Alla corte dei duchi di Milano: il libro di lusso

L’arte di rilegare, decorare, miniare e scrivere i libri acquisì una sua dignità nel Medioevo quando i monaci, seduti negli scriptoria, ricopiarono con opera indefessa i testi dell’antichità compatibili in larga parte con i valori etici e morali del cattolicesimo. Recentemente ho letto Il Nome della Rosa di Umberto Eco, il celebre romanzo ambientato in un’abbazia dell’Italia del Nord. Quando penso ai codici miniati, il pensiero corre alle decorazioni incompiute di frate Adelmo nei volumi del suo scrittoio. Il romanzo è ambientato nella prima metà del XIV secolo eppure, già a quell’epoca, la Chiesa non era più la sola istituzione a curare la rilegatura, la scrittura e la decorazione dei libri.

Nell’Italia del XIV e XV secolo i poteri secolari – signorie, principati e repubbliche – si fecero portatori di una politica culturale tesa a legittimare i fondamenti del potere. I libri sfarzosamente cesellati – come avveniva per gli affreschi, le pitture e le sculture nelle chiese – rientravano in un disegno teso ad esaltare il regime politico esistente. Anche per le famiglie della nobiltà il libro di lusso costituì un segno di status, il mezzo con cui mostrare il potere cui erano pervenute.

Milano fu una delle città più attive nell’elaborazione dei codici miniati. Nella seconda metà del Trecento la città ambrosiana acquisì un ruolo centrale nell’arte del libro. Gli inizi si collocano sostanzialmente negli anni successivi alla fondazione dell’Università di Pavia per intervento di Galeazzo II Visconti (1361) e al soggiorno di Petrarca a Milano tra il 1353 e il 1361. In questo periodo la famiglia Visconti formò una prima biblioteca, la cui struttura si poneva nel quadro tipico di un casato appartenente alla nobiltà feudale. Uno dei primi capolavori della miniatura gotica lombarda può essere considerato il Libro d’Ore di Bianca di Savoia, moglie di Galeazzo, risalente al 1378 ca. In questo codice, conservato a Monaco presso la Bayerische Staatsbibliothek (ms. lat.23215), oltre alle iniziali miniate, sono presenti 35 pitture a tutta pagina opera di Giovanni di Benedetto da Como, che nei suoi interventi riprese motivi e decorazioni presenti nella pittura a fresco.

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Codice del Guiron Le Courtois, Galvano salva Arturo, 1370-1380ca

Anche il fratello di Galeazzo, il signore di Milano Barnabò Visconti, commissionò alcuni codici di altissimo valore. Ricordo il volume Guiron le Courtois (conservato a Parigi, Bibliotèque Nationale, ms. nouv,acqu. 5243), ove sono narrati episodi cavallereschi di Artù e di Lancillotto, il ciclo bretone assai diffuso nelle corti di Francia, Inghilterra e Bretagna. Questa letteratura, diffusa nei territori ove si parlava la lingua d’oil, si affermò notevolmente in area padana tra Due e Trecento. Il codice Guiron si caratterizza per l’altissimo pregio delle miniature e dei disegni. Un altro codice è il Lancelot du Lac (Parigi, Bibliotèque Nationale, ms.fr.343), rimasto però incompiuto per la morte di Bernabò avvenuta nel 1385.

Gian Galeazzo, conquistato il potere mediante un colpo di Stato che portò all’arresto dello zio Barnabò, riconosciuto duca di Milano dall’imperatore Venceslao nel 1395, condusse una politica ambiziosa e fortunata che lo rese signore di un vasto territorio esteso all’Italia centro settentrionale. Siamo al periodo d’oro della signoria viscontea.

Allo stesso Gian Galeazzo risale la formazione della biblioteca ducale mediante azioni ben definite. Anzitutto occorre ricordare la requisizione dei libri presenti nelle ricche biblioteche delle città conquistate: arrivò così a Milano una lunga fila di carri contenenti i preziosi volumi che provenivano da Vicenza, Verona e Padova. Anche nella stessa città ambrosiana, presso famiglie che erano vicine ai Visconti per ragioni di sangue o di lavoro, si ebbe un risultato analogo: ad esempio, l’arresto e l’uccisione di Bernabò coincise naturalmente con la requisizione della sua biblioteca e lo stesso accadde al cancelliere ducale Pasquino Capelli, morto nelle prigioni viscontee.

