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Le radici storiche dell’alta moda a Milano

Quali sono le radici del Made in Italy nel comparto dell’alta moda? E’ facile risalire agli Ottanta/Novanta del Novecento, quando Milano, divenuta sede di importanti brand del lusso quali Gucci, Armani, Prada, Zegna, Dolce&Gabbana, acquisì il ruolo invidiato di capitale italiana della moda e del design.

Eppure, a ben vedere, la lente dello storico induce a risalire indietro nel tempo perché ci sono ragioni più profonde che spiegano per quale motivo Milano sia divenuta capitale del Made in Italy. Nel basso Medioevo, più precisamente all’epoca della signoria dei Visconti e degli Sforza, tra il XIV e il XV secolo, possiamo collocare gli esordi e il definitivo affermarsi dell’industria artigianale del lusso nell’abbigliamento e negli arredi. Certo, a quei tempi, la moda obbediva a finalità diverse, più legate a ragioni di rappresentanza politica. Oggi un imprenditore che lavora nell’abbigliamento orienta le sue produzioni in base a una clientela le cui scelte sono dettate da logiche tendenzialmente “private”: il cliente che acquista un capo di abbigliamento lo fa non solo per rispondere ai suoi gusti; in una società fatta da persone che non conosce – il dato è essenziale – desidera comunicare un messaggio, intende fare del vestito lo specchio in cui appaiono le sue qualità. L’abito diviene insomma un biglietto da visita.

Fante di coppe dal mazzo di tarocchi Brambilla, 1442-1444 ca. Tempera e foglia doro su cartoncino pressato.
Fante di coppe dal mazzo di tarocchi Brambilla, 1442-1444 ca. Tempera e foglia d’oro su cartoncino pressato.

Nel Medioevo la situazione era diversa, ma anche allora ci si vestiva per comunicare, per presentarsi in società secondo un codice di costumi fondato sulle apparenze. La clientela rispondeva a logiche di comunicazione politica legate al ceto di appartenenza. La società di oggi è costituita da cittadini privati ed eguali, liberi di agire nel rispetto delle leggi statali. In fondo, siamo ancora figli della rivoluzione francese. Nel Medioevo non esistevano cittadini in questo senso. I diritti e i doveri di ciascuno erano legati al ceto di appartenenza. Si capisce quindi come l’abbigliamento fosse un codice distintivo di fondamentale importanza, perché consentiva a una società corporativa come quella medievale di riconoscere le persone dall’abito che portavano.

La corte dei duchi di Milano costituisce un esempio emblematico. Il segno più distintivo dell’alta moda fu la produzione dei tessuti auroserici, un tipo di lavorazione che, affermatosi a Milano nel corso del Quattrocento, raggiunse livelli di eccellenza per tutto il secolo seguente. In effetti il ducato visconteo-sforzesco poteva contare su tecniche consolidate di tessitura e tintura che riguardavano capi come i fustagni o la lana.

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Frammento di velluto, broccato e bouclé in oro. Tessitura milanese risalente al 1460-1475 ca

La produzione dei tessuti auroserici era qualcosa di molto diverso. Si trattava di una lavorazione di altissima qualità che, alla fine del Trecento, era presente in alcuni Stati italiani (repubblica di Genova, repubblica di Firenze, repubblica di Venezia, repubblica di Lucca) che per ricchezza potevano permettersi la produzione e il commercio di questi manufatti. In cosa consisteva tale lavorazione? Ad essere tessuti erano articoli quali lampassi e damaschi, broccati d’oro e d’argento, velluti sul cui pelo di seta venivano incisi disegni araldici. Le fasi della lavorazione e del commercio del prodotto erano gestite interamente da una persona che potremmo definire “mercante imprenditore”. Questi acquistava anzitutto la materia prima. La seta proveniva dalla Spagna meridionale; la cocciniglia – il prezioso colorante rosso prodotto in Polonia o in Armenia – o l’indaco di Baghdad  – il miglior colorante azzurro per la seta – erano acquistati nei mercati sulle sponde del Mar Nero, alcuni fatti arrivare mediante il trasporto su chiatte lungo il Danubio; i lingotti d’oro e d’argento giungevano invece dalle miniere del Nord Europa. Il processo di lavorazione avveniva in due stadi. Nel primo il mercante forniva le materie prime agli artigiani. Una particolare fase di lavoro era ad esempio quella del battiloro: consisteva nel ridurre il singolo pezzo d’oro in lamine finissime che venivano poi tagliate con apposite forbici e inserite nel tessuto di seta dalle “filaoro”, maestranze femminili specializzate. Nel secondo stadio il mercante ritirava la stoffa lavorata e la portava nell’“apotheca”, ove il maestro tessitore, sulla base del disegno che gli veniva fornito, procedeva alla complessa tessitura del prodotto: tale lavoro poteva richiedere fino a tre settimane per la consegna dell’articolo finito. Il capo d’abbigliamento o l’articolo di arredamento veniva quindi venduto dal mercante alla corte ducale, alle ricche famiglie della nobiltà, ma anche a numerosi borghesi arricchitisi in questo settore.

