biblioteca Ambrosiana aperta dal cardinal Federico nel 1609 per chiunque avesse desiderato leggere ed istruirsi.

Purtroppo non è possibile soffermarsi sui tanti temi che sono affrontati in questo libro. Avviandomi alla conclusione, credo che un terzo tratto distintivo di Milano risieda nella sua natura internazionale, nell’apertura al mondo, al diverso. La città ambrosiana è infatti una metropoli profondamente europea per stili di vita, costumi, economia, cultura. Credo che la naturale disposizione a vivere e operare entrando in stretta relazione con ambienti internazionali vada ricercata – come notò acutamente Giorgio Rumi in un interessante saggio del 1993 (G. Rumi, Milano e l’Europa in AA.VV., Ottocento romantico e civile. Studi in memoria di Ettore Passerin d’Entrèves. Milano, Vita e Pensiero 1993, pp.343-350) – nei secoli in cui il Ducato di Milano venne incorporato entro la sfera di governo di poteri pubblici plurinazionali: la monarchia absburgica spagnola dalla metà del XVI secolo al 1706, i domini degli Asburgo di Vienna dal 1706 al 1796. In questi vasti imperi, composti da territori con tradizioni giuridico amministrative assai diverse, i milanesi riuscirono per secoli a tutelare i loro interessi economici e politici grazie alla distanza che li separava dai centri di potere entro il cui dominio pure si trovavano. Persa l’indipendenza politica nel 1499, il Ducato di Milano ebbe riconosciute dai Francesi , dagli Asburgo di Spagna e per buona parte del Settecento anche dagli Asburgo di Vienna le sue storiche autonomie giuridico-amministrative risalenti al periodo visconteo-sforzesco. I milanesi dovettero però accettare la sovranità di monarchi le cui corti si trovavano oltralpe, assai distanti dall’Italia cisalpina. Eppure non sembra azzardato ritenere che la natura internazionale di Milano – già presente nell’Età antica e nel Medioevo – si sia rafforzata ancor più in questo periodo, quando i milanesi furono obbligati a confrontarsi con burocrazie europee (spagnola prima, austriaca poi) in un dialogo costruttivo con i sovrani absburgici: questo permise loro di intervenire negli organi consiliari (a Madrid come a Vienna), che garantivano la rappresentanza dei diversi territori al centro della monarchia. Di qui un’apertura costante al diverso e un’attitudine a confrontarsi con politiche pubbliche che superavano la sfera regionale, poste com’erano in una dimensione internazionale.

I Colombitt di Santa Caterina alla Ruota

E’ stata di grande interesse la conferenza organizzata dalla Società Storica Lombarda il 2 febbraio scorso presso l’Archivio di Stato di Milano. Relatrice la storica Flores Reggiani, che ha svolto una relazione sul tema dell’infanzia abbandonata a Milano dall’antico regime alla fine dell’Ottocento. Muovendo da un esame rigoroso della documentazione conservata presso gli archivi del brefotrofio e dell’Ospedale Maggiore di Milano, la Dottoressa Reggiani ha ripercorso le tappe dell’assistenza all’infanzia abbandonata in età moderna, un tema che è stato al centro dei suoi studi negli ultimi anni. Si segnalano in proposito il volume F. Reggiani, “Sotto le ali della colomba”. Famiglie assistenziali e relazioni di genere a Milano dall’Età Moderna alla Restaurazione. Milano, Viella 2014 e, per l’argomento che qui interessa, “Si consegna questo figlio”. L’assistenza all’infanzia e alla maternità dalla Cà Granda alla Provincia di Milano (1456-1920), a cura di F. Reggiani, M. Canella, L. Dodi, Milano, Skira 2008.

Oggi il tema della povertà è particolarmente sentito in Italia. Nei secoli dell’Età Moderna (XVI-XVII-XVIII e XIX secolo), la situazione era per molti versi simile se non addirittura peggiore: gran parte delle persone viveva in condizioni di estrema indigenza. L’ambiente familiare era fragile. Nulla di simile al tipo di famiglia europeo del Novecento, basato sulla permanenza dei piccoli nella casa dei genitori e fondato sulla sfera sentimentale degli affetti che lega i membri del nucleo familiare. Nell’antico regime e ancora nell’Ottocento la situazione era diversa. Si pensi all’istituto del baliatico: l’usanza di fare allattare i figli da una balia retribuita era diffusa tanto presso la nobiltà quanto presso le famiglie della borghesia e dei contadini.

D’altra parte, i figli di una famiglia povera lasciavano la casa paterna per lavorare nelle botteghe degli artigiani già all’età di 6 o 7 anni. Il quadro non cambiava nelle cerchie della nobiltà ove molti bambini erano collocati a corte come paggi. La separazione dei figli in età precoce dai genitori era quindi un fenomeno diffuso.

L’alto tasso di mortalità, esistente a quell’epoca, rendeva assai facile restare orfani in tenera età. C’erano poi i neonati abbandonati, lasciati dai genitori nelle pubbliche vie o portati nei luoghi pii. E’ il tema centrale affrontato dalla storica Reggiani, che ha spiegato come questo fenomeno assunse in Età Moderna dimensioni talmente ampie da essere percepito dai contemporanei come un fatto comune.

Chi erano esattamente gli esposti? Nella società d’antico regime, intrisa da una profonda cultura cristiana che si manifestava nelle forme della pietà e della devozione popolare, era nota la vicenda di Mosè: la cesta contenente il bimbo Mosé era stata lasciata dai genitori non già sul Nilo, ma sulle rive del fiume affinché potesse essere trovata. Questo spiega per quale motivo, sulle orme di una tradizione religiosa che aiutava a percepire il fenomeno come non estraneo alla cultura occidentale, nel Medioevo e nell’Età Moderna le famiglie che abbandonavano i bambini non lo facevano con l’intento di ucciderli, bensì con il fine di affidarli a qualcuno che potesse esercitare quel ruolo ch’essi non potevano svolgere per ragioni economiche.

Se esaminiamo il decreto del 17 gennaio del 1812 emanato nel Regno d’Italia napoleonico, troviamo una definizione precisa degli esposti: “nati da padri e madri sconosciuti, sono trovati in un luogo qualunque, ovvero sono portati nei luoghi pii destinati a riceverli”. Seguiva la descrizione del Luogo Pio: “In ogni Luogo Pio, destinato a ricevere figli esposti, vi sarà una ruota o torno in cui saranno deposti”.

I genitori potevano quindi lasciare il bambino in un luogo pubblico, come nella vicenda di Mosé, affinché il neonato fosse trovato facilmente. Spesso tuttavia il padre o la madre preferivano lasciare il bimbo a un’istituzione assistenziale specializzata, il luogo pio ove “la ruota o torno” consentiva la consegna del bimbo mantenendo l’anonimato dei genitori.

Quale ruolo aveva il brefotrofio nella cura di questi bambini? Scriveva Vincenzo Borghini (1515-1580), spedalingo (direttore) dell’Ospedale degli Innocenti di Firenze:

L’ospedale piglia cura di quelli che so’ gettati via dal proprio padre et madre, et diviene loro padre in tutto e per tutto per averne cura come padre de’ suoi figliuoli.

Le persone che vivevano e lavoravano nel luogo pio accudivano i bimbi con la stessa cura di un genitore.

A Milano il primo istituto dedito all’infanzia abbandonata fu lo xenodochio fondato dal sacerdote Dateo (741-799 d.C.) nel 787 d.C. E’ significativo che tuttora, in piazzale Dateo, abbia sede un brefotrofio attivo dal primo decennio del Novecento. Nel Medioevo si aggiunsero altri hospitali finché nel 1456 la costruzione dell’Ospedale Maggiore rese possibile la formazione di una fitta rete di istituti assistenziali: essi garantirono ai milanesi, almeno fino al 1780, una protezione sociale tra le più avanzate in Europa.

La pia casa degli esposti e delle partorienti di Santa Caterina alla Ruota al di là del Naviglio in un acquerello di Giannino Grossi. L’edificio venne demolito agli inizi del Novecento per costruire il nuovo Ospedale Maggiore di via Francesco Sforza.

Al 1781 risale la fondazione della casa degli esposti e delle partorienti di Santa Caterina alla Ruota. L’istituto, eretto nei locali di un monastero soppresso, si trovava a pochi passi dall’Ospedale Maggiore, nella parte della città conosciuta come “borgo di Porta Romana” tra il Naviglio interno e i Bastioni. Questi spazi sono oggi occupati dai padiglioni del Policlinico. Il brefotrofio di Santa Caterina, attivo dal 1781 al 1863, era finanziato con donazioni ed elemosine private, il più delle volte – come avveniva per la Cà Granda – provenienti dalle ricche famiglie nobili o borghesi.