Nel 1426, più di vent’anni dopo la scomparsa di Gian Galeazzo, la biblioteca ducale contava 988 codici ponendosi ai livelli delle maggiori corti europee. Risale a questo periodo l’Offiziolo Visconti (conservato a Firenze, Biblioteca Nazionale Centrale, B.R.397): la prima parte fu opera di Giovannino de Grassi, uno dei massimi esponenti della cultura gotico cortese lombarda, che rivestì l’ufficio di direttore della Fabbrica del Duomo; a decorare la seconda parte fu chiamato nel 1412 Belbello da Pavia su commissione del nuovo duca Filippo Maria Visconti, che proprio in quell’anno era asceso al potere in seguito alla morte improvvisa del fratello Giovanni Maria, pugnalato nella chiesa di San Gottardo (dietro al palazzo Reale).

Non è qui possibile fare una storia del libro di lusso nella Milano rinascimentale. Basterà ricordare che la ricca biblioteca viscontea, parzialmente danneggiata in seguito all’instabilità politica nel breve periodo della repubblica ambrosiana (1447-1450) – tornò in auge sotto gli Sforza per merito soprattutto dei duchi Galeazzo Maria (1466-1476) e Ludovico il Moro (1480-99).

I nuovi stilemi del rinascimento italiano furono introdotti a Milano dal miniatore Cristoforo de Predis, che lavorò non solo per la corte ducale, ma anche per una famiglia importante dell’aristocrazia quale i Borromeo. Merita di essere ricordato in proposito il celebre Libro d’Ore Borromeo, risalente agli anni 1471-1474: questo codice, conservato nella Biblioteca Ambrosiana di Milano (segnatura SP 42), presenta il testo arricchito per la prima volta mediante l’artificio di una pergamena, dipinta come se fosse appesa al di sopra degli spazi riservati alle miniature.

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Giovan Pietro Birago, Frontespizio della Sforziade di Giovanni Simonetta destinata al duca Gian Galeazzo Sforza, 1490.

Altro artista di notevole valore fu Giovan Pietro Birago, attivo negli anni di Ludovico il Moro: meritano di essere citati i quattro stupendi frontespizi della Sforziade, l’edizione a stampa in lingua volgare di Giovanni Simonetta.

La caduta di Ludovico Sforza, la conquista francese del ducato di Milano portarono alla dispersione della ricca biblioteca visconteo-sforzesca: una parte cospicua di quei preziosi volumi venne portata in Francia come bottino di guerra. Basti ricordare che quasi 400 libri oggi conservati alla Biblioteca Nazionale di Parigi possono essere ricondotti alla corte visconteo-sforzesca.

Tra la fine del Quattrocento e i primi anni del Cinquecento la stagione del libro di lusso era sostanzialmente finita. La stampa a caratteri mobili, che rivoluzionò il mercato rendendo accessibile l’acquisto dei volumi a un vasto pubblico, segnò il netto declino del libro di corte.

L’ambiguità del decreto Renzi sulle popolari

La riforma delle banche popolari compiuta dal governo Renzi continua a far discutere. Il tema è stato al centro di un interessante incontro  tenuto mercoledì alla Camera di Commercio di Milano nel corso della presentazione del libro di Franco De Benedetti e Gianfranco Fabi Popolari addio? Il futuro dopo l’abolizione del voto capitario (Guerini e Associati, Milano 2015).

Al dibattito, organizzato dal Centro Studi Grande Milano (CSGM) –  fucina di cultura a stretto contatto con il mondo delle imprese – hanno partecipato, assieme agli autori, Daniela Mainini, presidente del CSGM, Ugo Finetti, vicepresidente del CSGM, il professor Giulio Sapelli, ordinario di storia economica all’Università Statale di Milano, l’europarlamentare ed ex sindacalista Antonio Panzeri, Carlo Fratta Pasini, presidente del Banco Popolare ed altri esponenti del mondo politico.

Il dibattito, che in alcuni tratti ha assunto una certa animosità, si può riassumere sostanzialmente in questa domanda: il decreto Renzi (decreto legge n.3 del 20 gennaio 2015, convertito nella legge n.33 del 24 marzo) ha migliorato l’assetto delle banche popolari?