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Filippo Maria Visconti, duca di Milano dal 1412 al 1447

Come fu possibile la nascita di quest’arte nel ducato di Milano? Nulla nasce per caso. Tale lavorazione venne introdotta in città per volontà del duca Filippo Maria Visconti. Gli Sforza poi incrementarono l’industria auroserica. I duchi praticarono una politica di “apertura all’esterno” creando le condizioni per fare arrivare a Milano i migliori artigiani e le macchine più importanti che servivano alla lavorazione. Negli anni di Filippo Maria Visconti (1412-1447) e di Francesco Sforza (1450-1466) vennero chiamate a lavorare a Milano le migliori maestranze tessili provenienti da Genova, da Venezia, da Firenze, da Lucca. Questi artigiani insegnarono la lavorazione auroserica alle famiglie dell’aristocrazia mercantile lombarda, tanto desiderose di apprendere i segreti dell’arte quanto decise ad arricchirsi mediante l’innovazione e il commercio dei prodotti. In secondo luogo, questi maestri poterono lavorare in libertà: la loro attività non venne impedita, rallentata, ostacolata dagli Statuti delle corporazioni cittadine e non esistevano neppure leggi suntuarie che limitavano il commercio. Una situazione di assenza di vincoli che durò fino al 1461. Tuttavia, val la pena ricordare che anche dopo quella data, le norme sul lusso furono abbastanza elastiche, rendendo possibile la produzione e il commercio di articoli di alta moda.

L’aristocrazia mercantile milanese investì ingenti risorse finanziarie nella produzione di tali manufatti auroserici, curandone lo smercio nei mercati internazionali.  Mandò inoltre i suoi figli ad imparare l’arte nelle botteghe dei migliori tessitori toscani e genovesi immigrati a Milano. In alcuni casi si andò anche oltre. Del tutto indicative in proposito le strategie matrimoniali messe in campo dal consigliere ducale Oldrado Lampugnani, che nel primo Quattrocento fece sposare una delle sue figlie con il tessitore fiorentino Pietro di Bartolo.

Quali insegnamenti possiamo ricavare da questa storia? Anzitutto che l’ipertrofia legislativa, la presenza di vincoli burocratici soffoca qualunque impresa. Nel ducato di Milano l’industria auroserica rimase un comparto di eccellenza nel campo dell’alta moda per tutto il Cinquecento proprio per l’assenza di vincoli particolarmente stringenti nel comparto del lusso. Nel Seicento la crisi economica provocata dalle guerre, dalle carestie e dalle pestilenze impoverì la borghesia milanese, segnando una netta separazione tra il ricco patriziato cittadino e una popolazione in gran parte ridotta in povertà. Eppure, anche allora, nonostante tali difficoltà, la nobiltà cittadina – cui competeva la disciplina normativa sul lusso – emanò poche disposizioni in materia. Tra il XVI e il XVIII secolo nel ducato di Milano vennero emanate solo otto normative suntuarie: un numero esiguo se rapportato alle ventuno leggi vigenti in materia nel granducato di Toscana o alle ottanta o poco più nella repubblica di Venezia. Inoltre, diversamente da altri Stati europei, le normative milanesi si caratterizzarono in molti casi per la mancanza di pene severe contro i trasgressori. Segno che i governanti, costretti a legiferare per ragioni di ordine politico e religioso, lo fecero con l’intenzione di limitare il più possibile i danni all’industria milanese.

