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La Galleria Vittorio Emanuele: incrocio di destini tra ‘800 e ‘900

Un volume di cultura milanese ripercorre la storia contrastata del celebre monumento del Mengoni e delle illustri personalità che ad esso furono legate

Il libro di Giovanna Ferrante, Galleria Vittorio Emanuele II. Un sogno di vetro e d’acciaio (Historica, Roma 2018, pp.115, euro 14) è un piccolo volume che ha il pregio di leggersi tutto d’un fiato. Un’opera che si può definire “anfibia” non foss’altro perché vi troviamo elementi che la avvicinano a un libro di storia, mentre altri la fanno rientrare nel genere della narrativa e questo per ragioni che esporremo più avanti. Il libro costituisce un ottimo strumento per conoscere uno dei monumenti più celebri di Milano, un volume particolarmente adatto a chi si avvicina per la prima volta alla storia della Galleria Vittorio Emanuele II.

GIOVANNA FERRANTE, Galleria Vittorio Emanuele II. Un sogno di vetro e acciaio. Historica, Roma 2018, 14 euro, 115 p.

L’autrice, che nel suo sito internet si definisce “meneghina doc ‘innamorata’ della sua città”, è attiva da tempo nel mondo della cultura ambrosiana: i suoi libri sono dedicati alla storia urbana, presa in esame nei vari campi dell’architettura, del costume, della cucina, della vita sociale e politica. Giovanna Ferrante, che in passato è stata autrice e conduttrice di trasmissioni radiofoniche presso Radio Meneghina, ha curato interessanti rubriche settimanali dedicate alla città. Insignita dell’Ambrogino d’Oro nel 2007, dal 2016 è responsabile della “Direzione Storie e Tradizioni milanesi” per il Centro Studi Grande Milano. L’autrice è quindi un’esperta di cultura milanese.

Il libro, come si è accennato, non è un’opera storica in senso stretto. E’ un racconto suggestivo in cui l’autrice ripercorre le controverse fasi di costruzione della Galleria Vittorio Emanuele II, facendo quasi rivivere le persone che ad essa furono legate in un modo o nell’altro: oltre alle analisi storiche condotte dalla Ferrante in merito ai tempi di realizzazione, all’inaugurazione e alle dimensioni di tale monumento, il lettore viene quasi portato per mano nella Milano dell’Otto e Novecento, come se fosse chiamato ad assistere a frammenti di vita quotidiana di personalità che furono legate alla storia della galleria. 

Efficace ad esempio il ritratto dell’architetto Giuseppe Mengoni – colui che vinse il concorso per la costruzione dell’edificio e lo realizzò nell’arco di più di dieci anni – descritto nell’atto di parlare al suo canarino o alla moglie mentre rivela i tormenti, le paure o le delusioni che lo attanagliavano. 

La Galleria Vittorio Emanuele all’ingresso verso Piazza del Duomo: a destra il primo Campari, a sinistra il secondo Campari (Camparino). Foto risalente ai primi anni del XX secolo.

Un’altra pagina di storia milanese è quella che si apre con il ritratto della famiglia Campari, che l’autrice disegna con grande efficacia narrativa facendo parlare la moglie di colui che fu il vero artefice del successo: Gaspare. Emigrato a Milano da Novara nella speranza di fare fortuna nell’attività di distillazione dei liquori e nella gestione di un caffè, nei primi anni Sessanta dell’Ottocento Gaspare aprì la sua attività nel Coperto dei Figini, un portico quattrocentesco che occupava il lato nord della piazza del Duomo. La demolizione di questo edificio dovuta all’allargamento della piazza e alla costruzione della Galleria non colse impreparato il commerciante novarese, che non esitò ad investire i suoi pochi fondi per prenotare uno spazio nel nuovo edificio. Il lettore apprende queste notizie dalle parole della signora Letizia, che possiamo immaginare con quale felicità avesse appreso dal marito che gran parte dei risparmi erano stati impiegati nella nuova impresa del Campari in Galleria: “Cosa stai dicendo? Non abbiamo ancora sistemato tutte le pendenze, stiamo appena cominciando a vedere i primi frutti di tanti pensieri e tanta fatica e adesso quest’altra bella novità! Gaspare, ma cosa ti viene in mente? Prima ancora di sapere cosa sarà questa nuova costruzione, no guarda, non posso crederci, hai prenotato una bottega in una Galleria che è ancora solo sulla carta” (pag,66). Da storico non posso che diffidare di questo racconto, frutto della pura immaginazione dell’autrice. E’ un discorso chiaramente inventato; ma come appare verosimile e, soprattutto, come si integra bene nel contesto storico che si sta descrivendo! Quelle non sono certo le parole di Letizia, ma qualcosa di quei pensieri dovette frullarle nella testa mentre il marito rischiava il suo patrimonio nell’investimento in Galleria. Gaspare vide giusto: il Campari divenne uno dei locali più rinomati di Milano e, mezzo secolo dopo, nel 1915, la famiglia riuscì perfino ad allargare la sua attività nel celebre passaggio vetrato del Mengoni aprendo, sul lato opposto (lato ovest), il Camparino, uno dei locali più caratteristici di Milano, tuttora esistente. 