Luigi Luzzatti
Luigi Luzzatti

Di cosa stiamo parlando? Vediamo di capirci qualcosa. Nell’Italia dell’Otto-Novecento le banche popolari assunsero un ruolo fondamentale nel sostenere i bisogni delle famiglie e delle comunità locali. Luigi Luzzatti (1841-1927), uomo politico appartenente alla Destra storica, presidente del consiglio per breve tempo tra il 1910-11, si impegnò con forza a sostegno delle cooperative di credito e delle banche popolari. Animato da un vivo desiderio di migliorare le condizioni delle classi disagiate, riteneva che le famiglie, gli operai, tanti lavoratori che non avevano ingenti patrimoni, dovessero disporre di istituti di credito adeguati ai loro bisogni. Inoltre, la vita di queste persone era resa ancor più difficile dal proliferare degli usurai.

Luzzatti, che ammirava il sistema delle banche popolari tedesche, propose di introdurre istituti di credito analoghi nel nostro Paese. Nel volume La diffusione del credito e le banche popolari, pubblicato nel 1863, egli tesseva le lodi della banca popolare tedesca. Caldeggiava la fondazione di istituti analoghi in Italia, anche se riteneva che potessero servire soprattutto a una ristretta fascia di operai agiati oppure ai lavoratori in possesso di piccoli risparmi:

Una banca che abbraccia il principio dell’associazione e cambia l’operaio in capitalista quante verità non può insegnargli? Una buona lezione teorica di economia gli è certamente molto utile, ma quale maggior vantaggio di questa lezione di economia applicata? Gli operai agiati, i lavoranti indipendenti, come la molteplice famiglia dei muratori, legniaiuoli, minutanti, sono invitati dalla loro stessa condizione a riprodurre in Italia il tipo delle unioni tedesche. Si aboliscano le leggi dell’usura perché l’interesse del denaro segua il corso naturale del mercato, ma sorgano nello stesso tempo le fratellanze di credito popolano onde i poveri si affranchino finalmente dal gravoso intervento di quei sordidi prestatori…

Luzzatti fondò, com’è noto, la Banca Popolare di Milano due anni dopo, il 23 dicembre 1865. La forza di questi istituti di credito risiedeva nella loro capacità di essere a stretto contatto con i bisogni del territorio.

Fratta Pasini
Carlo Fratta Pasini, presidente del Banco Popolare.

Sorte come istituti di credito di area cattolica e socialista, le banche popolari si sono rette fino ad oggi su una forma di governo autenticamente democratica: ciascun azionista, indipendentemente dal numero di azioni che detiene, ha pari diritto di voto nell’assemblea dei soci. Questo è il senso del “voto capitario”. Si tratta, com’è facilmente intuibile, di una governance assai diversa dalle Società per azioni, ove decidono al contrario i maggiori proprietari.

Le banche popolari italiane hanno rivestito un ruolo importante nel favorire lo sviluppo economico del Paese. Ciò è avvenuto anche in forza del loro peculiare modello di governance.

Nell’incontro organizzato dal Centro Studi Grande Milano, gran parte dei relatori ha bocciato la riforma delle banche popolari approvata dal governo Renzi. La scelta di intervenire con decreto in un settore che non richiedeva l’urgenza di un intervento pubblico, è stata a dir poco azzardata perché, secondo Fabi, non sussistevano i requisiti di necessità e di urgenza richiesti dalla Costituzione per l’emanazione di una normativa tanto radicale. La legge, imponendo alle banche popolari con attivi superiori agli 8 miliardi di euro di trasformarsi in Società per Azioni, finisce con l’affidare le risorse dei risparmiatori più al grande capitale che all’economia di mercato. Il risultato è la negazione della finalità originaria per la quale erano sorti questi istituti di credito.

De BenedettiIn difesa della legge si è schierato, unico tra i presenti, il senatore Franco De Benedetti, presidente della Fondazione Istituto Bruno Leoni. Secondo De Benedetti la legge non interessa il vasto mondo delle popolari perché gli istituti di credito colpiti dal decreto sono appena dieci. Ha poi criticato l’assetto di queste banche facendo osservare che in molti istituti la cooperazione si è trasformata spesso in un “banale controllo sull’ufficio del personale”.

In effetti, come ha fatto notare il senatore De Benedetti, l’intervento del governo Renzi è seguito alla riforma sulla vigilanza bancaria avvenuta a partire dal 2 novembre 2014, quando la Banca Centrale Europea si è sostituita alla Banca d’Italia nella funzione di controllo sui quindici maggiori istituti di credito italiani. Otto di questi sono banche popolari: UBI, Banco Popolare, Banca Popolare di Milano, Banca Popolare dell’Emilia Romagna, Banca Popolare di Vicenza, Veneto Banca, Banca Popolare di Sondrio, Credito Valtellinese.

