Sala e Balzani: due idee diverse su Milano

Qualcosa, sia pur lentamente, si sta muovendo in vista delle elezioni comunali che si terranno a Milano il prossimo anno. E’ di oggi la notizia che l’assessore al bilancio della giunta Pisapia, Francesca Balzani, si è candidata nel centrosinistra per la corsa a Palazzo Marino. Il suo avversario, Giuseppe Sala, non ha ancora sciolto la riserva ma è certo che sarà il principale avversario della Balzani alle primarie che si svolgeranno il 7 febbraio.

Mentre a sinistra cominciano ad accendersi i riflettori, nel centro destra è buio completo. In effetti si è candidato Corrado Passera alla testa di un partito, Italia Unica, che mira a raccogliere il consenso di un elettorato che non si riconosce né in Salvini né in Renzi. L’impressione tuttavia è che qui si navighi ancora in alto mare. C’è poi il centro destra in cui domina ancora la figura di Berlusconi, che non ha ancora scelto in via definitiva il candidato sindaco, consapevole che le elezioni amministrative del 2016 saranno un terreno molto spinoso.

Giuliano_Pisapia_in_Piazza_Scala_a_Milano,_27_giugno_2012
Giuliano Pisapia, Sindaco di Milano dal 2011

Il centro sinistra ha una marcia in più. Può contare sugli ottimi risultati conseguiti in questi anni dalla giunta Pisapia. Per chi si trova all’opposizione è veramente difficile convincere i cittadini che a Milano le cose vanno male, che la città si trova in condizioni peggiori rispetto a cinque anni fa. Tutti gli indicatori dicono il contrario e questo non solo per merito di Expo. E’ il risultato di un lavoro umile, trasparente, al servizio della città che l’amministrazione Pisapia ha saputo portare avanti grazie a un dialogo costante con la società civile. A Milano ci sono quartieri che sono “letteralmente” rinati. Basti pensare – per non fare che un esempio emblematico – al significato che ha avuto la Darsena per la valorizzazione del patrimonio culturale dei navigli milanesi. Certo, sono ancora molti i problemi da risolvere: penso all’edilizia popolare, al recupero degli scali ferroviari dismessi, al rafforzamento dei piani antismog, all’aumento ulteriore delle aree verdi.

Oggi però Milano si trova ben piazzata nelle classifiche internazionali delle città da visitare. Sarà difficile per il centrodestra competere “alla pari” alle prossime elezioni comunali. L’alternativa a Pisapia – ammesso e non concesso che di alternativa si possa parlare – si giocherà piuttosto all’interno del centro sinistra milanese. Per questo motivo le primarie del 7 febbraio assumeranno un peso determinante per il futuro della metropoli. Gli elettori saranno chiamati a scegliere sostanzialmente tra due persone che rappresentano due modi diversi di pensare al futuro della città; due idee che a ben vedere, lungi dall’essere in opposizione, possono integrarsi a vicenda.

Giuseppe Sala
Giuseppe Sala, Commissario unico di Expo 2015

Giuseppe Sala (classe 1958) proviene dal mondo dell’imprenditoria. Non occorre ricordare i ruoli importanti che ha rivestito in Pirelli e in Telecom. Gli italiani, presso i quali gode di una meritata popolarità, lo conoscono soprattutto come il commissario unico di Expo che ha lavorato a testa bassa per allestire una Esposizione Internazionale che fosse all’altezza di un grande Paese come l’Italia. Il risultato non è stato eccellente ma di questo non si può dar la colpa a Sala. Si era partiti in clamoroso ritardo (per colpa dei politici), c’erano stati numerosi arresti per corruzione tra i manager chiamati a gestire le varie parti di Expo. Sala si è speso anima e corpo per evitare a tutti i costi che il Paese facesse una pessima figura a livello internazionale. Se questo risultato è stato raggiunto, lo dobbiamo a lui, all’azione di Cantone contro la corruzione e alla sinergia tra le istituzioni: Stato, Regione Lombardia e Comune di Milano. Certo, si poteva fare meglio ma quel che importa è che ne siamo usciti bene.

Quali sono le doti sulle quali Sala può contare qualora fosse eletto Sindaco di Milano? Ha la capacità di produrre risultati in tempi certi, quell’operosità tipicamente milanese abituata a ragionare per obiettivi che è necessaria per chi vuole amministrare un Comune importante come Milano. Sala ha sostenuto che da sindaco il suo impegno sarà di rendere Milano una città aperta a tutti, puntando sulle periferie e sui Comuni circostanti mediante il rilancio della Città metropolitana. La città ambrosiana, – ha detto – deve “cessare di essere una Milano da bere per pochi, deve divenire una Milano da bere per tutti”. La critica è qui implicitamente all’amministrazione Pisapia, che non si sarebbe spesa a sufficienza per investire nella dimensione metropolitana di Milano.