Eugenio Torelli Viollier (1842-1900), primo direttore del “Corriere della Sera”.

L’analisi storica in questo libro si alterna così alla parte per così dire “narrativa”, rendendone accessibile la lettura anche a un pubblico di non specialisti. Si succedono le storie di Eugenio Torelli Viollier, primo direttore del “Corriere della Sera”; la prima sede del giornale si trovava in due stanze nell’ammezzato della galleria, un ufficio composto da tre redattori e quattro operai. L’autrice dedica particolare attenzione alla moglie del direttore, Maria Antonietta Torriani: fu la prima firma femminile della testata. Quella tra Torelli Viollier e la Torriani fu una relazione sofferta, dai risvolti tragici. La loro unione, durata due anni (1875-1877), fu bruscamente spezzata dalla morte improvvisa della nipote di Maria Antonietta, la giovanissima e avvenente Eva, suicidatasi mentre era ospite dei coniugi Viollier a Milano; la ragazza non resse agli attacchi di gelosia di Maria Antonietta, che l’aveva derisa davanti a conoscenti e amici, non perdonandole la relazione intima che il marito andava intrattenendo con lei. Nelle pagine della Ferrante si susseguono altre storie di personaggi che in un modo o nell’altro furono legati alla Galleria: da Ernest Hemingway a Umberto Boccioni, dal deputato radicale Felice Cavallotti agli scrittori veristi Giovanni Verga e Luigi Capuana.

Cosa è rimasto oggi di quel mondo? Come possiamo descrivere la Galleria Vittorio Emanuele al giorno d’oggi? Il monumento del Mengoni ha vissuto negli ultimi anni un’autentica evoluzione. Non si tratta solo di una diversa atmosfera che vi si respira. Ad essere cambiata sembra essere la stessa percezione che ne hanno i milanesi. Tale risultato è dipeso in buona parte dall’oculata gestione degli spazi che l’amministrazione comunale ha saputo condurre ormai da tempo. E’ di poche settimane la notizia che Giorgio Armani, dopo un confronto serrato con Tod’s, si è aggiudicato l’affitto di un locale (302 metri quadrati) ove fino a pochi mesi fa aveva sede un negozio TIM. Lo stilista ha così rafforzato la sua presenza nella Galleria ove hanno sede, ormai da anni, alcuni tra i marchi di moda più esclusivi: basti ricordare, per citarne alcuni, Prada, Luis Vuitton, Gucci.

Anche la presenza dei ristoranti si è in gran parte rinnovata ed arricchita: certo, c’è ancora il Savini, nei cui locali, tra la seconda metà dell’Ottocento e il XX secolo, si ritrovavano cantanti, attori, personalità della cultura, della classe dirigente e della classe politica italiana: qui esiste ancora il tavolo 7, un tempo riservato alla celebre cantante lirica Maria Callas e al suo compagno, l’armatore greco Aristotele Onassis. 