Secondo i dati della European Banking Authority, tali banche rivelano un assetto patrimoniale eccessivamente ridotto perchè possano reggere in futuro una situazione avversa dei mercati finanziari: se si esclude UBI, gli stress test hanno mostrato che il patrimonio delle popolari potrebbe ridursi sotto la soglia critica del 5,5% del capitale. Il governo Renzi è quindi intervenuto per irrobustire il patrimonio di questi istituti favorendo l’ingresso di grandi capitali.

Magenta e la (breve) luna di miele dei lombardi

In questi giorni di inizio giugno ricordiamo un avvenimento importante per la storia di Milano: la battaglia di Magenta.

Avvenuta il 4 giugno 1859 all’inizio della seconda guerra d’indipendenza, essa vide opporsi l’esercito imperiale asburgico all’esercito franco-piemontese. Più di un mese dopo, le battaglie cruente di Solferino e San Martino avrebbero segnato la definitiva sconfitta degli austriaci, obbligati a cedere la Lombardia (tranne Mantova) all’imperatore dei francesi Napoleone III. L’imperatore Francesco Giuseppe di Asburgo, ostile alla causa italiana, non riconobbe alcuna legittimità internazionale al regno di Sardegna di Vittorio Emanuele II: questo spiega per quale motivo all’armistizio di Villafranca, firmato l’11 luglio, l’imperatore cedette la Lombardia alla Francia, non al Piemonte sabaudo. Fu Napoleone a cedere graziosamente la Lombardia al suo alleato.

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Ingresso di Vittorio Emanuele II e Napoleone III all’Arco della Pace, 8 giugno 1859. Litografia inglese da disegno di C. Bossoli.

Quattro giorni dopo la vittoria di Magenta, Vittorio Emanuele II e Napoleone III fecero il loro ingresso a Milano accolti con entusiasmo dai milanesi. Il re sabaudo, che aveva dormito a Lainate, raggiunse l’alleato alla cascina Pobbietta, un casolare (oggi scomparso) all’altezza di via Novara nei pressi di Quarto Cagnino. Da lì i sovrani entrarono a Milano dall’Arco della Pace: decisione non casuale se pensiamo che il celebre monumento era stato voluto mezzo secolo prima da Napoleone I per celebrare le sue vittorie. Dopo aver percorso il lato sinistro del Castello Sforzesco, Vittorio Emanuele II e Napoleone III attraversarono le vie Cusani, dell’Orso, Monte di Pietà, Monte Napoleone fino al corso di Porta Orientale (oggi corso Venezia). Da qui raggiunsero il palazzo Serbelloni, che costeggiava il naviglio interno, seguiti da una folla in delirio.

L’entusiasmo dei lombardi per la vittoria di Magenta e la liberazione di gran parte della regione non era casuale. C’erano attese, speranze in un futuro di buongoverno.

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Te Deum cantato in Duomo il 9 giugno 1859 per la vittoria sugli austriaci. Litografia inglese da disegno di C. Bossoli.

Difatti, nei mesi immediatamente precedenti alla guerra, Cavour, che era a capo del governo piemontese, convocò a Torino una commissione di notabili lombardi presieduta dal nobile milanese Cesare Giulini della Porta. Questa commissione predispose per le terre liberate un ordinamento che avrebbe dovuto consentire l’ordinato svolgersi della vita civile. Il tutto nel rispetto di quel che poteva essere conservato degli istituti amministrativi esistenti, istituti cui i lombardi erano affezionati perché li consideravano patrimonio storico della loro regione. D’altra parte lo stesso Cavour, in un interessante colloquio con il nobile milanese Cesare Giulini della Porta, riconobbe che dalla Lombardia “il Piemonte per gli ordini amministrativi ha più da imparare che da insegnare”.

La commissione propose la conservazione dell’autonomia comunale che costituiva il vanto della tradizione amministrativa lombarda. Basti pensare che nella Lombardia austriaca i proprietari di un immobile nei Comuni di terza classe (quelli con popolazione inferiore ai 300 estimati che erano la stragrande maggioranza dei municipi), avevano diritto di intervenire nel convocato, un’assemblea – organo di democrazia diretta – in cui si gestiva l’amministrazione del Comune.

