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Il cuore pulsante di Milano

Un libro ripercorre la storia della città ambrosiana dalle origini fino ai tempi presenti, individuandone i tratti peculiari e le costanti nel tempo.

Negli ultimi anni la formula “modello Milano” viene costantemente ripetuta da politici, esponenti della classe dirigente e da imprenditori per descrivere un tipo di convivenza civile – quella milanese – che mette al centro la solidarietà e l’operosità dei suoi membri, i quali lavorano al servizio della comunità facendo ciascuno la sua parte. E’ un termine spesso abusato, che trova però un suo fondamento storico: nel corso dei secoli, dalla tarda antichità al Medioevo, dall’Età Moderna ad oggi, la città di Ambrogio ha saputo crescere e progredire grazie alla capacità dei milanesi di rispondere concretamente alle sfide dei tempi: le fratture e le violente divisioni interne – che pure vi furono tra le diverse comunità e famiglie – vennero di volta in volta ricomposte in nome del bene comune. In particolar modo a partire dal Medioevo, la società milanese nelle sue articolazioni cetuali riuscì a intessere con i reggitori del potere un dialogo costruttivo per la tutela dei suoi interessi economici e politici.

“The Milan’s Heart. Identity and History of a European Metropolis”, edited by Danilo Zardin, Milano, Scalpendi editore, 2019, pp.207, 15 euro.

Questa caratteristica di lungo periodo nella storia di Milano è al centro del bel libro The Milan’s heart. Identity and history of a European metropolis (Scalpendi Editore, Milano 2019, 207 p.): si tratta della nuova edizione in inglese, corredata da un elegante apparato di immagini, di un volume curato dal professor Danilo Zardin nel 2012 avente per titolo Il Cuore di Milano. Identità e storia di una “capitale morale” (Rizzoli editore). Vi sono raccolti saggi di storici che hanno posto al centro della loro analisi scientifica il ruolo di Milano nella civiltà europea e i tratti distintivi della sua costituzione interna.

Quali sono gli elementi di lunga durata che caratterizzano il senso di appartenenza alla comunità milanese? In primo luogo, il civismo e una operosa solidarietà, la capacità di accettare il diverso raccogliendo le sfide dei tempi per un modello innovativo di convivenza. Questo avvenne ad esempio nella Milano capitale dell’Impero Romano d’Occidente, quando nel 313 d.C. l’imperatore Costantino vi pubblicò il celebre editto di tolleranza che consentiva ai cattolici di praticare liberamente il loro culto non diversamente da quanto i Romani avevano permesso fino a quel momento alle altre confessioni religiose. Nasce qui la prima forma di quel “modello Milano” cui si è fatto cenno poco sopra, esempio di convivenza tra diversi che si rispettano, vivono e lavorano nell’obbedienza alle leggi.

Agostino Comerio, “Ritratto dell’imperatrice Maria Teresa di Asburgo”, 1834, Milano, Biblioteca Nazionale Braidense, Salone Maria Teresa.