Carlo Cracco, chef pluripremiato, proprietario dell’omonimo ristorante in Galleria

L’arrivo di Cracco, che si è stabilito in alcuni locali del braccio meridionale, è stata una vera novità: il cuoco vicentino ha svecchiato il comparto della ristorazione di qualità, che in galleria era rimasto da troppi anni immutato per quanto concerne l’allestimento delle vetrine. Il risultato è pero che oggi il passaggio coperto del Mengoni è divenuto un salotto esclusivo, tempio del lusso, i cui spazi possono essere frequentati solo da una ricca clientela. E’ come se la galleria, da almeno un decennio, abbia finito per assumere una sua identità separata dal resto della città, un po’ come avviene nel celebre “Quadrilatero della Moda”. 

E’ vero che a riportarci alla Milano dei milanesi morigerati ci sono ancora negozi ‘normali’ come la libreria Rizzoli (oggi del Gruppo Mondadori) nel braccio nord o la Feltrinelli nel braccio sud. Esiste ancora il Camparino ove si può ammirare uno stupendo orologio risalente agli anni dell’Art Nouveau. Però l’impressione è appunto quella che ho tracciato sopra: la Galleria si è trasformata in uno spazio del lusso. 

Un tempo le cose non stavano così. Gli storici ci dicono che la Galleria, poco tempo dopo la sua costruzione, divenne sede di vivaci aziende del commercio, della ristorazione. Alcuni anni fa, in uno dei miei articoli, dimostrai addirittura come il passaggio coperto del Mengoni fosse divenuto nella seconda metà dell’Ottocento un punto di ritrovo per tutte le classi sociali, dagli umili artigiani fino all’intraprendente borghesia degli affari che viveva e lavorava nelle vicinanze. La Galleria costituì inoltre un luogo irrinunciabile anche per i tanti cantanti, ballerini e ballerine, attori e attrici, registi attivi nel vicino Teatro alla Scala. Non basta. Nella Milano ove sono ambientati i racconti di Giovanna Ferrante, ma anche nella città novecentesca la Galleria costituì una meta fondamentale per quanti lavoravano nelle vicinanze: dai funzionari delle vicine banche d’affari agli esponenti della classe politica milanese che svolgevano l’ufficio di consiglieri comunali o di assessori a Palazzo Marino, dagli impiegati pubblici alla vivace borghesia del commercio attiva nei negozi circostanti, tutti passarono sotto il monumento del Mengoni: un’opera destinata a divenire ben presto uno dei simboli di Milano.

Le stelle della moda sotto la Madonnina

In questi giorni a Milano si respira un’atmosfera magica. La settimana della moda è in pieno svolgimento: un evento imperdibile per gli appassionati, ma anche per il semplice uomo della strada che viene letteralmente ‘rapito’ dai tanti eventi allestiti nella capitale del fashion. Mercoledì il premier Renzi ha sostenuto che la moda è uno dei settori più importanti dell’economia italiana. “Dobbiamo vincere i luoghi comuni per rispetto a chi lavora in questo settore” ha detto Renzi aggiungendo: “la moda è fatta da donne e uomini che lavorano, che ci mettono passione, da imprenditori che hanno il coraggio di crederci anche quando non è facile … io sono qui per riconoscere una realtà che già c’è…”. Il premier, pranzando a Palazzo Reale assieme ai maggiori stilisti (Giorgio Armani, Angela Missoni, Renzo Rosso, Donatella Versace) ha voluto mostrare l’interesse del governo per un settore fondamentale dell’economia italiana. Intenso il programma della fashion week meneghina: dal 24 al 29 febbraio sono previste 73 sfilate, più di 90 presentazioni ed altri eventi che porteranno all’esposizione di numerose collezioni.

Cerchiamo ora di superare la superficie degli annunci per analizzare le ragioni che hanno spinto un presidente del consiglio italiano ad inaugurare, per la prima volta nella storia repubblicana, un evento glamour di dimensione cittadina.

Fashion followers
Una giovane passeggia per le vie di Milano…

In effetti, se studiamo a fondo le dinamiche dell’industria italiana della moda, ci rendiamo conto che la mossa di Renzi, pienamente azzeccata, è stata studiata nei minimi particolari. In una situazione generale di stallo (se non di lieve miglioramento per l’economia italiana), l’industria del fashion ha conseguito risultati di notevole successo negli ultimi anni grazie al genio e alla creatività delle aziende specializzate nel settore.