Francesca Balzani con Pisapia
Francesca Balzani con Giuliano Pisapia

Veniamo ora all’assessora al bilancio Francesca Balzani. E’ più giovane di Sala, ha 49 anni. Non è milanese. E’ originaria di Genova ma – come si suol dire a giorno d’oggi – si considera “milanese d’adozione”. Da 20 anni vive nel capoluogo lombardo, una città che ama moltissimo perché – dice l’assessora – l’ha fatta sentire parte di una comunità. Attualmente è vicesindaco nella giunta Pisapia. La sua diversità da Sala è nello stile e nel metodo. Nello stile perché, diversamente dal commissario di Expo, la Balzani ritiene che Milano debba continuare nella strada imboccata da Pisapia. Vorrebbe che la città fosse ancora più sensibile a un cultura civica che investa sulla mobilità sostenibile per migliorare la salute dei cittadini, l’ambiente e la vivibilità.

La diversità da Sala è anche nel metodo. Sala ha il piglio del manager, dell’uomo forte che decide, impone la sua linea e porta a termine il suo compito. Sembra un po’ il Mr Wolf del celebre film Pulp Fiction di Tarantino: risolve problemi. La Balzani rappresenta per converso quell’anima comunitaria che è il lascito più prezioso della giunta Pisapia: la capacità di condividere i progetti con la società civile aprendosi agli altri; questo metodo ha saputo fare della comunità milanese un soggetto attivo in cui i cittadini, attraverso gli istituti di democrazia diretta e il decentramento dei municipi di zona, hanno i mezzi per intervenire ed eventualmente correggere i progetti elaborati dal Comune. L’azione amministrativa è qui concepita come il risultato di un confronto con la società, con i cittadini dei quartieri, con le associazioni.

In una recente intervista la Balzani ha sostenuto che intende puntare sulle tre linee guida che sono alla base della giunta Pisapia: a) legalità e pulizia morale nell’esercizio delle funzioni pubbliche: la giunta deve continuare a svolgere il suo compito investendo sulle persone oneste e competenti; b) cultura: occorre che il dialogo con le università continui mediante nuove attività di collaborazione che abbiano quale fine ultimo la valorizzazione del patrimonio storico culturale di Milano; il piano di fattibilità per la riapertura dei navigli in centro città elaborato dal Politecnico grazie al sostegno dell’ex vicesindaco Ada Lucia De Cesaris costituisce uno degli esempi più importanti di questa collaborazione tra Comune/Università: il Comune ha finanziato uno studio di fattibilità per rendere il centro un’area in cui a dominare non sarà più il traffico e lo smog, bensì il verde dei parchi e dei giardini, l’azzurro dei canali navigabili a due passi dalla Madonnina; il rosso delle piste ciclabili e dei percorsi pedonali lungo le vie del centro: un’area in cui i cittadini, oltre a recarsi per lavoro nei palazzi del terziario, potranno fruire di spazi ricreativi, turistici, caratterizzati da un alto standard di vivibilità e di qualità ambientale; c) creatività: occorre proseguire il lavoro di sinergia con il mondo della moda, del design, dell’arte che ha consentito di valorizzare gli spazi urbani rendendo visibile quella capacità d’innovare rivelando soluzioni inedite che è una delle anime caratteristiche di Milano.

Sala e Balzani hanno quindi idee importanti per il governo della città. Sala punterà certamente sull’idea della Città metropolitana, concepita come istituzione di raccordo tra centro e periferia per l’estensione di standard omogenei nel campo dei servizi pubblici, dei trasporti, della viabilità. La Balzani insisterà sui grandi temi della cultura, della mobilità sostenibile, della vivibilità e dell’ambiente. Due idee che sarebbe bene tenere assieme.

Dalle tenebre alla luce: l’illuminazione pubblica

L’illuminazione pubblica è un servizio che rientra nella normalità di qualsiasi paese ad economia avanzata. Non è così nelle società povere. Non fu così in età medievale e per buona parte dell’età moderna quando il calar della notte spingeva i cittadini a rinchiudersi in casa per evitare di essere derubati o assaliti.