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Il nobile milanese Cesare Giulini Della Porta (1815-1862)

La commissione Giulini propose inoltre la formazione di un governo lombardo separato da quello piemontese per assicurare piena autonomia alla regione. In seguito all’unione politica con il Piemonte, la Lombardia sarebbe stata amministrata da un governatore – con sede a Milano – dotato di poteri considerevoli. Questi avrebbe assommato infatti le funzioni del luogotenente austriaco (nomina dei delegati provinciali, corrispondenti all’incirca ai nostri prefetti; controllo sulle direzioni di polizia, sugli istituti di istruzione pubblica, sulle autorità municipali), i poteri del governatore austriaco e quelli che facevano capo all’amministrazione di Vienna, ad esempio nella gestione della prefettura lombarda delle finanze, della direzione di contabilità di Stato o della giunta del censimento.

La politica di Cavour, informata a uno stile moderato, conservatore, rispettoso entro certi limiti delle tradizioni storiche preunitarie, aveva le sue ragioni. Molte istituzioni del Lombardo Veneto austriaco riscuotevano l’ammirazione dei lombardi, suscitando in essi un vivo attaccamento per questi ordinamenti. In alcuni casi essi ne riconducevano l’origine all’epoca gloriosa del Regno Italico napoleonico, quando Milano fu capitale di uno Stato nazionale esteso a una parte significativa dell’Italia del Centro-Nord. Così un membro della commisione Giulini descriveva la complessa amministrazione austriaca in Lombardia:

Se noi lasciamo i roveti, i muschi e le edere, troviamo che l’ossatura murale di sotto, annerita dal tempo, corrosa dall’umidità, è ancora l’antica. Così noi troviamo che il censo, la legislazione comunale, le esattorie comunali, l’ammirando servizio delle condotte mediche, i regolamenti di acque e strade, le leggi sulla servitù di acquedotto e tutta la giurisprudenza in materia di acque, il contributo arti e commercio, le Camere di Commercio, l’istituto notarile, i conservatori delle ipoteche, le scuole comunali…sono tutte creazioni indigene che la dominazione straniera ha dovuto rispettare. E diciamo indigene anche quando ci riferiamo al Regno Italico, quantunque negli ordini militari e nella politica esterna dovesse dipendere dalla fortuna napoleonica.

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Paolo Onorato Vigliani (1814-1900)

Dopo la vittoria di Magenta, il governo piemontese emanò alcuni decreti che, seguendo le indicazioni della commissione, diedero inizio a quella che possiamo chiamare la luna di miele tra il governo sabaudo e i lombardi. Con decreto 8 giugno 1859, il governo Cavour nominava governatore della Lombardia Paolo Onorato Vigliani, un giovane funzionario piemontese, originario di Pomario Monferrato, in provincia di Alessandria.

Il decreto 8 giugno assegnò i pieni poteri a Vigliani, escluso quanto concerneva la guerra. Egli fu posto a capo di una nuova istituzione che ereditava, sia pure ridotti da 9 a 5, gli ex dicasteri della luogotenenza austriaca così riorganizzati: 1. Amministrazione politica, intendenze generali e pubblica sicurezza; 2. Comuni, beneficenza e corpi morali; 3. Commercio, agricoltura e lavori pubblici; 4. Istruzione pubblica e culto; 5. Amministrazione della giustizia.

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Camillo Benso conte di Cavour (1810-1861)

L’entusiasmo dei lombardi per la nuova amministrazione si manifestò negli atti di omaggio resi a Vittorio Emanuele II da parte di numerosi funzionari. Tuttavia, le dimissioni di Cavour in seguito all’armistizio di Villafranca (11 luglio) portarono alla fine di questa “luna di miele”. Rattazzi, succeduto a Cavour nel governo sabaudo, con decreto 31 luglio stabilì che “i pieni poteri conferiti al Governatore della Lombardia” erano cessati. Un trend inesorabile che portò in breve tempo alla soppressione di ogni autonomia amministrativa. Di lì a poco,  con l’emanazione dei decreti regi 23 ottobre 1859, alla Lombardia fu esteso l’ordinamento sabaudo informato a un accentramento amministravo disegnato sul modello franco-belga. Se si eccettua la Toscana – ove continuò ad essere vigente il codice penale leopoldino fino al 1889 – i territori della penisola che entrarono a far parte del regno d’Italia sabaudo furono sottoposti rigidamente, nel giro di pochi anni, alla legislazione e all’amministrazione piemontese. L’Italia si faceva “piemontesizzando” i suoi ordinamenti. Come scrisse un grande storico dell’amministrazione negli anni Sessanta del secolo scorso, fu come vestire un gigante con l’abito di un nano.