In questa sede svolgerò alcune riflessioni sul tema basandomi su una fonte di notevole interesse per gli storici e gli studiosi di scienze economiche: si tratta del rapporto – analisi e presentazione sono liberamente scaricabili da Internet  – che l’Area Studi Mediobanca ha dedicato al comparto della moda italiana. I bilanci più recenti sono quelli del 2014 ma gli esperti hanno condotto alcune previsioni per il 2015 che ci consentono di avere un’idea abbastanza precisa delle dinamiche interne a questo  settore. Nel 2014 la moda italiana ha costituito un giro d’affari pari a 224 miliardi con un incremento del 2% rispetto all’anno precedente. La crescita nel 2015 sarà probabilmente incrementata con un ritorno addirittura alla doppia cifra a causa della svalutazione dell’euro: si stima un aumento del 13% per un giro di affari stimato a 253 miliardi. Si tratta di un risultato importante. Quali sono però i mercati cui si rivolgono le aziende della moda italiana? Restando ai dati del 2014, l’Europa è stata il primo mercato mondiale con 76 miliardi seguita dalle Americhe con 72 miliardi e dall’Asia-Pacifico con 47 miliardi. La pelletteria ha interessato un giro d’affari pari a 65 miliardi, il comparto abbigliamento 54 miliardi, le gioielleria-oreficeria 52 miliardi, la cosmesi-profumeria 45 miliardi.

In altri termini, i mercati internazionali premiano la moda italiana nei vari settori. Anche in Europa i progressi sono notevoli. Qui però dobbiamo spiegarci perché non si capisce come mai il mercato di un vecchio continente in difficoltà (ricordiamo che i dati si riferiscono al 2014) abbia segnato un’ottima performance nella moda. A soccorrerci è ancora una volta l’analisi di Mediobanca, che ha messo in evidenza come in Europa – e ancor più in Italia – la contrazione dei consumi dovuta ai colpi di coda della crisi sia stata in parte compensata da uno shopping turistico di rilievo. Le stime del 2015 indicano un totale di 48 miliardi di euro. Questo fenomeno ha riguardato per il 74% quattro paesi europei: Francia, Germania, Gran Bretagna e Italia. Chi sono questi turisti benefattori che ogni anno vengono a trovarci e premiano le nostre aziende con i loro acquisti da nababbi? Nell’Europa del 2014 sono stati per il 36% cinesi e per il 9% russi. In Italia il fenomeno è ancora più lampante: i turisti stranieri che hanno premiato il Made in Italy nel campo del lusso sono stati cinesi per il 32%, russi per il 13%, americani per l’8%.

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Bianca Balti in una sfilata del 2010

Ma avviciniamo ancor più la lente alle aziende italiane della moda. L’Area Studi Mediobanca ha individuato 143 società che nel 2014 hanno avuto un fatturato di almeno 100 milioni di euro: 59 sono nel settore abbigliamento, 32 operano nel comparto pelletteria, 20 nel tessile, 11 nella gioielleria-oreficeria, 5 nell’occhialeria, 16 nella distribuzione. Dove si trovano? In larga misura nell’Italia padana: 56 nel Nord Ovest (Piemonte, Valle d’Aosta, Liguria, Lombardia), 55 nel Nord Est (Veneto, Emilia-Romagna, Trentino Alto Adige, Friuli Venezia Giulia), 32 nel resto d’Italia. Si tratta di una mappa geografica che sembra giustificare ampiamente il ruolo di Milano quale capitale italiana del fashion. La proprietà di queste aziende è in larghissima parte italiana: solo 44 sono a controllo estero (18 di queste sono all’interno di gruppi francesi).

Dal 2010 al 2014 le aziende della moda sono cresciute più della manifattura. Risultano inoltre meglio gestite: sono più redditizie, meglio capitalizzate e “liquide” (hanno molto “fieno in cascina” come si suol dire). Relativamente al fatturato, se l’incremento dei grandi gruppi manifatturieri è stato pari al 16,3% tra il 2010 e il 2014, quello delle aziende che operano nel fashion è stato del 27,7%. La forbice si fa ancora più larga se guardiamo all’incremento della redditività operativa (Ebit): +14,1% contro +25,1% della moda nel periodo 2010-2014. Maggiore l’aumento della forza lavoro: +14% per la manifattura contro un aumento del 22,7% della moda.