A Milano l’illuminazione notturna fu introdotta per la prima volta nel 1784, quando l’imperatore Giuseppe II decise di finanziare tale servizio con i fondi ricavati dai proventi del gioco del lotto e dalla tassazione sugli edifici.

Lampadee
Addetto all’accensione delle lanterne pubbliche. Incisione del primo Ottocento.

La visibilità risultava tuttavia scarsa perché la luce che proveniva dai lampioni era troppo debole, limitata a pochi metri di distanza. La situazione non mutò nel periodo napoleonico. Milano, pur essendo elevata al rango di capitale dello Stato italico, continuò a subire disagi. Il servizio d’illuminazione notturna, gestito direttamente dal Comune, mostrava gravi carenze. In una lettera al prefetto dell’Olona del 15 dicembre 1812, il ministro dell’interno rimarcava il pessimo servizio gestito dagli impiegati del Comune:

Intorno alla pubblica illuminazione notturna di questa capitale due principali inconvenienti si rimarcano…cioè la poca esattezza nella sua esecuzione, e quindi la negligenza di quelli, che sono incaricati d’accendere i fanali; secondo il cattivo sistema di non accendere le lampade nelle notti e nelle ore in cui dovrebbe risplendere la luna, il di cui raggio ci è impedito quando l’aria è nuvolosa, versando così sovente in tenebre le contrade della città.

(Il ministro dell’interno Luigi Vaccari al prefetto dell’Olona Gaudenzio Maria Caccia di Romentino, 15 dicembre 1812 pubblicata in E. Pagano, Il Comune di Milano in età napoleonica, Milano, Vita e Pensiero, 2002, pag.190).

Occorreva una luce più forte che, oltre ad assicurare un migliore decoro pubblico, fosse in grado di garantire la mobilità dei cittadini anche di notte. Negli anni Trenta e Quaranta dell’Ottocento, furono compiuti alcuni tentativi in questa direzione.

Carlo Cattaneo
Carlo Cattaneo (1801-1869)

Giovanni Battista Brambilla (nato nel 1803), titolare di una banca col fratello Pietro denominata “Brambilla & Compagno”, socio di un’azienda milanese specializzata in seta e spedizioni, in una lettera  del 23 marzo 1837 alla delegazione provinciale sosteneva di voler fornire un’illuminazione a gas derivante da combustibili fossili. Carlo Cattaneo fu incaricato da Brambilla di scrivere alcune lettere su questo tema. Il tratto innovativo del progetto consisteva nell’abbandono degli oli combustibili (olio di oliva e olio di noce) e nell’utilizzo dei combustibili fossili da cui trarre il gas con cui alimentare le lampade. Scriveva Cattaneo alla delegazione provinciale:

La Ditta…di questa Regia Città a termini della Sovrana Patente 31 marzo 1832 notifica colla presente un suo progetto di miglioramento che consiste nell’applicare alla illuminazione generale pubblica e privata di questa Regia Città il gas estratto dai combustibili fossili della Monarchia (mediante la costruzione di vasti serbatoi collocati all’aperto e forniti di gazometro e degli opportuni meccanismi di sicurezza praticati in Inghilterra e nel Belgio) il che deve alleviare la spesa giornaliera dei pubblici stabilimenti e delle famiglie e produrre un vantaggio allo Stato in preferenza all’uso delle materie oliacee…

(I Carteggi di Carlo Cattaneo, a cura di Maria Chiara Fugazza e Margherita Cancarini Petroboni, Serie I, volume I, Firenze-Bellinzona, Le Monnier – Casagrande, 2001, pp.80-81).

Il progetto di Brambilla parve avere esito positivo: il 19 maggio l’imperatore Ferdinando gli concesse il privilegio di gestire il servizio in via esclusiva per un tempo di 15 anni. Seguì la fondazione di una società che avrebbe operato a Milano e a Trieste. Nell’atto di costituzione, risalente al 10 gennaio 1838, figurano un negoziante di Lione, Jacques Joseph Rast, tre architetti civili sempre di Lione (i fratelli Jules e Prospère Renaux e Jean Bonnin), i fratelli Giuseppe, Pietro e Giovanni Battista Brambilla.  Il ruolo di Cattaneo può sembrare marginale in questa vicenda. In realtà, pochi giorni dopo, egli stesso si aggiunse come socio alla società fondata dal Brambilla, mostrando di credere nel progetto.