Il fenomeno dell’affidamento dei bambini alla casa degli esposti presentava diverse modalità. Un quarto degli ingressi avveniva mediante un incontro “ufficiale” tra la famiglia povera e i responsabili dell’istituto. Nel 50% dei casi i bimbi erano messi invece nella ruota, una modalità che garantiva l’anonimato dei genitori. Assieme al bimbo, il genitore lasciava un piccolo foglietto di carta tagliato a metà e una nota in cui spiegava il motivo dell’abbandono. Metà del foglietto era staccata perché, a distanza di tempo, la famiglia intenzionata a riprenderlo potesse riconoscerlo in base all’altra metà del contrassegno.

I bimbi allevati dal brefotrofio erano chiamati in dialetto milanese Colombitt, un soprannome che traeva origine dall’insegna di Santa Caterina costituita da una colomba. Le analisi della storica Reggiani mostrano che le richieste di assistenza nei luoghi pii e nei brefotrofi milanesi furono decine di migliaia dal 1659 fino agli anni Settanta del secolo scorso. Il picco fu raggiunto nel periodo 1781-1868, quando si toccarono ben 223.012 casi: un fenomeno che conferma ampiamente la definizione dell’Ottocento come “secolo dei trovatelli”. L’abbandono dei figli era dovuto non solo alla già citata povertà dei genitori, ma anche alla difficile condizione in cui si trovavano le madri, costrette a lavorare anch’esse per sopravvivere in un’epoca in cui non esistevano strutture ricettive come gli asili nido. Molte donne lasciavano i figli alla casa di Santa Caterina perché potessero essere allattati da una balia gratuita nei primi due anni. Al bambino era assegnato un numero progressivo che, a fianco dell’anno di consegna, accompagnava la sua pratica nel corso del tempo.

Interessanti i verbali in cui erano trascritti i biglietti lasciati dai genitori vicino al bimbo. Si legga ad esempio questa nota del 1679:

Illustrissimi Signori, la necessità grande di una povera vedova che pochi giorni sono che le è mancato il marito, ritrovandosi una figlia e non sapendo come tenerla, ha pensato ricorrere alla carità di lor signori…spera dopo bali ita [dopo che sia stata tenuta a balia] di tornare a ricuperarla per carità sia tenuta conto perchè è di legittimo matrimonio.

Non molto diversa la motivazione scritta nel 1839 da un altro genitore:

Io racomando questo mio figlio fu batezato in nome Martino è nasuto il giurno di Santo Martino …nato da legittimo matrimonio, che non ha mai avuto mal cattivo e faco questo per essere in gran bisogno…ho 8 figli viventi … raccomando di fare l’impossibile e di dare subito una balia…che prometto di venire a prendere…io sono abitante in Milano

I bambini erano mandati nelle campagne (spesso nell’alto milanese e nel varesotto…di qui la diffusione del cognome Colombo in quelle zone) presso famiglie affidatarie, le cui balie ricevevano un salario dall’ospedale per allattarli fino al secondo anno di età. Venivano quindi svezzati, educati e impiegati nei lavori agricoli.

Ai genitori che fossero tornati a riprendersi i figli dopo molti anni, la casa degli esposti non chiedeva alcun compenso, diversamente da altri istituti che operavano in Italia e in Europa. In molti casi i genitori se li riprendevano quando avevano raggiunto un’età di 6,7,9 o 11 anni per farli lavorare nell’economia domestica oppure per disporre di persone che fossero poi in grado di accudirli nella vecchiaia.

Dopo l’Unità d’Italia, l’amministrazione della pia casa di Santa Caterina alla Ruota passò in gestione alla Provincia di Milano, che la tenne in funzione fino al 1868. La chiusura della “ruota”, avvenuta in quell’anno, segnò un cambiamento profondo nelle abitudini dei milanesi che versavano in povere condizioni.

Riapre il Lirico sulle orme di un illustre passato

Il Comune di Milano ha affidato la gestione del Teatro Lirico alla società olandese Stage enterteinment Srl per un periodo di 12 anni. Il teatro, rimasto chiuso dal 1999, dovrebbe riaprire nei primi mesi del 2018. La società olandese ha messo a punto un nutrito piano di iniziative. La programmazione degli spettacoli sarà affidata a diversi direttori a seconda dei tipi di iniziative messe in campo: Renato Pozzetto si occuperà della parte relativa alla comicità e al cabaret, mentre J-Ax curerà gli eventi di musica leggera per giovani. Gli eventi di musica classica e di musica lirica saranno affidati a Roberto Favaro, vicedirettore di Brera. I concerti Jazz  ad Enrico Intra, mentre Chris Baldock si occuperà degli spettacoli legati alla danza.

Il Teatro Lirico risorgerà quindi a nuova vita dopo quasi vent’anni di chiusura al pubblico. Ci auguriamo che esso saprà restituire al quartiere di via Larga quell’anima culturale che si era venuta definendo nel corso dei secoli in modo del tutto originale.

Difatti, se ci soffermassimo su questo tema inforcando le lenti della storia, rimarremmo colpiti nel constatare che l’isolato compreso tra via Larga e via Rastrelli ebbe un ruolo di assoluto rilievo nella società milanese tra antico regime ed età moderna. Le istituzioni culturali e ricreative che vi operarono nel corso dei secoli diedero al quartiere tre anime: una prima di tipo educativo-formativo, una seconda di tipo melodrammatico operistico di livello quasi paragonabile al Teatro alla Scala, una terza infine legata a un sfera più circoscritta nei contenuti, spesso bando di prova per realizzazioni sceniche destinate in alcuni casi a far discutere, in altri ad incidere in profondità nel panorama culturale italiano.

Qui però occorre chiarirsi subito perché l’edificio che vediamo oggi non corrisponde a quello antico del Teatro della Cannobiana. A ben vedere, neppure via Rastrelli, che costeggia un lato dell’edificio, corrisponde a quella di un tempo: questa strada, che oggi collega via Larga con Piazza Diaz, aveva inizio anticamente da un piccolo incrocio con via Cappellari, a pochi metri dall’antica piazza del Duomo medievale che era assai più piccola dell’attuale. Da quell’incrocio era possibile avere una veduta assai suggestiva della cattedrale. Via Rastrelli costeggiava quindi il Palazzo Ducale – divenuto in epoca napoleonica il Palazzo Reale – e terminava all’incrocio tra le attuali vie Pecorari a sinistra e Paolo da Cannobio a destra, che in antico regime corrispondevano all’incirca alla contrada delle Ore e alla contrada del Pesce. Fu in una casa situata in fondo a questa via, in contrada delle Ore, che furono trasferite nella seconda metà del Cinquecento le Scuole Cannobiane.

Proposta seicentesca di riassetto delle Scuole Cannobiane

L’umanista Paolo da Cannobio (1513-1556) con testamento del 1553 (e codicillo del 1554) aveva assegnato all’Ospedale Maggiore un cospicuo lascito per la costruzione di due scuole di etica e di logica. Aperte nel 1557 in piazza Sant’Ambrogio, furono traslocate nel 1564 in via delle Ore. Quindici anni dopo, l’Ospedale Maggiore decise di installare in quello spazio anche le scuole – fondate da Tommaso Piatti nel 1503 – che si trovavano in via Soncino Merati (via oggi scomparsa, copriva all’incirca il primo tratto dell’attuale corso Matteotti, collegando via San Pietro all’Orto con via San Paolo nel sestiere di Porta Orientale). La gestione in capo alla Cà Granda durò fino al 1671, quando le spese dell’istituto, superando le rendite del lascito Cannobio, impedirono ai membri dell’amministrazione ospedaliera di proseguire nell’attività educativa. La gestione delle Scuole Cannobiane passò al Collegio dei Nobili dottori che finanziò la ricostruzione dell’edificio, ampliato fino ad incorporare una proprietà confinante con via Larga. Alle scuole si accedeva da un piccolo passaggio all’inizio di via delle Ore, passaggio che permetteva agli scolari di accedere alla sala principale, sormontata da una cupola a forma ottagonale-tonda. Le scuole continuarono a svolgere le loro funzioni fino alla fine degli anni Sessanta del Settecento quando il governo asburgico, messo a punto il piano di studi del 1769-70, decise di incorporarle nelle Scuole Palatine di Piazza dei Mercanti. Poco dopo, in seguito alla soppressione dei Gesuiti nel 1773, le scuole secolari milanesi furono concentrate nel Palazzo di Brera che, per volontà dell’imperatrice Maria Teresa, divenne il nuovo “campus” milanese gestito dallo Stato, con finanziamenti adeguati all’alta formazione culturale e scientifica. L’edificio delle Scuole Cannobiane, adibito a magazzino, era destinato a scomparire nel periodo napoleonico, quando gli isolati compresi tra quella parte di via delle Ore (oggi via Pecorari) e via Larga , furono demoliti per costruire l’ala meridionale del Palazzo Reale secondo i disegni dell’architetto Tazzini.