Un secondo tratto distintivo di Milano risiede nel suo spirito riformatore, nella capacità di aprirsi al nuovo, di adattare le istituzioni e le politiche di governo ai bisogni della società. Un caso per certi versi emblematico è costituito dal riformismo settecentesco che svecchiò l’amministrazione del Ducato di Milano avvicinandola a quella di uno Stato moderno. In effetti, come ha dimostrato Carlo Capra, in Lombardia le riforme absburgiche furono portate avanti per volontà dei governanti austriaci (l’imperatrice Maria Teresa di Asburgo, l’imperatore Giuseppe II) e videro l’attivo coinvolgimento di funzionari provenienti da altri territori della monarchia (basti pensare al cancelliere di Stato, il viennese di origini morave Anton Wenzel von Kaunitz Rittberg, al trentino Carlo Giuseppe di Firmian, all’istriano Gian Rinaldo Carli, al toscano Pompeo Neri); non va tuttavia sottovalutato il contributo di un patriziato milanese aperto al nuovo, tra i cui esponenti più noti val la pena ricordare Cesare Beccaria e Pietro Verri: dapprima quali intellettuali attivi nel celebre periodico “Il Caffè”, poi nel ruolo di funzionari pubblici al servizio della monarchia austriaca, essi parteciparono attivamente all’attuazione delle riforme illuminate nei campi della giustizia, dell’economia, dell’agricoltura, del commercio. Le riforme del Settecento illuminato in Lombardia (ricordiamo ad esempio quella sull’autoamministrazione delle comunità locali del 1755 o del catasto particellare del 1760), costituirono il primo stadio di un rinnovamento istituzionale che toccherà il vertice negli anni della Repubblica Italiana e del Regno italico (1802-1814), quando il governo napoleonico avrebbe contribuito in modo decisivo a rinnovare le strutture della società. Le riforme absburgiche e napoleoniche fecero di Milano un vero e proprio laboratorio della modernità e questo nonostante le resistenze conservatrici che pure vi furono.

Filippo Abbiati, Solenne ingresso di San Carlo Borromeo a Milano, 1670-1680, Milano, Duomo.

Un altro esempio di riformismo autenticamente milanese riguarda il governo della chiesa ambrosiana. Esso è costituito dall’azione incisiva dell’arcivescovo di Milano, Carlo Borromeo, il quale negli anni del suo ministero al vertice della curia milanese (1564-1584) fece della diocesi un territorio all’avanguardia nell’applicazione rigorosa dei canoni della Riforma Cattolica fissati dal Concilio di Trento. Il riformismo borromaico si radicò in profondità: le articolazioni cetuali della società milanese furono informate allo spirito di una devotio vissuta con appassionato fervore. Il coinvolgimento del fitto tessuto delle confraternite laicali, la fondazione di seminari e collegi per la formazione del clero, le Scuole della Dottrina Cristiana per l’educazione dei giovani, la pubblicazione di opuscoli e libri in italiano per aiutare i laici ad affrontare le difficoltà della vita orientando le opere allo spirito cristiano, furono interventi che segnarono profondamente l’identità milanese. A tal proposito, facendo stampare in italiano catechismi, testi contenenti istruzioni morali, libri spirituali e pedagogici per ciascun ordine o categoria della società (militari, padri e madri di famiglia, capi di bottega), il Borromeo diede un contributo di primo piano alla diffusione dell’alfabetismo in Lombardia già alla fine del XVI secolo. Questo riformismo ambrosiano venne continuato, con accenti e strategie diverse, dal nipote Federico Borromeo (arcivescovo dal 1595 al 1631) e dal successore di questi, il cardinale Cesare Monti (1631-1650). Come ha messo in evidenza il professor Danilo Zardin nel saggio Da Carlo a Federico Borromeo: alle origini di una nuova identità “ambrosiana” (nella edizione inglese From Carlo to Federico Borromeo: at the Origins of a new “ambrosian identity”, pp.95-102), alla battagliera opera di San Carlo per un riforma della società che lo portò a scontrarsi in più occasioni con le istituzioni civili del Ducato di Milano, i due presuli sostituirono una più prudente azione pastorale che puntò soprattutto a rafforzare le istituzioni culturali nella diocesi per una discreta ma non meno profonda formazione degli spiriti: basti pensare alla Biblioteca Ambrosiana aperta dal cardinal Federico nel 1609 per chiunque avesse desiderato leggere ed istruirsi.

