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Capire chi siamo: online una Enciclopedia storica

Un’interessante iniziativa avviata dalla Società Storica Lombarda riguarda la compilazione della Enciclopedia delle famiglie lombarde: si tratta di una piattaforma informatica, già in parte accessibile in rete, i cui contenuti saranno accresciuti nei prossimi mesi. L’obiettivo – come ha ricordato Ottavio De Carli in un incontro organizzato il 22 novembre presso l’Archivio di Stato di Milano – è di mettere a disposizione del pubblico uno strumento di conoscenza storica rivolto non solo a specialisti, ma anche a persone appassionate di storia locale che desiderano disporre su Internet di una piattaforma d’immediata consultazione come avviene con Wikipedia; per quanto concerne la qualità dei contenuti disponibili, il modello sarà invece quello delle garzantine: il lavoro è gestito da una commissione scientifica di storici e specialisti: ricordo il direttore Stefano Levati (Università degli Studi di Milano), il coordinatore Ottavio De Carli, Fabrizio Alemani, Saverio Almini, Paolo Galimberti, Gabriele Medolago e Giovanni Necchi della Silva.

L’opera insisterà su un’area territoriale – la Lombardia – di dimensioni regionali o addirittura macroregionali a seconda del significato che si vorrà dare a questo termine: gli storici hanno infatti dimostrato che il nome “Lombardia” non si riferisce soltanto alla Regione attuale, la cui formazione risale alla fine del Settecento e ai primi anni dell’Ottocento. Occorre tener presente anche la “Lombardia storica”, l’antica area geografica ricordata da Montesquieu, estesa alla pianura padana centro-occidentale, comprendente parte del Piemonte, del Veneto e dell’Emilia Romagna. D’altra parte, non sarà fuori luogo ricordare che lo stesso Ducato di Milano in Età Moderna fu esteso fino ai primi del Settecento a territori che oggi fanno parte della Regione Piemonte: è il caso dell’alto e basso novarese, dell’alessandrino o del tortonese.

L’Enciclopedia è dedicata allo studio delle famiglie lombarde dal Medioevo all’età moderna e contemporanea. Ad essere analizzati, sulla base dei documenti conservati negli archivi pubblici e privati, saranno gli stili di vita, le abitudini, i ruoli politico istituzionali rivestiti dalle persone oggetto d’indagine.

Una parte importante di questo lavoro riguarderà le famiglie nobili, il cui studio consentirà di comprendere meglio la società d’antico regime focalizzando l’attenzione sulla vita del tempo, sulle relazioni e sul ruolo pubblico dei matrimoni tra famiglie di pari rango; matrimoni che portavano spesso all’accrescimento del patrimonio immobiliare e finanziario del casato.

Federico Confalonieri
Federico Confalonieri (1785-1846)

La storia delle famiglie nobili lombarde consentirà inoltre di cogliere – meglio di quanto si sia fatto finora – il significato di comportamenti e di istituzioni assai diffuse nell’Europa d’ancien régime; situazioni difficilmente comprensibili al giorno d’oggi nelle loro dinamiche interne. Del tutto emblematica, a tal proposito, la figura del “cavalier servente”. Come ha rilevato lo storico Roberto Bizzocchi nell’incontro citato sopra, un esame del carteggio tra il conte Federico Confalonieri e la moglie Teresa Casati, risalente ai primi anni dell’Ottocento, ha consentito di cogliere la crisi del “matrimonio a tre” tipico della società settecentesca; un matrimonio in cui la figura del “cavalier servente”, scelto dal marito affinché la moglie potesse frequentare i salotti culturali al di fuori delle mura domestiche, svolgeva un ruolo importante. L’amore di Teresa per il marito, evidente nelle lettere che gli scriveva, lasciava trasparire una sfera di affetti già compresa nell’amore romantico di coppia formatosi nel XIX secolo. A Federico, assente da Milano, impegnato in un viaggio politico-diplomatico in Francia e in Gran Bretagna, Teresa scriveva affermando di non voler frequentare i teatri milanesi assieme agli accompagnatori che lui stesso le aveva scelto per la vita in società. La donna sentiva fortemente la mancanza del marito, il che lasciava trasparire un forte legame sentimentale tra i due, un affetto di coppia che tendeva ad essere meno presente nella società aristocratica del Settecento.