Veniamo alla seconda vita del quartiere. Agli ultimi anni del riformismo teresiano risale la fondazione del Teatro della Cannobiana e della via omonima che fu costruita in prosecuzione di via Rastrelli verso via Larga. Il teatro, costruito negli stessi anni del Teatro alla Scala, era più piccolo rispetto a quest’ultimo. L’edificio presentava tuttavia dimensioni notevoli nel panorama dei teatri cittadini. Nelle intenzioni delle autorità asburgiche, la Cannobiana avrebbe dovuto rivestire un ruolo importante nella vita culturale cittadina. Non a caso esso fu conosciuto dai milanesi come “picciol Teatro”, mentre il “Teatro grande” era ovviamente quello della Scala. I due teatri furono pensati entrambi quali poli d’eccellenza della vita culturale e artistica. Giuseppe Piermarini fu scelto per dirigere la costruzione di entrambi gli edifici. Inoltre, non diversamente da quanto era avvenuto nel giorno di apertura del Teatro alla Scala nell’agosto 1778, anche per l’inaugurazione del Teatro della Cannobiana, avvenuta nel luglio 1779, fu scelta un’opera di Antonio Salieri, La Fiera di Venezia su libretto di Boccherini. Quanto a dimensioni, se la Scala poteva contenere 3600 spettatori, la Cannobiana ne ospitava 2300. La platea era composta da 14 file di sedie (in tutto 450).

Il Teatro alla Cannobiana (o Canobbiana) da “I Teatri di Milano”, particolare da L. Cherbuin dis. ed inc., prima metà XIX secolo

Nei primi anni di attività, la Cannobiana rivestì quindi un’importanza quasi pari a quella del Teatro alla Scala nell’allestimento degli spettacoli. D’altra parte, quanto al pubblico, essa fu frequentata non solo dalla ricca borghesia ma anche dalle più importanti famiglie del patriziato milanese. Avveniva spesso che i nobili disponessero di due palchi: uno al Grande Teatro, l’altro al Picciol Teatro. Del tutto indicativo, in proposito, il caso dei Visconti Ajmi che ho preso in esame nel mio libro Via Filodrammatici prima di Mediobanca (Milano, Scalpendi Editore 2015): questo casato risultava proprietario a fine ‘700 del palchetto N.17 in terza fila alla sinistra nel Teatro alla Scala e del palchetto n.1 in terza fila alla destra nel Teatro della Cannobiana. Nel periodo rivoluzionario, il “Picciol Teatro” divenne un punto di ritrovo per i patrioti lombardi. Vi si tennero tragedie di Alfieri e di Salfi che inneggiavano alla virtù repubblicana. Nel 1798 i patrioti cisalpini lo scelsero per rogare solennemente (presente il notaio Zamperini) l’atto di sovranità del popolo, verosimilmente in opposizione alle ingerenze francesi che avvenivano in quei mesi negli affari di politica interna della Repubblica Cisalpina. Sotto il Regno d’Italia napoleonico e il Regno Lombardo Veneto austriaco, la Cannobiana ritornò al suo antico splendore. Varrà la pena ricordare a tal proposito che Gaetano Donizetti scrisse le scene dell’Elisir d’amore affinché fossero tenute in questo teatro, il che avvenne nella “prima” del 12 maggio 1832. Il calendario era diviso in due stagioni: nel carnevale venivano allestite le commedie, mentre in estate le opere in musica e i balli.

Come avveniva alla Scala, anche qui gli spettacoli non erano certo l’unica attività del teatro: il gioco d’azzardo nei ridotti, la preparazione di piatti e pietanze che potessero soddisfare il palato degli avventori, finivano con il distrarre il pubblico dalla rappresentazione dell’opera. Celebri le lamentele di Berlioz in occasione di una serata trascorsa alla Cannobiana, ove i pasti rumorosi a base di costolette e minestroni lo avevano distratto per il rumore delle stoviglie.

Restaurato nel 1844, il “picciol Teatro” declinò in modo irreversibile nella seconda metà dell’Ottocento, quando passò in gestione dallo Stato al Comune di Milano. La progressiva carenza di fondi segnò la fine di quella stagione memorabile che era iniziata assieme al Teatro alla Scala. L’introduzione dell’illuminazione elettrica non aiutò a risollevare una situazione che restava precaria; parve al contrario portare sfortuna: il prefetto Basile, richiamandosi all’incendio del Ring-Theater di Vienna avvenuto l’8 dicembre 1881 che aveva causato numerosi morti, ebbe buon gioco nel decretare la chiusura della Cannobiana alcuni anni dopo. Nel 1889, a pochi mesi dalla cessazione dell’attività, il poeta Ferdinando Fontana scrisse questi versi malinconici in dialetto milanese:

In via Larga sul canton

Che va dent in del volton

Gh’è ona veggia carampana

Che se ciamma Cannobiana,

Ma che l’è de quj veggett

Fa d’on stamp tanto perfett

Che conserva l’allegria

Anca a vess in agonia…

 

Interno del Teatro Lirico dopo i lavori di ristrutturazione compiuti da Antonio Cassi Ramelli nel 1938.

La seconda vita dell’isolato tra via Larga e via Rastrelli si era chiusa definitivamente ma un’altra se ne aprì in breve tempo. L’editore Sonzogno, le cui pubblicazioni erano in concorrenza con quelle della casa editrice Ricordi, acquistò dal Comune l’edificio ormai in rovina: la sua idea era di formare un nuovo polo teatrale che potesse favorire la sua attività di editore in campo musicale come i Ricordi avevano saputo fare rispondendo abilmente alle richieste di compositori, maestri e impresari del Teatro alla Scala. L’immobile fu ristrutturato in via radicale su disegno dell’architetto Sfondrini. Il 24 settembre 1894 l’edificio fu aperto al pubblico come nuovo Teatro Lirico Internazionale.

Benito Mussolini al Teatro Lirico il 16 dicembre 1944

Diversamente dal Teatro alla Scala, che rimase il tempio dell’opera, il Lirico non raggiunse i livelli di eccellenza cui mirava Sonzogno. Esso si segnalò tuttavia per l’originalità degli spettacoli e assurse ben presto a una certa fama nel panorama della vita artistica milanese. Tra le prime più importanti, si ricordano la Fedora di Umberto Giordano tenuta nel 1898 che lanciò la carriera del celebre tenore Enrico Caruso, nonché La figlia di Iorio di Gabriele d’Annunzio (1904). Un’altra serata memorabile fu quella che si svolse al Lirico il 15 febbraio 1910, quando i Futuristi presentarono al pubblico il loro celebre Manifesto destinato a suscitare scalpore nella società del tempo. L’interno fu devastato da due incendi: un primo nel 1938, un secondo nel 1943. Nonostante tali incidenti, il teatro, ricostruito e ampliato dall’architetto Cassi Ramelli (1905-1980), seppe svolgere una certa attività anche sotto il regime fascista e perfino in tempo di guerra: il 16 dicembre 1944 Mussolini scelse il Lirico per tenere il suo ultimo discorso ai milanesi.

Veniamo infine agli anni del Dopoguerra e del boom economico, durante i quali il Lirico svolse un ruolo importante quale centro culturale milanese, anche se non tornò certamente ai fasti dei primi anni del secolo. Wanda Osiris vi tenne i suoi spettacoli eccentrici e piumati. Verso la metà degli anni Sessanta il Lirico presentava al pubblico un calendario di spettacoli del tutto avvicinabili a quelli del Piccolo Teatro di Giorgio Strehler. Negli anni di piombo, in una Milano immersa nel dramma del terrorismo e della contestazione, suscitò grande impressione la presentazione al Lirico in prima mondiale, il 4 aprile 1975, dello spettacolo Al gran sole carico d’amore, opera di Luigi Nono con la regia di Jurij Ljubimov: vi furono rappresentate le grandi rivoluzioni operaie – dalla Comune parigina alle rivolte nell’Italia del 1943 – alle quali si aggiungeva un richiamo alla guerra in Vietnam.