Purtroppo non è possibile soffermarsi sui tanti temi che sono affrontati in questo libro. Avviandomi alla conclusione, credo che un terzo tratto distintivo di Milano risieda nella sua natura internazionale, nell’apertura al mondo, al diverso. La città ambrosiana è infatti una metropoli profondamente europea per stili di vita, costumi, economia, cultura. Credo che la naturale disposizione a vivere e operare entrando in stretta relazione con ambienti internazionali vada ricercata – come notò acutamente Giorgio Rumi in un interessante saggio del 1993 (G. Rumi, Milano e l’Europa in AA.VV., Ottocento romantico e civile. Studi in memoria di Ettore Passerin d’Entrèves. Milano, Vita e Pensiero 1993, pp.343-350) – nei secoli in cui il Ducato di Milano venne incorporato entro la sfera di governo di poteri pubblici plurinazionali: la monarchia absburgica spagnola dalla metà del XVI secolo al 1706, i domini degli Asburgo di Vienna dal 1706 al 1796. In questi vasti imperi, composti da territori con tradizioni giuridico amministrative assai diverse, i milanesi riuscirono per secoli a tutelare i loro interessi economici e politici grazie alla distanza che li separava dai centri di potere entro il cui dominio pure si trovavano. Persa l’indipendenza politica nel 1499, il Ducato di Milano ebbe riconosciute dai Francesi , dagli Asburgo di Spagna e per buona parte del Settecento anche dagli Asburgo di Vienna le sue storiche autonomie giuridico-amministrative risalenti al periodo visconteo-sforzesco. I milanesi dovettero però accettare la sovranità di monarchi le cui corti si trovavano oltralpe, assai distanti dall’Italia cisalpina. Eppure non sembra azzardato ritenere che la natura internazionale di Milano – già presente nell’Età antica e nel Medioevo – si sia rafforzata ancor più in questo periodo, quando i milanesi furono obbligati a confrontarsi con burocrazie europee (spagnola prima, austriaca poi) in un dialogo costruttivo con i sovrani absburgici: questo permise loro di intervenire negli organi consiliari (a Madrid come a Vienna), che garantivano la rappresentanza dei diversi territori al centro della monarchia. Di qui un’apertura costante al diverso e un’attitudine a confrontarsi con politiche pubbliche che superavano la sfera regionale, poste com’erano in una dimensione internazionale.

Il pane nella Milano d’ancien régime

Il pane oggi non è più un alimento essenziale nella dieta di una persona. E’ invalso l’uso di farne a meno nei pasti quotidiani, a pranzo o a cena, colpevole di essere troppo pesante da digerire o di fare ingrassare costringendoci ad impegnativi percorsi di dimagrimento. E’ quel che avviene nelle ricche società dell’Occidente, in cui gran parte della popolazione può permettersi il lusso di mangiare quello che desidera, non ciò di cui ha bisogno per sopravvivere. I poveri non ragionano in questo modo. Per loro il pane costituisce l’alimento essenziale, come lo è stato per secoli nella società europea.

Quando si afferma la civiltà del pane? Plinio ricorda che nell’antica Roma i primi forni comparvero nel II secolo avanti Cristo. Nella civiltà mediterranea il pane fu l’alimento fondamentale, presente non solo nella civiltà romana ma anche in quella greca, babilonese ed egiziana. Autentico prodotto della civiltà agricola derivato dai cereali, esso garantiva agli uomini e alle donne le calorie necessarie per vivere. Non è un caso se Omero lo descrive come alimento degli uomini civili in opposizione ai barbari che, vivendo di pastorizia e nomadismo, non lo conoscono. “Mangiatori di pane” sono per Omero gli uomini.

pane cattoliciSe il riso costituiva l’alimento primario per la Cina, il mais per le popolazioni dell’America meridionale, il sorgo per quelle africane, il grano fu la base dell’alimentazione mediterranea. Nella tarda romanità e nell’alto Medioevo il pane raggiunse il Nord germanico contendendo alle carni il primato di alimento fondamentale: un processo che si spiega con la diffusione europea del cattolicesimo. Il pane per i cristiani non è solo il corpo di Gesù. E’ il vero simbolo della fede che, coltivata, macinata, impastata, fermenta nei cuori dei fedeli portandoli alla salvezza eterna. Sant’Agostino ci ha lasciato in proposito pagine memorabili. Certo, in una civiltà come quella nord-europea basata sul largo consumo di carne, il pane fatica ad affermarsi come alimento fondamentale nella dieta delle persone. Esso tuttavia si diffonde sempre più nel corso del basso Medioevo: l’aumento della popolazione, provocando una diminuzione degli spazi cui era possibile accedere per la caccia di animali, rese il pane l’alimento essenziale per i contadini e in particolar modo per le classi urbane.