Per capire la distanza di un tale legame di natura già romantica rispetto ai formali rapporti di coppia dell’antico regime è utile ricordare il ben più saldo “matrimonio a tre” che caratterizzò la relazione settecentesca tra Laura Cotta, il marito Antonio Greppi e il cavalier servente Stefano Lottinger scelto dal marito per accompagnare la donna in società. Diversamente dai Casati e dai Confalonieri, Greppi apparteneva a una famiglia borghese originaria della bergamasca specializzata nel commercio all’ingrosso di lana e tessuti. L’ascesa sociale della famiglia avvenne a metà Settecento, quando Antonio ricevette dal ministro plenipotenziario della Lombardia austriaca, Gian Luca Pallavicini, l’incarico di gestire con altri soci l’appalto di riscossione delle tasse per conto del governo (la Ferma generale). Arricchitosi considerevolmente grazie all’impegno profuso in questa attività, il Greppi si trasferì a Milano ove acquistò una casa in via Sant’Antonio (sestiere di Porta Romana) che fece ristrutturare e ingrandire perché acquisisse i caratteri di una residenza elegante e fastosa. Negli anni Settanta, grazie ai servigi prestati all’imperatrice Maria Teresa, ottenne la nobilitazione della sua famiglia. Dal matrimonio con Laura Cotta aveva avuto sei figli maschi.

Le lettere della donna al marito, impegnato in alcuni viaggi all’estero, mostravano il rapporto d’interesse e di socialità mondana che la univa al Lottinger, importante funzionario asburgico di origine lorenese che ricoprì uffici di rilievo nella Lombardia austriaca: consigliere del Supremo Consiglio di Economia, membro della Giunta interina incaricata di amministrare le finanze, membro della Camera dei conti, dal 1780 al 1796 fu intendente generale di finanza nella Lombardia austriaca. La frequentazione con il Lottinger consentiva alla nobildonna di avere notizie aggiornate sulla politica del governo asburgico nel settore delle finanze; una messe d’informazioni assai utile al marito per il ruolo che questi, assieme ad altri soci, aveva rivestito per molti anni (dal 1750 al 1770) nella gestione della Ferma e per l’ufficio di consigliere nella Camera dei Conti dal 1770 al 1779.

Un’altra riflessione importante sulla storia delle famiglie lombarde nei secoli dell’Età Medievale e Moderna investe la sfera dei sentimenti tra genitori e figli. L’elevata mortalità infantile unita all’alto tasso di natalità rendeva tenue il legame di affetto dei padri verso i piccoli; un sentimento che tendeva a privilegiare per lo più i maschi primogeniti, sui quali si appuntavano i progetti di discendenza e di trasmissione patrimoniale del casato. Non stupisce a tal proposito, come fa notare ancora Bizzocchi, che nel diario compilato da un nobile lucchese (appartenente alla famiglia Bracci Cambini) la notazione più struggente sia quella riguardante la morte di un figlio di pochi anni, mentre la scomparsa della sorellina sia ricordata in modo quasi anonimo.

L’Enciclopedia sarà anche dedicata allo studio di famiglie borghesi che, soprattutto negli ultimi secoli dell’Età Moderna, hanno contribuito alla crescita culturale ed economica della società lombarda. Le carte conservate negli archivi riguardano non solo uomini, ma anche donne che hanno reso grande Milano in campi di grande attualità quali la moda, il design, l’architettura. Come ha sottolineato la storica Maria Canella, l’opera di valorizzazione di queste “carte politecniche” consentirà di dare voce “a persone che la storiografia ha trascurato finora”.

Un altro terreno d’indagine sarà dedicato alla storia di famiglie i cui membri si distinsero nell’atletica agonistica tra Otto e Novecento.

L’Enciclopedia della Famiglie Lombarde è liberamente accessibile a questo indirizzo.