La strana cucina nella Milano ‘ancien régime’

L’Italia è famosa per i suoi piatti prelibati. Oggi però non voglio darti consigli sui ristoranti che fanno tendenza a Milano. Se vuoi sapere quali sono i locali in cui si mangia bene, ti consiglio di iscriverti alla mia newsletter.  Puoi trovare informazioni utili al riguardo.

In questo articolo desidero affrontare un tema afferente alla storia dell’alimentazione. Come si mangiava a Milano nel Medioevo o nel Sei-Settecento? Partiamo dalla nostra cucina: oggi si tende a separare i sapori sia nei singoli piatti che nelle portate dei pasti. Per noi un piatto deve essere dolce o salato. Questa usanza si affermò in Francia tra Sei e Settecento e si diffuse in Occidente nel XIX secolo. Nel Medioevo invece si tendeva a mischiare i sapori. I cibi erano cucinati in un miscuglio artificiale che faceva sentire nel palato un gusto completamente diverso rispetto al nostro. Perché si mischiava il dolce con il salato, il dolce con il piccante? Secondo i costumi di quei tempi, si riteneva opportuno che le pietanze contenessero il maggior numero di sapori per essere adeguatamente nutrizionali. Il gusto per l’agrodolce, ottenuto mediante l’immissione dello zucchero negli agrumi, era tipico del Medioevo.

Oggi in Europa son rimaste le tracce di quella concezione culinaria. Lo riscontriamo nella cucina dell’Europa del Nord o in alcuni paesi dell’Europa dell’Est: se ordiniamo un piatto di carne o di pesce, ci accorgiamo che viene guarnito con confetture di mirtilli o marmellate di pere. Questo tipo di cucina medievale durò molto tempo a Milano. In alcune zone del Nord Italia esso è tuttora diffuso: si pensi ad esempio in Lombardia all’uso di accompagnare le carni con la mostarda. In origine la mostarda era una salsa in cui il piccante delle spezie era unito al sapore dolce dello zucchero.

Un altro dato su cui riflettere. Contrariamente a quel che si può pensare, la cucina medievale era molto povera di grassi. Le salse, cui si faceva largo ricorso, erano ottenute mischiando componenti acidi: vino, aceto, succhi di agrumi o di uva acerba erano usati in composti fatti di molliche di pane, fegato, mandorle, noci, tuorli d’uova. Insomma, se con la macchina del tempo fossimo “teletrasportati” nella Milano del Seicento, magari nel banchetto allestito da una nobile famiglia, non aspettiamoci di trovare salse grasse come la maionese, la besciamella e tutti quei composti che, diffusi lentamente nel corso del Settecento, si affermarono in Europa tra Otto e Novecento.

Un’altra differenza rispetto alla nostra cucina risiedeva nel tipo di portate che venivano servite. Noi oggi presentiamo in ordinata successione le stesse portate a tutti i commensali. Questa usanza, conosciuta come “servizio alla russa”, si affermò in Europa solo nella seconda metà dell’Ottocento. Prima l’uso era ancora quello – di origine medievale – di servire i piatti per così dire “in contemporanea”: toccava ai commensali scegliere i cibi che preferivano. Un po’ come si usa oggi in Cina, in Giappone o nei buffet, anche se a quel tempo non esisteva certo quella concezione “egalitaria” per cui l’accesso ai cibi è aperto a tutti i partecipanti.

Allora esistevano varie tipologie di piatti ed ogni persona mangiava le pietanze previste per il suo ceto di appartenenza. La nobiltà ad esempio consumava quasi sempre carne o pesce, ma lo faceva spesso in modo esagerato perché era un segno di status. Nel XV secolo Malatesta Baglioni, capitano generale dei fanti della repubblica veneta, offrì a Crema due pranzi faraonici che si protrassero per tre giorni: il primo era composto di 1438 vivande, tra le quali colpiscono piatti che oggi ci sembrano a dir poco artificiali: ad esempio il pollo cotto nello zucchero e bagnato nell’acqua di rose; il secondo, a base di pesce, presentava ‘solo’ 650 piatti assortiti nelle più ricche variazioni. Un vero supplizio per i convitati!! I ceti popolari ricorrevano ai legumi o ripiegavano su piatti quali la luganiga (carne tritata di maiale, condita con sale, sostanze vegetali aromatiche e inserita dentro le intestina di agnello) o la cervellata (composto di scarti porcini o di rognoni di manzo tritati, salati e misti con cacio lodigiano).