Il biscione squamato e il drago di San Dionigi

I successori di Ottone Visconti che esercitarono la signoria di Milano – e dei territori e città soggette progressivamente  al loro dominio – continuarono a servirsi della vipera quale insegna di famiglia almeno fino ad Azzone Visconti (1302-1339). Sembra invece che sia da ricondurre ai successori di Azzone la modifica sostanziale dello stemma, ormai utilizzato nell’esercizio del potere pubblico: la vipera fu allungata, attorcigliata in più spire di cui la prima formava una “O” (atta a richiamare il primo Signore di Milano, il già citato arcivescovo Ottone), mentre la testa assunse le sembianze di un drago le cui fauci erano spalancate nell’atto di divorare un fanciullo colorato di rosso. Nella seconda metà del Trecento, questa immagine venne spesso associata a quella di un drago raffigurato anch’esso nell’atto di divorare un bambino. Questo traspare bene se esaminiamo alcune monete coniate dai Signori e Duchi di Milano nel Medioevo: in alcuni pezzi risalenti a Luchino e Giovanni Visconti (1339-1349), a Bernabò e Galeazzo II (1354-1378), a Bernabò fino al 1385, al duca Gian Galeazzo (1385-1402) fino all’ultimo esponente di casa Visconti, il duca Filippo Maria (1412-1447), la lunga biscia squamata con la testa di drago che ingoia un bambino è raffigurata all’interno di un più ampio disegno in cui è presente un drago crestato che ingoia a sua volta un fanciullo.

Pegione, moneta in argento coniata sotto la Signoria di Bernabò Visconti. Diritto: Elmo con cimiero ornato da drago crestato con fanciullo nelle fauci. Rovescio: Serpente visconteo con fanciullo nelle fauci.

Credo che questa variazione dello stemma, così notevole in talune insegne e monete, rivelasse l’ambiziosa politica dei Visconti, i quali puntavano ad essere riconosciuti quali difensori della comunità, autentici “signori civilizzatori” in grado di proteggere i sudditi dalle calamità naturali.

Nel Medioevo l’immagine del drago rinviava a culti pagani assai diffusi in Europa; essa richiamava nell’immaginario popolare le forze misteriose della natura da cui era impossibile difendersi. Importante è ad esempio il racconto agiografico scritto da Venanzio Fortunato nel VI secolo d.C. riguardante San Marcello di Parigi e il drago. Lo storico Jacques Le Goff, in un bel saggio intitolato Cultura ecclesiastica e cultura folklorica nel Medioevo: San Marcello di Parigi e il drago (si veda il volume J. Le Goff, Tempo della chiesa e tempo del mercante. Saggi sul lavoro e la cultura nel Medioevo, Torino, Einaudi 2000, pp.209-255) ha mostrato come il drago pagano simboleggiasse in molti casi le calamità naturali. San Marcello – secondo un’agiografia risalente al VI secolo dopo Cristo – sarebbe riuscito a domare il drago consentendo a un quartiere della città (il faubourg Saint Marcel) di svilupparsi e di prosperare. La bonifica delle paludi avvenute durante il vescovato di San Marcello, viene descritta ricorrendo all’atto del drago ammansito, domato, cacciato.

In altri racconti dell’alto Medioevo il drago veniva addirittura ucciso da un eroe (spesso – anche qui – identificato con la figura di un “santo sauroctono”: San Giorgio, San Michele). Anche nel caso delle uccisioni dei draghi, spesso nella cultura folklorica europea l’episodio rinviava alle opere civili dell’uomo costruttore di città, dell’uomo bonificatore di paludi, dell’uomo civilizzatore che cerca di far fronte alle forze invisibili della natura: epidemie, inondazioni di fiumi o di laghi, pestilenze, calamità devastanti che causavano la morte di uomini, donne e bambini.

Credo che il drago visconteo possa rinviare in parte a questo sostrato pagano. Basti ricordare la diffusione del culto di San Giorgio, altro santo sauroctono uccisore di un drago, il cui mito è molto diffuso nel Nord Italia. I Visconti, conquistato il potere politico nel corso della prima metà del XIV secolo, potrebbero essersi presentati anch’essi quali eroi civilizzatori che difendono gli abitanti di una comunità contro le forze ostili della natura impersonate dal drago. Una spia che autorizza almeno a non escludere tale ipotesi è una leggenda popolare milanese, risalente probabilmente al XIV secolo, divulgata nel periodo visconteo, che ebbe una certa fortuna per tutto l’antico regime, fino ai primi del ‘700.

Fiorino coniato sotto la signoria di Bernabò e Galeazzo II Visconti. Diritto: Scudetto con biscione visconteo sormontato da elmo e cimiero ornato da drago piumato con fanciullo nelle fauci. Rovescio: Scudetto con biscione visconteo sormontato da elmo e cimiero ornato da drago crestato con fanciullo nelle fauci.

L’eroe è ovviamente un antenato dei Visconti, tale Uberto. Il mostro è descritto anche qui nelle sembianze di un drago che mieteva vittime.

La versione più antica di questo racconto sembrerebbe trovarsi nella Cronaca estravagante del frate domenicano Galvano Fiamma, vissuto nella prima metà del XIV secolo. Questi fu in stretto rapporto con i Visconti per i quali scrisse alcune opere sulla storia di Milano tese a celebrare il loro dominio. Nella Cronaca estravagante troviamo il racconto del drago. Ringrazio il professor Ambrogio Céngarle Parisi per avermelo indicato.

Ubertus uicecomes draconem, totam civitatem suo anelitu infitientem, homines et animalia deuorantem, per barbam areptum, securi mactavit.

[Un visconte Uberto afferrò per la barba un drago che appestava l’intera città col suo fiato e divorava uomini e animali, e l’ammazzò con la scure].

Traduzione del professor Céngarle Parisi da La Cronaca estravagante di Galvano Fiamma, a cura di Ambrogio Céngarle Parisi e Massimiliano David, Milano 2013, cap.103, paragrafo 4, pag.363].

La leggenda è ripresa e arricchita nel libro La nobiltà di Milano del religioso gesuato Paolo Morigia, pubblicato nel 1615. Anche in questo testo, il racconto è ambientato nella campagna al di fuori della Milano medievale, nei campi tra Porta Orientale e Porta Nuova non lontano dai Bastioni, ove oggi si trovano i Giardini Pubblici. La vicenda mitologica si svolge vicino alla Chiesa di San Dionigi – oggi non più esistente: qui San Barnaba, secondo la tradizione milanese, si sarebbe fermato a pregare prima di entrare a Milano per svolgere opera di evangelizzazione. Il drago svolge quindi la sua opera malefica in una zona cui i milanesi erano particolarmente legati per il culto di San Barnaba. Scriveva il Morigia:

Volendo ora favellare de gli huomini famosi in guerra di casa Visconte (per essere eglino in grandissimo numero) dirò solamente de i più famosi nell’arte della milizia: et il primo sarà Uberto dell’antica casa d’Angiera, dove è discesa casa Visconte. L’anno adunque 400 incirca, essendosi scoperto un gran Dracone che usciva a certe hore d’una cava vicina a S.Dionigio, e co’l pestifero e mortifero suo fiato infettò tutta quella parte della Città, di modo che morsero (sic!) alquante migliaia e tuttavia la Città si andava infettando; e non trovandosi rimedio a questo. Uberto dunque andò tutto armato contra al grande e pestifero Dracone con gran fortezza d’animo, e destrezza d’ingegno, e mosso dal suo naturale valore s’espose à pericolo della vita per la liberatione della sua patria. Onde l’uccise e con eterna sua gloria liberò la Città da cotal morbo, oltre che fece altre prodezze di gran valore

[P.Morigia, La Nobiltà di Milano, Libro IV, Cap. III, Milano, Giovanni Battista Bidelli 1615, ristampa anastatica Forni editore 1979, pp.311-312.].

Un secolo più tardi, il canonico Carlo Torre si servì della leggenda di Uberto Visconti e del drago per descrivere i borghi di Porta Nuova e Porta Orientale ove si trovava la chiesa di San Dionigi. Nell’opera del Torre, Il Ritratto di Milano, pubblicata nel 1714, troviamo scritto:

Questi è poi il sito in cui fu occiso da Uberto Visconte il Drago che co’ suoi fiati apportava a’ cittadini malefici danni, mentre distoltosi da profonda tana givasene per questi vicini contorni à procacciarsi il vitto, havendo voi a sapere che in quelle antiche età rendevasi tal sito disabitato, e selvaggio, innalzandosi assai discoste le Cittadine mura, quindi familiari i covaccioli (i covi) le fiere. Generoso era cotesto Uberto Cavaliere di nascita, Signore d’Angera…quindi postosi Uberto in pretensione di farsi mirare vittorioso, entrò in arringo e vinse il mostro dal cui felice successo ne trasse di valoroso memoria eterna ne’ posteri. Dichiarasi questo Uberto, d’essere della ramosa Pianta de’ Visconti il vero ceppo…

Ducato coniato sotto il ducato di Galeazzo Maria Sforza. Nel rovescio, scudetto con il serpente sormontato da elmo coronato e da cimiero ornato da drago crestato.