Un pittore russo in visita a Milano nel 1847

Il pittore Vladimir Jakovlev visitò l’Italia in un viaggio di sei mesi. Il suo itinerario si rifaceva alla grande tradizione del Gran Tour: un percorso lungo le maggiori città della penisola che i nobili, gli intellettuali, i letterati e i pittori stranieri effettuavano passando per Venezia, Bologna, Firenze, Roma, Napoli, Palermo.

Milano, come altre città della pianura padana quali Parma, Modena o Ferrara, non sempre erano ritenute meritevoli di visita. Ad esempio, il grande Goethe non visitò la città ambrosiana nel suo tour avvenuto nella seconda metà del Settecento, mentre il padre Johann Kaspar, grande giurista e fine intellettuale, ci era passato molti anni prima descrivendo minuziosamente la vita cittadina in alcune note del suo diario.

Desidero ricordare in questa sede il viaggio di Jakovlev perché il pittore visitò Milano alla fine del suo tour per l’Italia a pochi mesi dallo scoppio delle rivoluzioni liberali e nazionali del 1848. Giunto a Pavia, Jakovlev costeggiò in carrozza il naviglio pavese entrando a Milano da Porta Ticinese. Scrisse alcuni ricordi preziosi di quella visita nel volume pubblicato a San Pietroburgo nel 1855: Italija. Pis’ma iz Venecii, Rima i Neapolja. In questo articolo riporterò alcuni passi riguardanti Milano nella traduzione di Patrizia Deotto pubblicata nel numero della rivista Storia in Lombardia (Franco Angeli editore, Anno XXXIII, n.1, 2013).

Per un uomo la cui professione è dipingere sulla tela la bellezza di un paesaggio, la pianura milanese fu inizialmente una cocente delusione. Dopo la vista di città ricche di arte e di storia come Firenze o Roma – i cui monumenti, situati su alture o vicino ai colli, impreziosivano il paesaggio rurale circostante in una sintesi mirabile tra arte e natura – Milano non era fatta per affascinare subito. Il paesaggio, caratterizzato da una distesa sterminata di campi, gli apparve triste e monotono. Mancava la vista grandiosa della città.

Affaticato dall’uniformità della strada, mi aspettavo che Milano dispiegasse davanti ai miei occhi il suo panorama, ma Milano, da lontano, si presenta come una linea dentellata e nebulosa. Soltanto la guglia centrale della sua cattedrale biancheggia sulla cornice azzurrina delle montagne lontane. 

Riflessioni tinte di nero, che possono indurci a ritenere che Jakovlev non si trovò poi così bene a Milano. Dopo pochi passi, ecco però la sorpresa. L’atmosfera e il fascino della piccola Milano – popolata all’epoca da 140.000 abitanti – iniziarono ad incuriosirlo e ad attrarre gradualmente il suo interesse all’avvicinarsi verso la Darsena, lungo i Corpi Santi di Porta Ticinese. La prossimità alla città era annunciata dalla moltitudine di persone, dalle “carrozze all’ultima moda” che sfrecciavano lungo il canale.

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La Porta Ticinese medievale e il naviglio interno in un quadro di Pompeo Calvi (1850 ca)

Dopo aver varcato il naviglio interno all’incrocio tra le attuali vie De Amicis e Molino delle Armi, Jakovlev entrò nel cuore della città medievale. La vista delle antiche colonne di San Lorenzo gli si parò dinanzi improvvisa, affascinandolo grandemente:

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Le colonne di San Lorenzo in una incisione risalente alla fine del Settecento

Milano mi accolse, del tutto inaspettatamente, con l’antica gigantesca colonnata di un edificio sconosciuto, completamente distrutto. Questa è la più lunga fila di colonne che si sia conservata dell’epoca romana: i miei compagni di viaggio ne hanno contate sedici. Il marmo di questi fusti scanalati è coperto di muschio e ruggine; le foglie di acanto dei capitelli sono erose dal tempo, ma la bellezza del loro stile è evidente…

In queste riflessioni abbiamo l’impressione che Milano abbia sedotto Jakovlev come solo lei sa fare: anziché ostentare la sua bellezza affascinando il visitatore fin dall’inizio, la città si scopre a poco a poco, pian piano.