Per buona parte dell’età moderna fino al Settecento, cura costante dei poteri pubblici europei fu di garantire alle città un mercato ben fornito di pane con prezzo calmierato per i ceti popolari. Lo smercio dei cereali non obbediva alla libera legge della domanda e dell’offerta ma era regolato su prezzi politici perché le classi povere potessero procurarsi senza difficoltà un alimento basilare per l’esistenza della persona.

Negli Stati italiani d’antico regime ogni città si riforniva facendo arrivare i cereali dai contadi circostanti sottoposti al suo dominio. A Milano la più antica istituzione civica, il Tribunale di Provvisione, fu costituita nel 1279 con il compito di impedire che i cereali venissero esportati oltre il territorio del Comune. Tale magistratura sarebbe stata soppressa solo con l’arrivo in Lombardia del generale Bonaparte, nella primavera del 1796. Composto dal Vicario e da dodici funzionari provenienti dalle sei porte cittadine (i quartieri del centro di Milano), il Tribunale aveva tra le sue funzioni quella di assicurare la circolazione di questo bene di prima necessità.

Il duca di Milano, Gian Galeazzo Visconti, emanò il 13 luglio 1386 la prima normativa che vietava l’esportazione dei cereali senza un apposito permesso dell’autorità pubblica. L’obiettivo dichiarato era di evitare carestie nel territorio milanese.

Sotto il dominio spagnolo, le Novae Constitutiones emanate da Carlo V nel 1541 – la suprema fonte dell’ordinamento giuridico lombardo erede del diritto visconteo-sforzesco – riservavano all’annona un’intera sezione intitolata De praefectis annonae.  Cosa significa “annona”? Con questo termine ci si riferiva all’organizzazione della pubblica alimentazione da parte del potere politico (dal latino Annona, dea delle biade dell’anno). I prefetti dell’annona erano incaricati di presiedere all’amministrazione e alla giurisdizione su questa materia cruciale per la popolazione del ducato. L’incipit di questa sezione descrive bene l’importanza di tale magistratura nello Stato di Milano d’antico regime:

Non sine ratione Magistratus annonae in excelsa urbe Mediolani constitutus est, qui curam annonae per universam Mediolanensem ditionem haberet. Studeretque ut ordines in eam causam facti observarentur. Quia per huius Magistratus constitutionem, annonae ubertas conservatur ad commodum subditorum & huius imperii tutelam.

[Non senza ragione fu istituito nell’eccelsa città di Milano il Magistrato dell’Annona, perché avesse la cura dell’annona su tutto quanto il milanese nell’accezione ampia del termine, perché operasse affinché fossero rispettati gli ordini emanati su questo tema. Perché, mediante la formazione di questa istituzione, venisse assicurata l’abbondanza dell’annona per il bene dei sudditi e per la sicurezza di questo dominio]

Nella città di Milano, come si è ricordato, tale funzione era gestita dal Vicario e dai XII di Provvisione. Due erano gli ambiti in cui operava questa magistratura civica: il mercato dei cereali, la produzione e la vendita del pane.

Quanto al mercato dei cereali, occorre ricordare che la maggior parte delle operazioni commerciali avveniva nel Mercato del Broletto, il luogo ove doveva essere sistemato il grano proveniente dal contado avendo cura che la merce non subisse furti lungo il trasporto.