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Palazzo Trussardi tra via Filodrammatici e piazza Paolo Ferrari

Fa riflettere inoltre la differenza abissale nella struttura finanziaria tra i grandi gruppi manifatturieri e le aziende del comparto moda. Nel 2014 la redditività operativa dei primi è cresciuta del 6% contro il +9% delle seconde. Due parametri mostrano soprattutto la profonda diversità: la percentuale di liquidità (disponibilità di risorse) in rapporto ai debiti finanziari è stata pari al 50,4% nella manifattura mentre la moda ha dimostrato di sapersi gestire meglio con un rapporto pari al 73,7%. Un altro dato è il rapporto debiti finanziari/patrimonio netto, sempre relativo al 2014: se la manifattura presentava una percentuale elevatissima, pari al 140,4%, le aziende fashion non superavano una percentuale pari al 36,8%: questo significa che i debiti finanziari di queste ultime erano meno del 40% rispetto ai mezzi che avevano per farvi fronte.

All’interno delle 143 società operanti nella moda, l’Area Studi Mediobanca ha individuato un gruppo ristretto di 15 gruppi che tra il 2010 e il 2014 hanno raggiunto i picchi maggiori  per fatturato. Si tratta dei grandi marchi del lusso che elenchiamo in ordine alfabetico: Armani, Benetton, Calzedonia, Dolce&Gabbana, Geox, Luxottica, Max Mara, Moncler, Diesel, Prada, Safilo, Salvatore Ferragamo, Tod’s, Valentino, Zegna. Sono state considerate a parte Gucci e Bottega Veneta perché sono aziende che fanno parte della Società francese Gruppo Kering, rispettivamente dal 1999 e dal 2001.

Giorgio Armani
Giorgio Armani alla presentazione della sua autobiografia dedicata a 40 anni di moda

La classifica per fatturato vede in testa Luxottica con 7.652 milioni di euro, seguita da Prada con 3.552 mln, Armani con 2.535 mln, Calzedonia 1.847 mln, OTB (Diesel) 1.536 mln, Ferragamo 1.321 mln, Max Mara 1.310, Benetton 1.296, Zegna 1.210, Safilo 1.179, Dolce & Gabbana 1.045, Tod’s 966, Lir (Geox) 934, Valentino 721, Moncler 694. Per le italiane “conquistate” dai francesi, Gucci ha avuto ricavi per 3.497 milioni e Bottega Veneta per 1.131 mln. Il fatturato di queste aziende ha riguardato nel 2014 l’abbigliamento per il 46%, l’occhialeria per il 32%, la pelletteria per l’11%, le calzature per il 10%. Per numero di dipendenti si segnala Luxottica con 75.575 unità, seguita da Calzedonia con 30.705, Prada con 11.962, Armani con 8.112, Zegna con 7.663, Safilo con 7.609, Diesel con 6.286, Max Mara con 5.670, Dolce & Gabbana con 4.294, Tod’s con 4.239 e così via. Nel complesso le Top15 vendono più nei mercati extra europei, anche se il Vecchio Continente resta un mercato importante: 12,1 miliardi di fatturato in Europa contro i 15,7 miliardi nel resto del mondo. Si segnala in particolar modo la netta prevalenza delle vendite nei mercati esteri Luxottica (80,3% del fatturato fuori Europa), Ferragamo (73,1%), Zegna (72,6%), Prada (63,6%), Safilo (58,7%), Valentino (57,7%), Armani (55,7%), Dolce e Gabbana (55,3%).

Dalle analisi di Mediobanca possiamo ricavare due brevi riflessioni. La prima riguarda l’effettiva importanza del giro d’affari italiano della moda e del lusso, i cui prodotti sono apprezzati da una ricca clientela in netta prevalenza straniera. E’ vero che le aziende francesi di moda hanno fatturati superiori ai nostri ma non sono molto lontane da quelle italiane, che negli ultimi anni hanno mostrato di crescere con forza addirittura maggiore rispetto alle concorrenti d’oltralpe. La qualità, il design, la creatività del prodotto Made in Italy fanno ancora la differenza.