Oltrepassate le colonne, il pittore si recò verso l’Albergo Reale che si trovava nell’antica contrada dei Tre Re. La via, oggi scomparsa, era il proseguimento di via Speronari in direzione sud-est, verso l’attuale via Mazzini.

Diversamente dai turisti che si affidavano alle guide del luogo, Jakovlev preferì avventurarsi da solo per le vie cittadine alla ricerca di scorci paesaggistici. Questa è un’altra ragione per la quale le sue memorie rivestono uno straordinario interesse per gli storici di Milano. Ci sembra già di vederlo, mentre esce dall’albergo maledettamente curioso di conoscere i segreti della città.

Le vie del centro, quelle vicine al suo albergo, gli apparvero fin dall’inizio popolate da una vivace borghesia di artigiani e commercianti. Ancora nel primo Ottocento il quartiere vicino al Duomo rifletteva la sua antica anima medievale, un’anima mercantile ben testimoniata dalle vie: via Speronari, via Pennacchiari, via Mercanti d’Oro, via Borsinari, via Pescheria Vecchia, via Spadari, via Armorari, via Cappellari. La vita quotidiana di queste contrade era disordinata, ma vivace e affascinante ai suoi occhi:

Nelle vie strette e tortuose dei vecchi quartieri il chiasso e il movimento sono ancora più intensi. Il calderaio, il sarto, il rilegatore, il calzolaio lavorano in strada, chiacchierando tra di loro e con i passanti; le vicine iniziano la conversazione mattutina da una casa all’altra; i ragazzini proseguono i loro giochi ingenui, correndo tra le gambe dei passanti e spesso afferrando le falde degli abiti per nascondersi da qualche monello o dalla palla, che finisce per colpire la guancia di un venditore, intento a contrattare ad alta voce con un signore, affacciato alla finestra del quinto piano. Intanto le urla dei venditori e i richiami dei bottegai continuano ininterrotti.

Diversa l’aria che si respirava nelle vie ove si trovavano i palazzi della nobiltà milanese: erano alcune strade del centro, spesso vicine al naviglio interno. Quali potevano essere queste vie percorse da Jakovlev? Ad esempio in Porta Romana, via Rugabella ove si trovava il palazzo appartenuto nel Settecento a Clelia Borromeo o quello dei Trivulzio; via Sant’Antonio con il palazzo Greppi; via dei Nobili (oggi via Unione), su cui si affacciavano il palazzo Cicogna (oggi distrutto) e il palazzo Erba Odescalchi; in Porta Ticinese via Olmetto con la casa Archinto; via Borgonuovo con i palazzi Orsini e Perego in Porta Nuova; via della Cerva con il palazzo Visconti di Modrone in Porta Orientale il cui giardino – esistente tuttora – si affacciava sul naviglio interno…

Jakovlev notò il silenzio di queste nobili contrade. Le imposte chiuse alle finestre gli davano un senso di tristezza, ricordandogli le città abbandonate:

Nei quartieri aristocratici, quando batte il sole tutto il giorno, le persiane verdi delle finestre rimangono chiuse ermeticamente, il che conferisce alla strada un aspetto triste. In questi luoghi Milano sembra una capitale abbandonata: la magnificenza qui ha fatto amicizia con il silenzio.

Interessanti le annotazioni sulle case di Milano:

Le case qui non superano i tre o quattro piani e quasi tutte le finestre sono dotate di un balconcino di ferro, dove, quando non c’è il sole, compaiono fiori o giovani signore.

Il turista russo non mancava poi di soffermarsi sullo stile di vita dei milanesi, la cui distanza da altre città italiane lo colpì notevolmente. L’ordine pubblico, la pace, la tranquillità, il decoro urbano era molto simile a quello diffuso nelle altre città dell’impero asburgico di cui Milano faceva parte: da Praga a Vienna, da Budapest a Bratislava, da Trento a Trieste.  Le sue riflessioni riguardavano il vestiario, la sosta delle persone nelle vie ma anche la postura delle guardie davanti agli edifici pubblici, come mostrato dal caso dei granatieri ungheresi. Milano gli appariva ordinata, ben regolata nei suoi freddi costumi sociali.