Il forno delle grucce
“Il forno delle Grucce” . Incisione di Gonin tratta dai Promessi Sposi

Altrettanto importante era la gestione della produzione e vendita del pane, l’alimento basilare dei milanesi nell’età moderna fino all’Ottocento. Erano prodotti a tal proposito due tipi di pane: il pane bianco, ricavato dal frumento, accessibile alla nobiltà e alla ricca borghesia; il pane di mistura formato da segale, granoturco e miglio. Due corporazioni distinte gestivano la preparazione e la vendita di questi tipi di pane. I prestinai del pano bianco erano in tutto 13 persone che gestivano in via esclusiva lo smercio di questo alimento a Milano. I 13 forni si trovavano in diversi luoghi: oltre a quelli operanti nei sei quartieri cittadini fino ai Bastioni – ad esempio il celebre “prestin dii Scansch” manzoniano in corsia dei Servi, oggi corso Vittorio Emanuele, per il sestiere di Porta Orientale e altri nei sestieri di Porta Romana, Ticinese, Vercellina, Comasina, Nuova – c’erano panettieri “alla Cicogna” (probabilmente ove si trovava palazzo Cicogna – oggi scomparso – in via Unione), a Sant’Ambrogio, alla Rosa (zona piazza San Sepolcro), alle Farine (zona Duomo), ai Rosti (zona San Giorgio al Palazzo), al Cordusio e ai Bossi (zona via Broletto). Alla corporazione del pane misto appartenevano invece più di 100 membri, i quali non potevano certo permettersi gli alti guadagni riservati ai 13 “panettieri privilegiati”.

D’altra parte occorre rilevare che, diversamente dai panettieri che producevano il pane di mistura, i 13 fornai di pane bianco non erano proprietari dei forni ove lavoravano. Tali negozi erano di famiglie nobili o di corporazioni religiose che li affittavano alla corporazione dei prestinai delegando a un organismo del patriziato milanese, la congregazione del Banco di Sant’Ambrogio, la gestione dei lucrosi affitti triennali. Potente istituzione composta da membri del patriziato, questa congregazione svolse nel Settecento un’attività di sorveglianza sui panificatori.  Si pensi che essa poteva revocare a suo piacimento il contratto con uno o più panettieri se non era soddisfatta del servizio o se questi ultimi non fornivano le necessarie garanzie di tutelare i suoi interessi.

A partire dagli anni Sessanta del Settecento, quando i prezzi dei cereali (e quindi del pane) iniziarono a salire in Europa in seguito all’aumento della popolazione, il governo asburgico intraprese alcune inchieste tese a migliorare il commercio e la produzione di questo bene agricolo. Non si arrivò alla piena liberalizzazione dei grani nel commercio interno ed estero quale si ebbe ad esempio nel Granducato di Toscana, ma si assicurò con gli editti del 1770 e del 1771 una parziale liberalizzazione all’interno della Lombardia austriaca. Così, ad esempio, la riforma del 29 agosto 1770 abolì i divieti nel numero dei panettieri rendendo possibile a chiunque produrre e vendere il pane. Cadeva il monopolio tradizionale dei 13 ‘panettieri bianchi’. Se era uscita sconfitta la linea di Pietro Verri e degli imprenditori agricoli, i quali propugnavano la piena liberalizzazione del settore per massimizzare i guadagni, d’altra parte avevano vinto economisti quali Cesare Beccaria e Gian Rinaldo Carli, aperti a una cauta liberalizzazione, diffidenti verso un’astratta legge del mercato che rischiava di impoverire i ceti popolari. Il governo austriaco, alle prese con gravi problemi di ordine pubblico per le carestie avvenute in Boemia e in Moravia, temeva che, ove fosse stata realizzata una piena liberalizzazione, la popolazione lombarda non avrebbe avuto pane a sufficienza.

Il governo austriaco promosse quindi il libero commercio di cereali all’interno della Lombardia austriaca mediante la graduale abolizione delle corporazioni, ma non rinunciò ad intervenire con azioni volte a salvaguardare i bisogni delle classi disagiate.