Il banchiere si mise all’opera per assicurare ai milanesi un’adeguata illuminazione pubblica. Il privilegio del governo non era però sufficiente. Occorreva l’autorizzazione del Comune, rappresentato in questa vicenda dalla Congregazione municipale. In una lettera scritta da Cattaneo il 20 gennaio 1838 per convincere le autorità locali, si assicurava: “la luce che tramanderà continuamente la fiamma del Gas illuminante sarà almeno una mezza volta più vivace e potente del miglior fanale possibile ad olio; di maniera che si potrà facilmente leggere alla distanza di venti metri” (I Carteggi di Carlo Cattaneo…cit., pag.109).

Rassicurazioni che non bastarono a convincere la Congregazione municipale, alla quale pervenne in quel medesimo periodo una proposta alternativa da parte dell’ingegnere francese Jules Achille Guillard. Questi promise di garantire l’illuminazione pubblica a gas mediante un metodo di gran lunga più efficiente, già sperimentato con successo a Grenoble e in un quartiere di Lione.  Si trattava del metodo Selligue. Consisteva nell’utilizzo dei cosiddetti “schisti bituminosi”, un tipo di roccia facilmente sfaldabile che a contatto con l’acqua provocava una reazione chimica da cui era possibile ottenere gas idrogeno.

La Congregazione municipale formò una commissione per capire quale dei due metodi fosse da preferire e di conseguenza a quale società fosse opportuno dare l’appalto: se a quella del Brambilla o a quella del Guillard. Furono condotti in città due esperimenti d’illuminazione compiuti l’uno con il metodo Selligue, l’altro con il metodo di estrazione del gas dal carbone fossile. Il primo ebbe luogo nei pressi del Teatro dei Filodrammatici, l’altro al Dazio di Porta Orientale, non molto distante dai giardini pubblici di Porta Venezia. Un curioso articolo apparso sulla Biblioteca Italiana, nel numero di luglio-settembre 1838, così descriveva gli esperimenti:

Due società egualmente rispettabili si sono presentate a contendersi l’onore ed il guadagno di quest’impresa. Assistite e l’una e l’altra da valenti artefici hanno entrambe dato un saggio del loro diverso sistema d’illuminazione, l’una al teatro de’ Filo-drammatici, l’altra alla birreria vicina al dazio di porta Orientale. Distinguendo le società dal sito ove ebbero luogo gli esperimenti, diremo che per quanto comunemente si disse, e per quanto si è potuto arguire dagli effetti dell’esterna illuminazione, sembra che la Società del teatro abbia seguito il nuovo processo di Selligue estraendo il gas dalla decomposizione dell’acqua, combinata coll’idrogeno prodotto da materie oleose, e si sa che la Società della Birreria ha adoperato in parte il carbon fossile delle miniere di Saint-Etienne, ed in parte la lignite indigena del Vicentino, servendosi egualmente per combustibile di lignite nostra….l’una e l’altra società hanno dimostrato come l’arte d’illuminare a gas è in oggi portata ad un grado tale di perfezione da potere senza esitanza applicarla ai bisogni nostri.

La commissione optò alla fine per il metodo Selligue. Il contratto con la società Guillard venne firmato nel giugno 1843. Costruita la fabbrica fuori Porta Lodovica nei corpi Santi di Porta Romana (ove oggi si trova la Centrale del Latte), Guillard curò la graduale posa dei tubi al di sotto delle vie. Il 31 luglio 1845 i milanesi del centro poterono assistere alla nuova illuminazione. Dicevano finalmente addio alla “incomoda e pericolosa oscurità” in cui erano rimasti avviluppati per secoli.

Perchè è opportuno ricordare Sant’Ambrogio

Nel discorso tenuto il 28 gennaio 1897 alla conferenza per il quindicesimo centenario della morte di Sant’Ambrogio, un giovanissimo Angelo Mauri (1873-1936), attivo in quegli anni presso il comitato cattolico diocesano assieme a figure quali Filippo Meda e Bernardino Nogara, tracciava un efficace profilo della popolarità che il santo aveva rivestito nel corso dei secoli presso i milanesi. Noi oggi ricordiamo Mauri soprattutto come docente di storia delle dottrine economiche all’Università Cattolica del Sacro Cuore, titolare di questa cattedra per volontà di padre Gemelli dalla metà degli anni Venti al 1933.

Angelo Mauri
Angelo Mauri fu eletto deputato alla Camera dei deputati negli anni 1905-09; 1919-21 e 1921-24.