La fortuna di questa leggenda sembra trovare un riscontro nella coniazione delle monete del Ducato di Milano. Gli Sforza, succeduti ai Visconti, continuarono a servirsi dello stemma del drago che ingoia un bambino rappresentato assieme al biscione squamato che ingoia anch’esso un fanciullo.

Com’è noto, quest’ultimo stemma ebbe maggiore fortuna: dipinto in verde o in azzurro, inquartato con l’aquila dell’impero germanico, il biscione squamato con la testa dentata continuò ad essere utilizzato come insegna del ducato di Milano per tutto l’antico regime.

Alle origini della vipera milanese

Se chiedessimo a un milanese quale sia l’insegna di Milano, in larga parte dei casi avremmo come risposta la croce rossa su fondo argenteo. Risposta ovvia, non foss’altro perché si tratta dell’attuale stemma del Comune di Milano. La croce rossa è insegna antica che risale al Medioevo, quando i Milanesi la issarono sul Carroccio nel corso delle battaglie dei Comuni italici contro l’Impero in opposizione alla croce bianca su fondo rosso propria dell’imperatore germanico e dei Comuni che lo sostenevano.

Eppure, a ben vedere, quella risposta sarebbe scorretta perché la croce rossa non fu certo l’unico stemma dei Milanesi. C’è anche la famosa “vipera, che il Melanese accampa” come scriveva Dante nella Commedia nei primissimi anni del Trecento. Più di due secoli dopo Torquato Tasso, nella Gerusalemme liberata, sarebbe tornato sull’argomento in un passo famoso riferendosi a “Il forte Otton, che conquistò lo scudo/In cui dall’angue esce il fanciullo ignudo”: Ottone Visconti, figlio del visconte di Milano Ariprando, nel corso della crociata in Terra Santa avrebbe sconfitto in duello il saraceno Voluce riportando in patria lo stemma del guerriero sconfitto: una vipera che divora un uomo. Un racconto di cui si servì abilmente la famiglia Visconti già nel Duecento per spiegare l’utilizzo dell’insegna della vipera.

Oggi è quindi molto facile pensare che la vipera sia lo stemma gentilizio della famiglia Visconti e nulla di più. Tale casato nobiliare, quando s’impadronì stabilmente del Comune milanese nel primo Trecento, avrebbe imposto la vipera quale insegna della città. In realtà, questa spiegazione non convince del tutto.

La vipera era uno stemma milanese già molto tempo prima della Prima Crociata cui partecipò il leggendario Ottone nel 1099. Basta andare nella chiesa di Sant’Ambrogio, dove su una colonna di marmo è posto un serpente di bronzo risalente ai primissimi anni dell’XI secolo. Lo portò Arnolfo, arcivescovo di Milano, nel 1002, quando fece ritorno in città da un’ambasceria a Costantinopoli (odierna Istanbul) che era tesa a procurare all’imperatore germanico Ottone III una sposa di nobili origini “romane”. Scriveva Pietro Verri nella Storia di Milano pubblicata nel 1783:

A quest’ambasciata, sostenuta dal nostro Arcivescovo Arnolfo, siamo debitori del famoso serpente di bronzo, che tuttavia resta collocato sopra di una colonna in Sant’Ambrogio. Non è cosa nuova nei Monarchi di premiare e ricompensare con donativi, il valore de’ quali non pregiudichi l’erario. Il serpente di bronzo fu donato dal tesoro di Costantinopoli, facendo credere al buon Arcivescovo che fosse il medesimo che Mosé innalzò nel deserto; e con questa bella antichità fu rimeritato della enorme spesa che fece.

[P. Verri, Storia di Milano, capo IV, Edizioni Nazionale delle Opere di Pietro Verri, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 2009, pag.87]

Lo storico di Milano Ettore Verga e, dopo di lui, il medievista Gian Piero Bognetti concordarono nel ritenere fondata la tesi che il serpente – totem molto diffuso presso i longobardi arimanni –  fosse stato adottato quale insegna milanese tra l’alto Medioevo e il basso Medioevo. E’ probabile che i guerrieri ambrosiani inviati nella crociata in Terra Santa, memori della serpe di bronzo conservata in Sant’Ambrogio, avessero decisero di adottarlo quale stemma rifacendosi al serpente miracoloso di Mosé. La vipera divenne quindi verosimilmente uno stemma milanese ben prima che fosse adottata come insegna dai primi Visconti.

La validità di questa ipotesi si collega alla cerimonia dell’investitura civile seguita alla fine del Duecento dal Comune di Milano nei confronti dei Visconti. Lo storico Francesco Novati, quando scoprì nella Biblioteca Nazionale di Madrid la celebre cronaca De Magnalibus urbis Mediolani (Le Meraviglie di Milano) scritta dal frate Bonvesin de la Riva, ricavò da quel testo elementi più che sufficienti per ritenere infondata l’origine esclusivamente gentilizia dello stemma della biscia. Scriveva Bonvesin nel 1288:

Anche ad un discendente della nobilissima stirpe dei Visconti, che appaia il più degno, il comune offre un vessillo, su cui è dipinta in azzurro una biscia che trangugia un Saraceno rosso: questo vessillo si porta davanti a ogni altro e il nostro esercito non si accampa mai in qualche luogo, se prima non ha visto la biscia collocata su qualche albero.

[Bonvesin de la Riva, De Magnalibus urbis Mediolani, Milano, Bompiani 1992, edizione a cura di Maria Corti, traduzione di Giuseppe Pontiggia, pag.155].

Commentando questo passo, così scriveva il Novati nel 1898: “Intorno all’origine di siffatta usanza, la quale apre la via a sospettare che l’insegna della vipera fosse in antico propria del comune di Milano, e non già, come sostiene la volgarissima tradizione, della famiglia Visconti che doveva renderla famosa, non è qui il caso d’istruire ricerche”.

Quando Bonvesin de la Riva scrisse la sua opera famosa, da undici anni il potere civile e il potere ecclesiastico erano uniti nella persona dell’arcivescovo Ottone Visconti (1207-1295). Difatti, com’è noto, nel 1277 il nobile prelato era riuscito ad entrare trionfalmente in città in seguito al fortunato colpo di Desio ove i Torriani – gli storici nemici della sua famiglia che reggevano il governo di Milano – erano stati fatalmente sorpresi in un’imboscata notturna.

Ottone, com’è noto, fu il primo dei tredici Visconti ad assumere il governo di Milano. Il suo stemma non corrispondeva tuttavia alle insegne dei Visconti diffuse tra Tre e Quattrocento, quelle che furono proprie dello Stato di Milano almeno fino alla fine dell’ancien régime: mi riferisco alla lunga serpe squamata con la testa di drago, raffigurata in verde o in azzurro, che ingolla un bimbo colorato di rosso. Uno stemma, questo, su cui mi soffermerò in un altro articolo.

Lo stemma di Ottone e dei suoi antenati era diverso. Lo si vede bene in una scultura in marmo che lo storico milanese Giorgio Giulini, verso la metà del Settecento, vide nel palazzo arcivescovile di Legnano fatto costruire dal nobile milanese. Non so se questa piccola pietra di marmo esista ancora. La figura è riportata nell’opera monumentale del Giulini, Le Memorie di Milano nei secoli bassi. Riporto una fotografia parziale riportata nel quarto volume della ristampa anastatica dell’edizione Colombo del 1854 pubblicata nel 1974 dalla casa editrice Cisalpino Goliardica (pag.763). Vi compare una vipera, assai più corta e grossa di quella famosa raffigurata dai Visconti e dagli Sforza, ritratta nell’atto di mangiare un uomo che regge nella mano destra una freccia e nella sinistra un tondo raffigurante il frammento del volto di una persona.

Lo stemma di Ottone Visconti nel palazzo arcivescovile di Legnano. Imaggine tratta dalle Memorie di Milano nei secoli bassi del conte Giorgio Giulini

In realtà, i Visconti avevano scelto la vipera quale loro stemma ben prima di Ottone Visconti. E’ sempre lo storico Giorgio Giulini a ricordarci quanto riportato dal cronista Tristano Calco in una delle sue opere. Questi, vissuto tra la seconda metà del Quattrocento e i primi decenni del Cinquecento, raccontò che quando venne dissotterrato il cadavere di Ardengo Visconti, abate del monastero di Sant’Ambrogio nella prima metà del XIII secolo, fu trovato accanto allo scheletro un pastorale ornato con vipere di avorio. Una prova ulteriore che già nel Duecento i Visconti si erano serviti della vipera milanese per fregiare il loro stemma.