La seconda riflessione si lega invce alla debolezza della domanda interna italiana, che resta ancora eccessivamente bassa. Senza lo sbocco dei mercati esteri (compresi quelli europei) le nostre aziende avrebbero serie difficoltà. Per questa ragione è importante che il governo italiano si faccia portatore in Europa di una politica economica tesa a far crescere la domanda interna.

L’eccellenza italiana nell’industria della moda e del lusso può far storcere il naso al moralista che ritiene la raffinatezza dei costumi e il formalismo esteriore un segno di corruzione alimentando le diseguaglianze sociali in una repubblica che si vorrebbe informata alle semplici ed austere virtù del cittadino. Al contrario, le aziende che operano nella moda e nel lusso costituiscono una realtà di cui gli italiani dovrebbero andare orgogliosi.

Scriveva Pietro Verri nel celebre saggio Considerazioni sul lusso, pubblicato nel 1764 nel primo tomo, della celebre rivista “Il Caffè”:

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Pietro Verri (1728-1797)

Se il lusso ha per oggetto le manifatture nazionali, è cosa evidente che il restringerlo altro effetto non potrà produrre che quello di togliere il pane agli artigiani che campano sulle manifatture, desolare cittadini industriosi e utili, obbligarli ad abbandonare la patria, dare in somma un colpo crudele e funesto a molti membri della nazione, che hanno diritto alla protezione delle leggi, e alla nazione stessa spogliandola d’un numero di nazionali, diminuendosi il quale scema la vera sua robustezza.

Tornando sugli effetti benefici che le spese dei ricchi recavano all’economia di un paese andando a beneficio delle classi più povere ma industriose, il celebre illuminista lombardo scriveva:

Se il lusso nasce dalla ineguale ripartizione de’ beni e se l’ineguale ripartizione dei beni è contraria alla prosperità di una nazione, il lusso medesimo sarà un bene politico in quanto che dissipando i pingui patrimoni torna a dividerli, a ripartirli, e ad accostarsi alla meno sproporzionata divisione de’ beni. Il lusso è dunque un rimedio al male medesimo che lo ha fatto nascere; poiché l’ambizione de’ ricchi, che profondono, serve di esca ai vogliosi d’arricchirsi, e i danari ammassati, come una fecondatrice rugiada, ricadono sui poveri ma industriosi cittadini; e laddove la rapina o l’industria li sottrassero alla circolazione, il lusso e la spensieratezza loro li restituiscono.

P. Verri, Considerazioni sul lusso in “Il Caffè”, Tomo I, foglio XIV, in S. Romagnoli (a cura di), Il Caffè, Feltrinelli Editore, Milano 1960, pp.114-115

Gli faceva eco alcuni anni dopo Cesare Beccaria quando, agli studenti accorsi alle sue lezioni di economia pubblica, ricordava:

Cesare Beccaria (1738-1794)
Cesare Beccaria (1738-1794)

La ricchezza degli stati non nasce realmente che dalla fatica degli individui; la fatica degli individui bisogna appagarla; non si determinano gli uomini a fare questi pagamenti se non per convertirli in mezzi di godere ciò che più gli soddisfa. Di più, l’uomo non fatica, se non in proporzione dell’utile immediato che spera da quella provenirne; gli utili di questa fatica sono somministrati dalle spese dei ricchi, ossia di quelli che posseggono al di là del necessario fisico.

CBeccaria, Elementi di economia pubblica in C. Beccaria, Scritti economici, a cura di Gianmarco Gaspari, Edizione Nazionale delle Opere di Cesare Beccaria, Vol. III, Milano, Mediobanca 2014, pag.362.

Le radici storiche dell’alta moda a Milano

Quali sono le radici del Made in Italy nel comparto dell’alta moda? E’ facile risalire agli Ottanta/Novanta del Novecento, quando Milano, divenuta sede di importanti brand del lusso quali Gucci, Armani, Prada, Zegna, Dolce&Gabbana, acquisì il ruolo invidiato di capitale italiana della moda e del design.