Nell’intervento tenuto alla conferenza del 1897, il Mauri tesseva un vivido quadro della storia milanese facendo notare come la figura di Ambrogio fosse stata evocata dai milanesi negli episodi cruciali della storia cittadina: dalla battaglia di Parabiago (1339) alla repubblica ambrosiana (1447-1450); non mancava di ricordare perfino un istituto di credito che per tre secoli, dal 1593 all’arrivo dei francesi comandati dal generale Bonaparte, gestì le risorse del patriziato milanese: il banco di Sant’Ambrogio. Mauri osservava che i milanesi si erano appellati ad Ambrogio nei momenti più difficili, richiamando una memoria del patrono che “non illanguidita mai nell’intimità della coscienza popolare, pur d’ora in ora, a periodi, a ricorsi, manda attraverso la storia milanese vividi guizzi di luce nei momenti più gravi e decisivi della vita cittadina, nelle sue più solenni manifestazioni politiche e sociali” (A. Mauri, La memoria di S. Ambrogio in Conferenze santambrosiane, gennaio-febbraio 1897, Milano, Libreria Religiosa Editrice di G. Palma, 1897, pag.196).

Quale insegnamento possiamo trarre oggi dalla vita di questo santo, a pochi giorni dalla sua celebrazione? Anzitutto cerchiamo di collocarlo nel contesto storico in cui visse, vale a dire l’Impero Romano d’Occidente. Ambrogio (333 o 340-397 d.C.) nacque a Treviri, figlio di un funzionario dell’amministrazione imperiale romana, forse un prefetto del pretorio. Trasferitosi a Roma con la famiglia, si formò negli studi giuridici per seguire la carriera burocratica sull’esempio del padre. Sotto l’imperatore Valentiniano I, nel 370 d.C., fu nominato governatore delle province dell’Emilia e della Liguria che interessavano un territorio corrispondente pressappoco alle attuali regioni Lombardia, Piemonte, Liguria e la parte occidentale dell’Emilia Romagna.  Ma cosa significava essere governatore in età tardo antica? I governatori avevano poteri civili afferenti all’ordine pubblico e alla fiscalità. Esercitavano la giustizia in prima istanza fatta eccezione per i senatori. Avevano alle loro dipendenze non meno di 100 impiegati pubblici.

Il  governatore Ambrogio attivo a Milano dal 370 al 374, anno in cui venne proclamato vescovo della città dopo la morte dell’ariano Aussenzio, era un uomo che conosceva bene l’amministrazione civile romana; sapeva quali fossero i problemi di una società  come quella tardo antica, divisa tra più fedi religiose in conflitto tra loro. A Milano, che Diocleziano aveva elevato assieme a Treviri al rango di capitale dell’Impero romano d’Occidente, oltre ai cattolici c’erano gli ariani che riconoscevano la sola natura umana di Gesù, non quella divina presente in Dio padre; c’erano poi i pagani legati agli antichi culti. Una situazione di conflitto che sfociava spesso in persecuzioni e scontri.

Nell’esercizio della funzione di governatore Ambrogio si guadagnò una certa popolarità presso i cristiani. Lui stesso si avvicinò al culto come catecumeno, preparandosi a ricevere il battesimo. Il 7 dicembre del 374 non fu soltanto battezzato, fu proclamato vescovo della città, segno dell’autorità indiscussa che aveva saputo conquistarsi presso la cittadinanza milanese.

Sant'Ambrogio (339/340-397)
Sant’Ambrogio (339/340-397)

Come vescovo Ambrogio fu un ardente propugnatore del cristianesimo; occorre ricordare che l’editto di Milano emanato da Costantino nel 313 d.C. aveva reso questo culto la religione dell’impero, soggetta quindi alla protezione dell’autorità civile. Eppure, quasi preannunciando gli scontri medievali tra papato e impero, nella difesa e nella salvaguardia dell’ortodossia Ambrogio non esitò a scontrarsi con il potere politico contestando il diritto d’ingerenza dell’imperatore in materia ecclesiastica. Un’ingerenza d’altra parte inevitabile visto lo status di religione protetta che era stato fissato, come si è ricordato, dall’editto di Milano.

Qual era la concezione politica di Sant’Ambrogio? Essa rifletteva le linee del cristianesimo della tarda antichità e dell’Alto Medioevo: si trattava di una concezione della vita politica e sociale intrisa di un tendenziale pessimismo nei confronti della natura umana; una concezione secondo la quale l’uomo, a causa del peccato originale, deve essere governato da un potere pubblico che eserciti la forza coercitiva per il rispetto delle leggi e per il bene comune. Le autorità secolari – che ai tempi di Ambrogio si identificavano con l’imperatore romano – erano quindi legittime perché la loro autorità era riconosciuta da Dio come mezzo necessario per correggere una natura umana corrotta dal peccato.