Una giornata di fine ‘800 in Galleria

In un  articolo pubblicato nel volume Vita milanese edito dalla casa editrice Vallardi in occasione dell’Esposizione Nazionale del 1881, lo scrittore Ferdinando Fontana (1850-1919) prendeva in esame la vita dei milanesi in quegli anni di fine Ottocento, quando la Città contava ormai – dopo la fusione con i Corpi Santi avvenuta nel 1873 – più di 320.000 abitanti. La popolazione era ancora concentrata in larghissima parte entro la cerchia dei Bastioni: 214.000 i milanesi del centro contro i 108.000 degli ex corposantini, segno che la costruzione dei nuovi quartieri residenziali nel vasto territorio oltre le mura non aveva raggiunto le dimensioni che avrebbe assunto a fine secolo e nel primo Novecento.

Nel 1878 il Comune istituì i nuovi corsi oltre le Mura: corso Loreto (poi Buenos Aires), corso XXII Marzo, corso Lodi, corso Sempione, corso Vercelli, corso Como, corso San Gottardo. Milano andava assumendo sempre più quell’anima dinamica, imprenditoriale, votata al progresso che conosciamo oggi. Nel 1877 i fratelli Bocconi aprirono Aux villes d’Italie (insegna ribattezzata nel 1880 “Alle città d’Italia): una boutique di tessuti e di abiti, situata in un grande edificio tra via Cattaneo e via Grossi, che è l’antenata della Rinascente. In quello stesso anno Enrico Forlanini realizzava il primo esperimento di elicottero a vapore effettuando il test vicino al Teatro alla Scala. Insomma, la Milano che celebrava l’Esposizione Nazionale del 1881 si presentava in rapida evoluzione.

Ferdinando Fontana era noto in quegli anni per la stesura di testi teatrali e per la collaborazione con alcune riviste in cui dimostrava la sua sensibilità per i problemi delle classi popolari.  Nella sua attività di librettista aveva lavorato nei primi anni Ottanta con il celebre compositore Giacomo Puccini.

Ferdinando Fontana (a sinistra) con Giacomo Puccini (da Wikipedia)

Nel campo della letteratura Fontana si poneva a metà strada tra gli Scapigliati e i Veristi. Scrisse alcune poesie in dialetto milanese, un genere che amò moltissimo: curò un’antologia storica di scritti poetici in dialetto locale (Antologia Meneghina, prima ed. 1891) e una raccolta di poesie del Porta tradotte in italiano. Il suo tratto distintivo fu la costante difesa delle classi popolari, sia di quelle lavoratrici sia delle fasce disagiate. A questo proposito varrà la pena ricordare una poesia scritta per un gruppo di muratori disoccupati in occasione del Natale del 1890: Bosinada don pover magutele. Anticlericale, si candidò al Consiglio Comunale di Milano nelle liste dei radicali in occasione delle elezioni del 1892 battendosi per la laicità delle istituzioni, per l’istruzione popolare e per l’abolizione del dazio consumo, una tassa comunale che gravava sui commercianti corposantini.

Questo accenno al profilo biografico di Fontana è importante per capire il contenuto dell’articolo scritto nel 1881. Vi troviamo la descrizione di alcuni luoghi di Milano i cui ambienti erano descritti prendendo in esame le diverse classi sociali che li popolavano nelle varie ore del giorno.

In questa sede desidero soffermarmi sulla Galleria Vittorio Emanuele. Il testo di Fontana è molto interessante perché vi traspare un racconto della vita quotidiana che già presenta venature “veriste”. All’alba e al primo mattino passeggiavano frettolosamente in Galleria artigiani, camerieri, cameriere, muratori, garzoni di falegnami o di fabbri; seguivano in tarda mattinata – verso le otto, le nove e le dieci di mattina – i traveti (gli impiegati) e le madamine, le ragazze di buona famiglia che amavano mettersi in mostra. Alle undici era la volta della classe più abbiente e facoltosa: tutta gente – scriveva Fontana – che fa colazione à la fourchette al Gnocchi, al Biffi, all’Accademia, al Martini. Nel pomeriggio la Galleria si animava grandemente, frequentata dalla nobiltà e dall’alta borghesia milanese che la rendeva un salotto in cui sfavillavano i vestiti e i gioielli indossati dalle dame di alto rango: una parata di abiti variopinti che accresceva il fasto della Galleria:

Dalle due alle cinque,e alle sei pomeridiane, la [la Galleria Vittorio Emanuele] si direbbe un gran salotto. Gli eleganti vi sfoggiano i loro abiti, usciti nuovi fiammanti dalle mani del Prandoni…o del Bencetti; le belle donnine (abbigliate con quel fine buon gusto con cui sanno vestire le signore milanesi) passano a centinaia attraverso siepi di ammiratori: c’è un momento, verso il crepuscolo, in cui tutto questo mondo elegante è al gran completo; poi si dissolve; tutti sono andati a pranzo: la Galleria resta quasi deserta per mezz’ora.

In quelle ore, quando il pomeriggio cede il passo alle prime ore della sera, ai nobili e ai ricchi borghesi succedeva una folla di turisti provenienti dalle città e dai paesi d’Italia e d’Europa, accorsi ad assistere allo spettacolo del rattin: un dispositivo meccanico quasi a forma di topo, assai avanzato per l’epoca, che provvedeva all’illuminazione della Galleria accendendo i becchi a gas che si trovavano sotto la cupola ottagonale.

Nel vasto ottagono restano immobili per parecchi minuti, talvolta per dei lunghi quarti d’ora, duecento o trecento persone, col naso al vento e gli occhi rivolti in su, in attesa del famoso rattin. E quando il rattin compare e procede all’adempimento della sua solita mansione vespertina, tutte le bocche si aprono in forma d’ovo, lasciando uscire un “Ah!” di beata meraviglia, così prolungato e sonoro, che la lunga Galleria ne echeggia.

Il maggiore affollamento di persone, appartenenti alle più svariate classi sociali avveniva nelle ore serali e notturne. Oltre ai turisti stranieri e italiani, si incontravano venditori di zolfanelli, di giornali, di libri dediti alla ricerca di potenziali clienti. Tutto questo, scriveva Fontana, fino alle dieci o alle undici di sera. Poi, progressivamente, il rumore e il chiasso si dileguavano. In Galleria era possibile incontrare piccoli gruppi di persone appena uscite dai vicini teatri: il Teatro alla Scala, ma anche il Teatro Manzoni che era stato aperto pochi anni prima, il 3 dicembre 1872, in piazza San Fedele nell’area in cui si trovava il Palazzo Imbonati.

Allora, cioè dalla mezzanotte all’alba, la Galleria assume un aspetto nuovo e interessantissimo; la vita non cessa, ma vi resta, si direbbe quasi, a fila, in incubazione; specialmente nelle notti di luna piena lo spettacolo è attraente: i raggi lunari, battendo sui vetri della vasta tettoia e della cupola, vi destano dei bagliori opalini che fanno sognare; senonché, a togliervi dalle fantasie sentimentali suggerite da quei bagliori, vi giunge il canto…di un ubbriaco fradicio, il quale barcolla sul mosaico sdrucciolevole, o la discussione animata di un gruppo di ritardatari … o lo stropiccio cadenzato dei passi del custode o di due guardie di questura, sorveglianti il sonno pubblico.

La Grande Milano dei Promessi Sposi

Il libro di Empio Malara, I paesaggi dei Promessi Sposi. Le bellezze della Grande Milano svelate da Alessandro Manzoni (Chimera Editrice, Milano 2014) costituisce uno studio di grande interesse. L’analisi dei capitoli del romanzo relativi al paesaggio e alla natura è accompagnata da una verifica puntuale degli stessi luoghi quali si presentavano nel primo Seicento (il periodo in cui è ambientata la storia del romanzo) e nel primo Ottocento (gli anni della stesura). Paesaggi e luoghi che Malara prende in esame con l’occhio dello studioso contemporaneo il quale sa individuare con disincanto le trasformazioni urbanistiche che hanno alterato in profondità l’ambiente caro a Manzoni.

Lo studio, i cui testi sono scritti in versione bilingue (italiano e inglese), si caratterizza per un vasto apparato iconografico che aiuta il lettore ad orientarsi tra i passi del romanzo che riguardano ambientazioni quali laghi, fiumi, navigli, chiese, città come Monza e Milano. A ben vedere, si tratta di una vera e propria analisi del paesaggio – urbano e rurale – che ha quale tema centrale la Grande Milano, quell’area metropolitana in cui i cittadini vivono e lavorano entrando a diretto contatto con la natura del luogo mediante le sue infrastrutture.