Eppure, a ben vedere, la lente dello storico induce a risalire indietro nel tempo perché ci sono ragioni più profonde che spiegano per quale motivo Milano sia divenuta capitale del Made in Italy. Nel basso Medioevo, più precisamente all’epoca della signoria dei Visconti e degli Sforza, tra il XIV e il XV secolo, possiamo collocare gli esordi e il definitivo affermarsi dell’industria artigianale del lusso nell’abbigliamento e negli arredi. Certo, a quei tempi, la moda obbediva a finalità diverse, più legate a ragioni di rappresentanza politica. Oggi un imprenditore che lavora nell’abbigliamento orienta le sue produzioni in base a una clientela le cui scelte sono dettate da logiche tendenzialmente “private”: il cliente che acquista un capo di abbigliamento lo fa non solo per rispondere ai suoi gusti; in una società fatta da persone che non conosce – il dato è essenziale – desidera comunicare un messaggio, intende fare del vestito lo specchio in cui appaiono le sue qualità. L’abito diviene insomma un biglietto da visita.

Fante di coppe dal mazzo di tarocchi Brambilla, 1442-1444 ca. Tempera e foglia doro su cartoncino pressato.
Fante di coppe dal mazzo di tarocchi Brambilla, 1442-1444 ca. Tempera e foglia d’oro su cartoncino pressato.

Nel Medioevo la situazione era diversa, ma anche allora ci si vestiva per comunicare, per presentarsi in società secondo un codice di costumi fondato sulle apparenze. La clientela rispondeva a logiche di comunicazione politica legate al ceto di appartenenza. La società di oggi è costituita da cittadini privati ed eguali, liberi di agire nel rispetto delle leggi statali. In fondo, siamo ancora figli della rivoluzione francese. Nel Medioevo non esistevano cittadini in questo senso. I diritti e i doveri di ciascuno erano legati al ceto di appartenenza. Si capisce quindi come l’abbigliamento fosse un codice distintivo di fondamentale importanza, perché consentiva a una società corporativa come quella medievale di riconoscere le persone dall’abito che portavano.

La corte dei duchi di Milano costituisce un esempio emblematico. Il segno più distintivo dell’alta moda fu la produzione dei tessuti auroserici, un tipo di lavorazione che, affermatosi a Milano nel corso del Quattrocento, raggiunse livelli di eccellenza per tutto il secolo seguente. In effetti il ducato visconteo-sforzesco poteva contare su tecniche consolidate di tessitura e tintura che riguardavano capi come i fustagni o la lana.

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Frammento di velluto, broccato e bouclé in oro. Tessitura milanese risalente al 1460-1475 ca

La produzione dei tessuti auroserici era qualcosa di molto diverso. Si trattava di una lavorazione di altissima qualità che, alla fine del Trecento, era presente in alcuni Stati italiani (repubblica di Genova, repubblica di Firenze, repubblica di Venezia, repubblica di Lucca) che per ricchezza potevano permettersi la produzione e il commercio di questi manufatti. In cosa consisteva tale lavorazione? Ad essere tessuti erano articoli quali lampassi e damaschi, broccati d’oro e d’argento, velluti sul cui pelo di seta venivano incisi disegni araldici. Le fasi della lavorazione e del commercio del prodotto erano gestite interamente da una persona che potremmo definire “mercante imprenditore”. Questi acquistava anzitutto la materia prima. La seta proveniva dalla Spagna meridionale; la cocciniglia – il prezioso colorante rosso prodotto in Polonia o in Armenia – o l’indaco di Baghdad  – il miglior colorante azzurro per la seta – erano acquistati nei mercati sulle sponde del Mar Nero, alcuni fatti arrivare mediante il trasporto su chiatte lungo il Danubio; i lingotti d’oro e d’argento giungevano invece dalle miniere del Nord Europa. Il processo di lavorazione avveniva in due stadi. Nel primo il mercante forniva le materie prime agli artigiani. Una particolare fase di lavoro era ad esempio quella del battiloro: consisteva nel ridurre il singolo pezzo d’oro in lamine finissime che venivano poi tagliate con apposite forbici e inserite nel tessuto di seta dalle “filaoro”, maestranze femminili specializzate. Nel secondo stadio il mercante ritirava la stoffa lavorata e la portava nell’“apotheca”, ove il maestro tessitore, sulla base del disegno che gli veniva fornito, procedeva alla complessa tessitura del prodotto: tale lavoro poteva richiedere fino a tre settimane per la consegna dell’articolo finito. Il capo d’abbigliamento o l’articolo di arredamento veniva quindi venduto dal mercante alla corte ducale, alle ricche famiglie della nobiltà, ma anche a numerosi borghesi arricchitisi in questo settore.