In mezzo a questo turbinio della vita italiana, in mezzo a queste fisionomie mobili e a questo incessante chiacchiericcio, i granatieri ungheresi muti e immobili, che stanno di guardia agli edifici pubblici, con i loro colbacchi di pelo d’orso, sembrano delle cariatidi. Nelle vie di Milano c’è di gran lunga meno disordine poetico che nelle altre città italiane. Qui molto di rado vedrete qualcuno dormire sul selciato o sui gradini di una chiesa. In genere, non è permesso dormire per strada o fare la siesta in mezzo alla piazza, secondo l’abitudine napoletana. A maggior ragione, nessun povero osa sistemarsi a riposare negli atri, nei corridoi, sulle scale dei palazzi, come si usa a Napoli. Qui non si vede quell’abbigliamento meridionale eccessivamente leggero, costituito da una camicia e da pantaloni di tela olona che arrivano al ginocchio. Non si vede gente svestita in giro nemmeno nella stagione più calda e il pittore non troverà in Lombardia modelli gratuiti come sul molo di Napoli.

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Il Duomo adornato con paramenti per l’incoronazione di Ferdinando I di Asburgo a re del Lombardo Veneto il 6 settembre 1838.

Le notazioni più importanti riguardano il Duomo, che conquistò il pittore russo per il biancore dei marmi, l’infinito numero di guglie, le statue le cui forme plastiche riflettevano il fecondo connubio tra le linee severe dell’arte germanica – tipica del gotico – e la fine creatività dell’arte italiana. L’edificio era descritto come una creatura della natura fisica. I marmi, che risplendevano di un bianco acceso, quasi sfolgorante, gli sembravano partoriti dalle Alpi innevate.

Da lontano il Duomo è un fantastico palazzo, formatosi ai piedi delle Alpi con le nevi perenni del Montebianco. Quando vi avvicinate alle pareti di questo edificio abbagliante, intessuto di arabeschi, festoni, archi, ghirlande, popolato da migliaia di statue e vi persuaderete che è tutto marmo puro, dalla base massiccia ricoperta dal muschio dei secoli, fino alle graziose guglie gotiche, che biancheggiano nell’aria azzurra: in quel momento il meraviglioso edificio vi sembrerà favoloso.

Intere generazioni di scultori distribuirono su questi muri le loro fantasticherie. L’elemento plastico è talmente connaturato qui all’architettura che bisognerebbe dire che la cattedrale di Milano non è costruita ma scolpita nel marmo.

A colpirlo maggiormente fu la vista dalla terrazza della cattedrale, ove l’occhio poté spaziare a 360 gradi ammirando un panorama eccezionale. Le riflessioni negative svolte all’inizio vengono ora smentite da questa bella descrizione, inno commosso alla bellezza lombarda.

Finalmente salii sulla sottile, trasparente torre della cattedrale, intessuta di una trina di marmo, e sotto di me si dispiegò il brillante panorama della Lombardia. E’ un vero e proprio mare di verde costellato di città e di paesi con le loro torri bianche e rosse. In lontananza lungo tutto l’orizzonte si estende la catena delle Alpi: la linea ondulata delle nevi perenni luccica al sole, sfolgorante come oro fuso. Ecco i massicci del Rosa e del Sempione, dove la mia strada si snoda fra le cime che arrivano fin sopra alle nuvole; ed ecco al limitare della verde piazza d’armi biancheggiare anche l’arco di trionfo, da cui parte la strada del Sempione. Proprio davanti a me alza il suo capo canuto il San Gottardo; a sinistra, dietro alle cime, si intravedono i ghiacciai del Monte Bianco; a destra gli Appennini si fondono con le Alpi. Da qui si vede tutta l’enorme parete che separa la Lombardia dalla Germania. In lontananza, ai piedi di queste montagne, risaltano, azzurri come strisce d’acciaio, i poetici laghi: il Lago Maggiore, il Lago di Como, il Lago di Garda. L’aria è così tersa che distinguo perfino le cupole di Pavia e le alte torri di Torino. I dintorni di Milano sono ombreggiati da boschetti, solcati da viali, sembrano un grande parco inglese. Sotto di me si dispiega tutta la pianta della città con i palazzi e le cupole e le torri originali; vi scorgo il movimento, ma il rumore di quella vita giunge appena alle mie orecchie come il mormorio lontano del mare; in quel brusio si distingue chiaramente soltanto il suono delle campane…E poi il mio sguardo si perde di nuovo nel dedalo delle terrazze candide come la neve, delle scale, degli archi, dei pinnacoli, e io gironzolo di nuovo tra quella folla di gente di marmo che abita la cima della cattedrale. E’ una di quelle visioni che rimangono per sempre impresse nella memoria.