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Empio Malara

A proposito del famoso incipit, quel ramo del lago di Como…Malara riconosce in Manzoni la veste di geografo-storico nella descrizione dell’ambiente e del paesaggio, quasi ad anticipare la lezione dello storico francese Fernand Braudel. La navigazione del lago costituì per secoli l’unico modo di raggiungere la sponda orientale ove si trova Lecco, piccolo paese il cui impianto urbanistico venne completamente sconvolto nel Novecento dall’espansione immobiliare. Eppure, come Malara fa notare argutamente, già negli anni in cui Manzoni scriveva la prima stesura del romanzo (1821-24), il governo lombardo andava costruendo la strada che, mediante una lunga serie di gallerie, avrebbe consentito di lì a pochi anni di raggiungere il piccolo comune senza passare per il lago. Fu l’inizio di una lunga serie di opere pubbliche, anche ferroviarie, che segnarono il declino irreversibile della navigazione merci e passeggeri lungo l’Adda.

Eppure, ancora nella prima metà dell’Ottocento, la navigazione sui primi battelli a vapore in un paesaggio che restava in larga parte silvestre, dominato dalle catene dei monti e da una vegetazione rigogliosa, costituiva una risorsa culturale di immenso valore, tale da fare innamorare scrittori e poeti europei. Le barche che solcavano le acque del lago furono chiamate “Lucie” in omaggio al Manzoni: erano costituite da uno scafo piatto e da una struttura sormontata da tre cerchi di legno. Fu una di queste, nella mente di Manzoni, a traghettare Renzo, Agnese e Lucia dalla riva orientale a quella occidentale nella fuga dal paese in subbuglio nella notte degli imbrogli. Il passo del romanzo che Malara prende in esame descrive assai bene la natura del lago, la sua superficie quasi piatta, il cui ondeggiare è appena tradito dal riflesso tremolante della luna sulle acque. C’è poi l’attività del barcaiolo: i remi calati ripetutamente nell’acqua con moto lento e cadenzato son tratteggiati da Manzoni in un quadro narrativo in cui troviamo una raffigurazione memorabile del paesaggio lacustre, tutta giocata sul silenzio dei protagonisti e sui lievi rumori delle acque che si frangono nel lido e nei piloni del molo, rumori sui quali domina il tonfo dei remi:

Essi s’avviarono zitti zitti alla riva ch’era stata loro indicata; videro il battello pronto, e data e barattata la parola, c’entrarono. Il barcaiolo, puntando un remo alla proda, se ne staccò; afferrato poi l’altro remo, e vogando a due braccia, prese il largo, verso la spiaggia opposta. Non tirava un alito di vento; il lago giaceva liscio e piano, e sarebbe parso immobile, se non fosse stato il tremolare e l’ondeggiar leggero della luna, che vi si specchiava da mezzo il cielo. S’udiva soltanto il fiotto morto e lento frangersi sulle ghiaie del lido, il gorgoglio più lontano dell’acqua rotta tra le pile del ponte, e il tonfo misurato di que’ due remi, che tagliavano la superficie azzurra del lago, uscivano a un colpo grondanti, e si rituffavano.

[A. Manzoni, I Promessi Sposi, Milano, Meridiani Mondadori 2002, Vol.II, Tomo II, pag.162]

Un’altra imbarcazione, come Malara non manca di rilevare, era costituita dai combaj, barche assai più grandi che alla poppa non avevano il timone, ma erano governate da un lungo remo (chiamato pala in dialetto milanese) che consentiva ai barcaioli di superare le diverse pendenze tra il fiume Adda e il Naviglio Martesana: il tragitto di queste imbarcazioni poteva spingersi sino a Milano, ove raggiungevano la Darsena di Porta Ticinese attraverso quel canale interno che portando le acque della Martesana in centro città era conosciuto dai milanesi come “il Naviglio”.

A Milano Malara dedica ben quattro capitoli dei dieci in cui si articola il suo studio sul paesaggio manzoniano. La città quale si presentava all’epoca del dominio spagnolo e nel periodo austriaco non mutò granché della sua struttura urbanistica, rimasta all’incirca quella di epoca medievale.

Gli interventi radicali sarebbero intervenuti a partire dalla seconda metà dell’Ottocento. Eppure, già nel 1857, quando la Lombardia si trovava ancora sotto il dominio austriaco, fu realizzato un progetto che fu il primo attacco al patrimonio storico artistico e storico culturale della città manzoniana. Esso collegava la stazione ferroviaria di piazza della Repubblica con le linee verso Magenta mediante la costruzione di un lungo ponte ad arcate all’interno del Lazzaretto; tale intervento finì per compromettere l’esistenza di un edificio risalente alla fine del Quattrocento. Pochi anni dopo la morte di Manzoni, l’immobile, venduto alla Banca di Credito Italiano, fu demolito per costruire un quartiere residenziale senza alcun rispetto per il paesaggio circostante. Si trattò, come nota Malara, del “primo episodio di speculazione edilizia dopo l’Unità d’Italia”. Oggi, per chi si aggiri nel vasto quadrilatero compreso entro le vie Vittorio Veneto, Buenos Aires, San Gregorio e Lazzaretto, non resta che visitare la piccola chiesa di San Carlo, la cappella del Lazzaretto in cui Manzoni ambientò gli ultimi capitoli del romanzo. Oggi, al di là del tempio e di un piccolo frammento di porticato del Lazzaretto miracolosamente conservato all’interno dello stabile in via San Gregorio 5, non è più possibile avere una percezione fisica dell’antico edificio quattrocentesco il cui stile architettonico riprendeva la forme dell’Ospedale Maggiore.

Malara ricostruisce il tragitto di Renzo a Milano. Individua l’antica conformazione del paesaggio urbano articolato, a partire dalla metà del Cinquecento, in due zone: la prima – dominata in gran parte da orti, conventi e campi tra la Cerchia dei Bastioni e il Naviglio – era attraversata dai corsi principali; la seconda, contraddistinta dal fitto reticolo di vie e piazze nella parte di città all’interno del canale, costituiva invece il cuore della Milano medievale che, inglobata l’antica urbe romana, aveva i suoi cuori pulsanti nel Duomo e nella Piazza dei Tribunali.

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Il canale detto il Naviglio nel punto in cui aveva inizio in via Fatebenefratelli, tra il ponte di San Marco e il ponte Marcellino. Riceveva le sue acque dalla Martesana che scorreva lungo via San Marco.

Merita infine di essere ricordato il capitolo dedicato al “canale detto Il Naviglio”, una vera e propria infrastruttura per il trasporto merci e passeggeri che, attraversando il centro cittadino, mise in collegamento per più di quattro secoli il Naviglio Martesana con la Darsena di Porta Ticinese facendo di Milano una città porto, punto di arrivo delle imbarcazioni provenienti dal Lago Maggiore (via Naviglio Grande) e dal Lago di Como. Manzoni era nato in una casa che si affacciava sulla riva esterna del Naviglio, tuttora esistente nel sestiere di Porta Orientale, in via Visconti di Modrone al civico 16. Un giorno, forse nel corso di una passeggiata lungo il Naviglio di San Gerolamo (oggi via Carducci), trasse l’ispirazione per due versi memorabili ove seppe descrivere il singolare riflesso della luce del sole nell’onda opaca del naviglio: del sole il puro raggio/ rotto dall’onda impura, /sulle vetuste mura /gibigianando va. Le mura “vetuste” erano quelle medievali racchiuse dal canale, costruite nel XII secolo e rinforzate nel XIV secolo da Azzone Visconti. Con il termine “gibigianna” il dialetto milanese indicava il riflesso del sole su superfici lucide o chiare come l’acqua, gli specchi e i vetri. “Gibigianando va” è una locuzione onomatopeica che consente quasi di percepire il riverbero sfuggente della luce sulle acque scure del naviglio. Uno spaccato di paesaggio milanese che ispirò pittori e vedutisti.

I cicisbei nella Milano del ‘700

In un passo dell’ode Il Mattino, all’interno della nota critica alla vita oziosa del nobile signore, Giuseppe Parini prendeva in esame il vincolo del matrimonio, osteggiato dal ricco rampollo cui è rivolta la satira del poeta. Seguiva, poche righe più avanti, un chiaro riferimento all’istituzione tipicamente settecentesca del cicisbeismo, vale a dire alla pratica con cui le donne della nobiltà italiana erano solite frequentare i salotti culturali accompagnate da un uomo cui erano legate da sentimenti di affetto e – in alcuni casi – di amore.