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Filippo Maria Visconti, duca di Milano dal 1412 al 1447

Come fu possibile la nascita di quest’arte nel ducato di Milano? Nulla nasce per caso. Tale lavorazione venne introdotta in città per volontà del duca Filippo Maria Visconti. Gli Sforza poi incrementarono l’industria auroserica. I duchi praticarono una politica di “apertura all’esterno” creando le condizioni per fare arrivare a Milano i migliori artigiani e le macchine più importanti che servivano alla lavorazione. Negli anni di Filippo Maria Visconti (1412-1447) e di Francesco Sforza (1450-1466) vennero chiamate a lavorare a Milano le migliori maestranze tessili provenienti da Genova, da Venezia, da Firenze, da Lucca. Questi artigiani insegnarono la lavorazione auroserica alle famiglie dell’aristocrazia mercantile lombarda, tanto desiderose di apprendere i segreti dell’arte quanto decise ad arricchirsi mediante l’innovazione e il commercio dei prodotti. In secondo luogo, questi maestri poterono lavorare in libertà: la loro attività non venne impedita, rallentata, ostacolata dagli Statuti delle corporazioni cittadine e non esistevano neppure leggi suntuarie che limitavano il commercio. Una situazione di assenza di vincoli che durò fino al 1461. Tuttavia, val la pena ricordare che anche dopo quella data, le norme sul lusso furono abbastanza elastiche, rendendo possibile la produzione e il commercio di articoli di alta moda.

L’aristocrazia mercantile milanese investì ingenti risorse finanziarie nella produzione di tali manufatti auroserici, curandone lo smercio nei mercati internazionali.  Mandò inoltre i suoi figli ad imparare l’arte nelle botteghe dei migliori tessitori toscani e genovesi immigrati a Milano. In alcuni casi si andò anche oltre. Del tutto indicative in proposito le strategie matrimoniali messe in campo dal consigliere ducale Oldrado Lampugnani, che nel primo Quattrocento fece sposare una delle sue figlie con il tessitore fiorentino Pietro di Bartolo.

Quali insegnamenti possiamo ricavare da questa storia? Anzitutto che l’ipertrofia legislativa, la presenza di vincoli burocratici soffoca qualunque impresa. Nel ducato di Milano l’industria auroserica rimase un comparto di eccellenza nel campo dell’alta moda per tutto il Cinquecento proprio per l’assenza di vincoli particolarmente stringenti nel comparto del lusso. Nel Seicento la crisi economica provocata dalle guerre, dalle carestie e dalle pestilenze impoverì la borghesia milanese, segnando una netta separazione tra il ricco patriziato cittadino e una popolazione in gran parte ridotta in povertà. Eppure, anche allora, nonostante tali difficoltà, la nobiltà cittadina – cui competeva la disciplina normativa sul lusso – emanò poche disposizioni in materia. Tra il XVI e il XVIII secolo nel ducato di Milano vennero emanate solo otto normative suntuarie: un numero esiguo se rapportato alle ventuno leggi vigenti in materia nel granducato di Toscana o alle ottanta o poco più nella repubblica di Venezia. Inoltre, diversamente da altri Stati europei, le normative milanesi si caratterizzarono in molti casi per la mancanza di pene severe contro i trasgressori. Segno che i governanti, costretti a legiferare per ragioni di ordine politico e religioso, lo fecero con l’intenzione di limitare il più possibile i danni all’industria milanese.