Una sfida da vincere: il buongoverno della città

Il rapporto tra politica e amministrazione è sempre stato complesso nella storia delle istituzioni. II problema cruciale è tuttora quello di assicurare il buongoverno conciliando l’intervento pubblico con le istanze di rinnovamento che provengono dalla società. Oggi, quando si parla di buongoverno al livello del Comune, della Regione o dello Stato, si fa riferimento a una classe politica che sia in grado di dialogare con le diverse anime della comunità, facendo una sintesi che abbia come fine ultimo il bene comune. Il guaio è che gli interessi di partito e l’insorgere della lotta politica finiscono spesso con il minare alle fondamenta la coerenza dei migliori programmi amministrativi. Programmi la cui attuazione può essere assicurata solo dalla continuità di una classe politica e amministrativa che sia allenata nella corretta gestione delle funzioni pubbliche. La buona amministrazione non è di destra né di sinistra. E’ semplicemente buona amministrazione. Accecati dai bagliori della lotta politica, noi spesso ci dimentichiamo questa palese realtà.

Non si tratta di una cosa nuova. Nella Milano medievale la lotta tra fazioni, ancor più dura e radicale, minò alle fondamenta la costituzione pluralistica del Comune quale si era formata nei secoli successivi all’eclissi del potere vescovile. Per risolvere questa drammatica situazione, il 30 dicembre 1214 il podestà di Milano, il bolognese Uberto da Vialta, emanò alcune disposizioni tese a regolare il governo della città, funestata a quei tempi dalle feroci discordie tra la nobiltà e i ceti popolari. Il suo fu un gesto generoso perché il governo del Comune, affidato per tradizione ai consoli in cui si rispecchiavano le diverse anime della comunità, era passato sotto la sua autorità. L’instabilità politica aveva spinto i cittadini a chiamare un tecnico forestiero, un giureconsulto incaricato di governare assumendo l’ufficio di “podestà” a tempo limitato.

Eppure il podestà Uberto si sforzò di riportare la pace a Milano ricostituendo a grandi linee quel modello di governo misto, diviso tra nobiltà e “corporazioni di mestiere” che, basato sull’istituto consolare, aveva consentito per lungo tempo l’esercizio pacifico delle funzioni pubbliche. Egli riteneva che solo in tal modo fosse possibile conciliare gli interessi dei nobili con quelli dei ceti produttivi: abituandoli al governo condiviso, all’assunzione comune di posti chiave nell’amministrazione cittadina per il bene della comunità. Tali disposizioni stabilirono che il governo fosse formato dai rappresentanti dei quattro ceti milanesi: in prima linea c’erano i capitani e i valvassori, appartenenti alla grande e alla piccola nobiltà. Gli altri ceti erano formati dalla Motta e dalla Credenza di Sant’Ambrogio. Alla prima appartenevano i mercanti, ma anche le famiglie della nobiltà minore che, abbandonata la funzione militare del ceto di origine, si erano arricchite con il commercio. La Credenza di Sant’Ambrogio era composta per converso dai proprietari di botteghe specializzate nell’arte manifatturiera.

Il buon funzionamento di qualsiasi governo pluralistico è l’esistenza di un forte senso civico, di uno spirito di comunità dinanzi al quale gli interessi di parte siano messi in secondo piano. Nella Milano del Duecento questo senso civico non esisteva più.

L’opposizione tra nobiltà e ceti produttivi fu sociale e culturale prima ancora che politica. I nobili fondavano la loro identità nella professione militare: in battaglia erano loro a rischiare la pelle. In seguito alla nascita del Comune anche i ceti popolari furono chiamati ad armarsi e a partire per la guerra. L’arte militare continuò però ad essere materia di spettanza essenzialmente nobiliare. Il nobile viveva con le rendite dei suoi feudi, da cui ricavava le risorse per partire in guerra portandosi dietro i cavalli e i servitori. L’esercizio del mestiere delle armi era un dovere del suo ceto. Per questa ragione i nobili, i bellatores secondo il diritto medievale, godevano di diritti corporativi, come ad esempio i poteri signorili di giustizia nei loro feudi. Un altro dovere del nobile, oltre ad affrontare il nemico in battaglia, era di essere cortese, buono con i deboli, generoso.

I mercanti e i maestri artigiani, che si erano arricchiti nei secoli precedenti, erano animati da valori diversi. Anzitutto vedevano nel lavoro un mezzo di promozione sociale. I mercanti della Motta si specializzarono in una ricchezza che non era immobiliare, bensì mobiliare, finanziaria. Furono loro a gestire i commerci, a far decollare l’economia tessendo i rapporti con i mercanti del Nord Europa, ma anche con quelli delle repubbliche di Genova e di Venezia.