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Giuseppe Parini (1729-1799)

Assai pensasti a te medesimo: or volgi

Le tue cure per poco ad altro obbietto

Non indegno di te. Sai che compagna,

con cui divider possa il lungo peso

di quest’inerte vita, il ciel destina

Al giovane signore. Impallidisci?

No, non parlo di nozze: antiquo e vieto

Dottor sarei, se così folle io dessi

A te consiglio. Di tant’altre doti

Tu non orni così lo spirto e i membri

Perché in mezzo alla tuo nobil carriera

Sospender debbi ’l corso, e fuora uscendo

Di cotesto a ragion detto Bel Mondo,

Intra i severi di famiglia padri

Relegato ti giacci, a un nodo avvinto

Di giorno in giorno più penoso e fatto

Stallone ignobil della razza umana. […]

Pera dunque chi a te nozze consiglia,

Ma non però senza compagna andrai,

Che fia giovane dama e d’altrui sposa;

Poiché si vuole inviolabil rito

Del Bel Mondo onde tu se’ cittadino.

 

[Hai pensato molto a te stesso: ora concentra un poco la tua attenzione ad un altro tema degno di te. Tu sai il cielo assegna al giovin signore una compagna con cui possa dividere questa vita inoperosa. Impallidisci? No, non parlo di matrimonio: sarei un poeta vecchio e inutile se dessi a te un consiglio così folle. Il tuo spirito e le tue membra non sono così provviste di tante doti perché tu debba sospendere a metà il corso della tua carriera nobile e, lasciando quel che a ragione si dice “bel mondo”, tu finisca relegato tra i severi padri di famiglia, avvinto a un nodo che ogni giorno diviene più penoso, ridotto a stallone ignobile della razza umana. […] Muoia dunque chi a te consiglia il matrimonio, ma non per questo andrai senza compagna, la quale sarà una giovane donna e maritata con un altro uomo; perché così vuole il rito inviolabile del bel mondo di cui sei cittadino].

 [G. Parini, Il Mattino in G. Parini, Poesie, a cura di Guido Mazzoni, Istituto Editoriale Italiano, Classici Italiani Novissima Biblioteca diretta da Ferdinando Martini, Milano, s.d., pp.38-39].

Il quadro della società milanese settecentesca che Parini tratteggiava in questi versi era assai diffuso tra la nobiltà. Occorre ricordare che nei secoli precedenti, tra il Cinquecento e il Seicento, la vita sociale della donna si era svolta per lo più all’interno delle mura domestiche, in una condizione di completa sottomissione al marito. La nobildonna si trovava al suo fianco nei momenti per così dire istituzionali della famiglia, ad esempio nelle riunioni dei casati nobiliari con i quali si era imparentati: pochi momenti di apparizione “in pubblico” in un’esistenza che si svolgeva entro le spesse mura del palazzo nobiliare.

Alla fine del Seicento e nel corso del Settecento la moda francese imposta dalla vita di corte di Versailles si diffuse progressivamente in Europa, il che contribuì a mutare la condizione della donna nobile cui fu consentita una maggiore libertà di movimento. Le conversazioni nei salotti culturali, spesso tenuti dalle nobildonne nei palazzi ove vivevano, contribuirono a una certa emancipazione. Varrà la pena ricordare, a tal proposito, il celebre salotto milanese della contessa Clelia Borromeo del Grillo che si tenne nella prima metà del Settecento nel palazzo Borromeo di via Rugabella.

Il permanere di logiche tradizionali in base alle quali i matrimoni erano combinati dalle famiglie nobili in base ad interessi cetuali, patrimoniali e finanziari senza alcuna importanza alle inclinazioni delle persone, finì con il favorire, nell’Italia del Settecento, l’instaurarsi di legami affettivi esterni al vincolo coniugale, legami stretti dalle nobildonne con uomini di pari ceto spesso con il consenso dei mariti. Si trattava in fondo di una forma di compensazione nella sfera degli affetti per una donna che veniva spesso unita a un marito assai più anziano, sprovvisto di bellezza fisica e di doti intellettuali.

E’ opportuno chiedersi per quale motivo il fenomeno del cicisbeismo fosse più diffuso in Italia e meno in Francia, nei principati e città del Sacro Romano Impero Germanico e più in generale dell’Europa del Nord. Credo che la risposta sia da ricercare nella maggiore libertà di movimento consentita alla donna europea del Settecento, mentre in Italia si sentì l’esigenza di controllare le sue uscite in pubblico accompagnandola ad un uomo che potesse garantire la sua onorabilità e sicurezza. Nelle città italiane il potere delle famiglie patrizie, radicato nelle istituzioni degli antichi Stati, contava ancora molto, tanto nelle repubbliche quanto nei regni informati alla vita di corte dei sovrani illuminati.

A Milano credo che il fenomeno riguardasse in molti casi i cadetti dell’aristocrazia: questi, non potendo fruire delle pingui rendite patrimoniali riservate al primogenito, educati alle lettere e alle armi più che al lavoro per l’appartenenza all’ordine nobiliare, dovevano accontentarsi di una piccola rendita che era però insufficiente a mantenere una famiglia. Di qui la vita celibe di modesti redditieri, allietata dall’affetto che li legava alle dame di pari ceto in forza del ruolo di cicisbei o di cavalier serventi che accettavano di ricoprire.

Per molti si trattava di una condizione sicuramente preferibile rispetto a quella degli altri cadetti economicamente meno fortunati: alcuni di questi nobili erano costretti ad entrare nell’ordine ecclesiastico rinunciando al mondo secolare per vivere nel celibato religioso, protetti dalla sicurezza economica che conferiva loro il beneficio. Altri invece si arruolavano nell’esercito dedicandosi – com’era tradizione – a una carriera militare che, nel Settecento, li costringeva a lunghe campagne lontano dalla patria di origine.

Cesare Beccaria, nelle Lezioni di economia pubblica tenute nelle Scuole Palatine di Milano dal 1769 al 1773, non esitò ad esprimere tutta la sua avversione per questi celibi: essi erano colpevoli di assumere comportamenti libertini e di mancare ai doveri della procreazione legati alla formazione e al mantenimento della famiglia. Le sue critiche erano mosse all’utilizzo infruttuoso delle piccole rendite di posizione, ristrette al puro e semplice mantenimento del nobile, non impiegate ai fini della ricchezza e della prosperità della nazione. Non faceva un’esplicita menzione dei cicisbei ma non era difficile capire a quali persone si riferisse quando condannava il celibato dei nobili. L’illuminista lombardo mostrava invece un profondo rispetto per il celibato religioso e la dura vita dei soldati.

Cesare Beccaria (1738-1794)
Cesare Beccaria (1738-1794)

Se questo stato (il celibato) si diffonde di troppo, egli diventa piuttosto apparente che reale; le facili e tenebrose risorse del libertinaggio compensano una privazione, e la natura si rivendica, ma a carico altrui, e senza raccoglierne alcun frutto. Non parlo di quel sacro celibato che nelle più auguste funzioni della religione si occupa; non parlo di quello che lontano dal tumulto seducente della frequenza si conserva, incontaminato, fra gli appartati ritiri d’una mesta solitudine; ma parlo di quello che, usurpando la considerazione dovuta al vero celibato religioso, grandeggia nella società soltanto per la scelta calcolatrice d’interesse, non per intima superiore spinta di motivi sovraumani. Dico che in questo caso il celibato o è religioso affatto, e le distinzioni mondane e i premi sociali sono alieni del tutto dal suo scopo, o è secolare e realmente profano, e allora dovrebbe cedere in tutte le occasioni alla classe perpetuatrice [la famiglia unita in matrimonio finalizzata alla procreazione NdR]. […]

Oltre a ciò è necessario che questo stato perpetuatore del genere umano [la famiglia] sia…sopra ogn’altro onorato. Perché abbandonarlo totalmente ai sentimenti della natura o alla calcolatrice indagine dell’interesse, mentre taluni, senza i gravi e più sublimi motivi, per un volubile entusiasmo o per una libertina avversione ad ogni legame, osano sottrarre una serie di generazioni che aspettano di respirar aura vitale dagli oscuri recessi dell’insensibilità ed inazione, carpiscono le distinzioni le più lusinghiere, mentre dovrebbono sovente a quella oscurità condannarsi, cui condannano una numerosa posterità?

[C. Beccaria, Elementi di economia pubblica in ID., Scritti economici, vol.III dell’Edizione Nazionale delle Opere di Cesare Beccaria, Milano, Mediobanca 2014, pp.139-140]