Ambrogio, che era stato uno zelante funzionario dell’amministrazione imperiale, si richiamava all’insegnamento dell’Apostolo: non est potestas nisi a Deo (ogni potere è derivato da Dio). E’ però significativo che la sua interpretazione della parola apostolica si discostasse notevolmente dai padri cristiani dei secoli precedenti o dallo stesso Agostino che egli stesso battezzò a Milano nella Pasqua del 387 d.C. Secondo il cristianesimo della tarda antichità quelle parole erano interpretate come segno di un obbligo incondizionato verso i detentori del potere. Se il potere politico avesse agito bene, ciò era da riconoscere come un segno della clemenza divina; se avesse agito male, occorreva subire passivamente la malvagità o la corruzione perché vi si ravvisava un segno della collera di Dio per i peccati degli uomini.

Teodosio
Teodosio (347-395 d.C.). Da un ciondolo bizantino del IV secolo d.C.

Ambrogio, da fine giurista qual era, si discostava da questa concezione distinguendo tra l’istituzione politica in sé e il singolo atto amministrativo compiuto dalla persona. In caso di azione malvagia – asseriva il vescovo – la responsabilità non colpisce l’istituzione, bensì l’uomo che si comporta male. Il dovere di obbedienza non è quindi incondizionato, bensì legato al corretto esercizio delle funzioni pubbliche che devono rispettare il diritto positivo, il diritto naturale e il diritto divino. Ne derivava quella concezione del potere imperiale come delega, come mandato divino ad operare per il bene della comunità, che sarebbe stato alla base del Medioevo europeo. Coerentemente con tale pensiero, egli non esitò a condannare l’uccisione in massa della popolazione di Tessalonica ordinata dall’imperatore Teodosio in risposta a un atto di sedizione. All’imperatore, che era giunto a Milano, Ambrogio vietò risolutamente di entrare in chiesa: lo avrebbe potuto fare solo a condizione di chiedere perdono a Dio per i peccati commessi perché, come scrisse in quell’occasione in una lettera a Teodosio, “peccatum non tollitur nisi lacrimis et paenitentia”. Colpito dalla fermezza e dall’autorità del vescovo, l’imperatore fece pubblica penitenza nel Natale del 390 d.C.

Il diritto di natura era essenziale nella filosofia politica di Sant’Ambrogio. Gli uomini tendono a reggersi in pace in società in base al principio di non fare agli altri quel che non vorresti fosse fatto a te. Il vescovo di Milano credeva tuttavia che il solo diritto di natura non fosse sufficiente perché la natura umana era corrotta dal peccato originale. Di qui il richiamo alla legge scritta che obbliga l’uomo al rispetto dei patti: dalla legge mosaica alla legge emanata dai poteri secolari (l’Impero). Contro le ingiustizie e il disordine, solo il potere politico ha il dovere di usare la forza per obbligare gli uomini a vivere pacificamente nella comunità secondo le parole dell’Apostolo: non sine causa gladium portat qui judicat (non senza motivo tiene la spada colui che giudica).

Meritano infine di essere considerate le osservazioni di Ambrogio nei confronti del bene comune. Il vescovo di Milano non condivideva la posizione di quanti ritenevano che tra interessi privati e interessi pubblici andasse operata una netta divisione. Si trovava anche in disaccordo con quanti ritenevano che l’agire degli uomini in società dovesse limitarsi al divieto di far male agli altri. Non fare male al prossimo – ricordava – è un modello di condotta ovvio per qualunque cristiano che segue l’insegnamento di Gesù. Il diritto naturale e il diritto divino impongono invece di far prevalere l’interesse comune su quello individuale operando concretamente con azioni a sostegno dei più deboli.

Difensore della fede cristiana, spinto da uno spirito missionario per la conversione dei pagani e dagli ariani, Ambrogio volle che fuori dalle mura di Milano fossero costruite quattro chiese in direzione dei punti cardinali, affinché i ministri del culto potessero svolgere un’efficace opera di evangelizzazione: Sant’Ambrogio ad ovest (poi nel sestiere di Porta Vercellina), San Nazaro a sud (nel sestiere di Porta Romana), San Simpliciano a nord (nel sestiere di Porta Comasina), San Dionigi ad est, (chiesa oggi scomparsa, situata un tempo nel sestiere di Porta Orientale, ove oggi si trovano i giardini pubblici).