Tra la fine del XII e i primi anni del XIII secolo i ceti popolari divennero talmente forti da costituire una seria minaccia per l’egemonia nobiliare. I rapporti si fecero tesi. Certo, in queste lotte, era la nobiltà a prevalere, non foss’altro che per la sua esperienza nell’uso delle armi. Tuttavia, nella prima metà del XIII secolo, il popolo degli artigiani e dei mercanti mostrò in più occasioni la sua forza ed ebbe la meglio sui nobili.

Ce lo ricorda Pietro Verri nella celebre Storia di Milano quando riporta un episodio tratto dall’opera del cronista medievale Galvano Fiamma [P. Verri, Storia di Milano, a cura di Renato Pasta, Volume IV della Edizione Nazionale delle Opere di Pietro Verri, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 2009, pag.224]. Si trattava di una lite per debiti insorta tra il nobile Landriani e il cittadino Guglielmo da Salvo residente nel sestiere di Porta Vercellina. Ad essere nel torto era il nobile, che si era indebitato per una somma cospicua che non intendeva restituire. Dal momento che il creditore faceva pressioni per essere pagato, il Landriani decise di “tagliare la testa al toro”. Invitò il cittadino di Porta Vercellina nella sua villa di Marnate, nel contado del Seprio. Fattolo entrare, lo uccise senza esitazioni. Alcuni conoscenti di Gugliemo, che erano stati informati del suo viaggio a Marnate, non avendo più ricevuto notizie, si recarono nel contado del Seprio. Giunti nella villa del nobile, fatti alcuni scavi nel terreno, trovarono il cadavere. Il corpo fu portato a Milano perché i cittadini fossero consapevoli del crimine efferato commesso dal nobile. Il popolo reagì bruciando le case dei Landriani. Il Fiamma sostiene che tale delitto fu all’origine di una delle tante espulsioni dei nobili da Milano. Non sappiamo quanto fosse vera questa vicenda, dal momento che mancano riscontri nelle altre fonti documentarie. Essa tuttavia ci dà un’idea abbastanza chiara del clima di tensione che si respirava in una città divisa dalle lotte politiche di fazione. Ci mostra anche il grado di maturità politica cui era giunto il popolo milanese.

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Palazzo della Ragione, sede del Consiglio in epoca medievale, in una incisione settecentesca di Marc’Antonio Dal Re. L’edificio fu costruito nel 1233

Fu per sanare in via definitiva tali discordie che il podestà Uberto da Vialta emanò le celebri disposizioni che abbiamo citato all’inizio. In sostanza, gli affari della giustizia e del governo cittadino dovevano essere gestiti assieme dai rappresentanti dei quattro ceti. Pochi anni dopo, gli ordinamenti milanesi del 1241 sancirono che il Consiglio Generale di Milano – il Consiglio degli 800 organo del Comune chiamato ad intervenire nelle materie più importanti – fosse composto per metà da rappresentanti dei Capitani e Valvalssori e per metà da delegati della Motta e della Credenza. Inoltre, ciascuno dei quattro ceti era chiamato a designare una quota di consoli che formavano il governo della città di Milano. Tali disposizioni non bastarono tuttavia a sanare le discordie. La lotta tra fazioni si riaccese e finì con il segnare la vittoria definitiva del governo monocratico: dapprima nella persona del Podestà forestiero chiamato a governare la città a tempo limitato, quindi nell’istituzione autoritaria della Signoria (prima nella famiglia dei Torriani, poi in quella dei Visconti).

Le disposizioni di Uberto da Vialta e quelle dei suoi successori nella Milano della prima metà del Ducento meritano tuttavia di essere ricordate come un tipo emblematico di governo medievale: il governo misto composto dalla nobiltà e dalle “gilde o corporazioni del lavoro” teso a far convergere gli interessi di parte per la promozione del bene comune. Una soluzione che si affermò con maggior fortuna in molte città della Svizzera e dell’Impero germanico tra Medioevo ed Età Moderna. Basti pensare a Zurigo, Basilea, Sciaffusa, Spira, Friburgo, Ulma, Vienna.