Nella seconda metà del Quattrocento era molto conosciuto in Europa il ricettario di Bartolomeo Sacchi detto “il Platina” (il soprannome latino indicava il paese di origine: Piadena nel cremonese): il De honesta voluptate et valetudine. Eppure, a ben vedere,  il contenuto di questo testo non era farina del sacco del Platina. Il ricco elenco di ricette riprendeva l’opera del maestro Martino de Rossi, un esperto di cucina originario della val di Blenio, territorio che a quell’epoca era parte integrante del ducato di Milano. Martino viaggiò nei vari Stati italiani: fu al servizio della corte milanese di Francesco Sforza, cucinò a Roma per i pontefici, ritornò a Milano per deliziare il palato del suo nuovo datore di lavoro: il condottiero milanese Gian Giacomo Trivulzio il cui palazzo, oggi scomparso, era in via Rugabella, nel sestiere di Porta Romana.

Il libro di Martino, De arte coquinaria è una fonte preziosa perché le sue ricette, diffuse alla fine del Medioevo, continuarono ad essere praticate nella cucina italiana fino al Seicento e al primo Settecento. In fondo, può essere considerato l’antenato dei manuali gastronomici italiani. La pasta era presentata per la prima volta come un piatto a sé stante; comparivano nuovi elementi destinati ad avere larga fortuna: ad esempio la polpetta e la frittella. Inoltre faceva la sua prima apparizione la melanzana.

La Cà Granda nel Sestiere di Porta Romana

 

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L’Ospedale Maggiore in una foto del primo Novecento.

 L’Università degli Studi è un altro dei luoghi simbolo di Milano. In realtà nell’immobile aveva sede un tempo uno dei più importanti ospedali europei, noto ai milanesi come la Cà Granda. D’altra parte all’osservatore attento non sfuggirà che il quartiere di Porta Romana conserva tuttora la sua impronta socio assistenziale nei molteplici padiglioni  del Policlinico di via Francesco Sforza, a pochi passi dall’Università.

La costruzione della Cà Granda si deve al duca Francesco Sforza e alla moglie Bianca Maria Visconti, i quali vollero fondare un grande ospedale che si prendesse cura dei malati, in particolar modo i poveri sparsi nelle città e nelle campagne dello Stato lombardo. Il duca donò all’ospedale alcune case nel quartiere di Porta Romana: le fece risistemare e abbellire dall’architetto fiorentino Antonio Averulino detto “il Filarete” e, ricorrendo ai fondi degli altri ospedali della città e della diocesi, fece in modo che la nuova istituzione fosse provvista di adeguate risorse. Insomma, decisamente altra cosa rispetto al modo con cui viene gestita nei tempi attuali la sanità italiana. L’Ospedale Maggiore (che è l’altro nome con cui i milanesi erano soliti riferirsi alla Cà Granda) sorgeva entro le mura medievali, vicino al naviglio interno che, scorrendo praticamente al di sotto di quelle opere di fortificazione, costituiva allora una formidabile via di comunicazione. Sulle sue acque transitavano i grandi barconi carichi di merci, derrate e materiali da costruzione che poi i barcaioli lasciavano nelle ‘sciostre’, le aree di sosta che, poste a ridosso del naviglio, servivano quali magazzini.

Portone d’ingresso alla Cà Granda sul naviglio interno in una foto del primo Novecento

 

A questo punto si riesce forse a capire per quale motivo Francesco Sforza avesse deciso di donare all’ospedale quelle case poste proprio a ridosso del naviglio. Il complesso sanitario sorgeva infatti in una posizione strategica: situato all’interno delle mura medievali, l’edificio non solo si trovava nel centro cittadino ma, posto in prossimità del naviglio e vicinissimo al contado circostante, era in collegamento diretto con i paesi circostanti. L’utilizzo del naviglio quale via di comunicazione consentiva ai milanesi di rifornire continuamente l’ospedale con viveri e medicinali provenienti spesso dalle campagne.

Verso la metà del Seicento, l’edificio venne ampliato grazie agli interventi dell’architetto Francesco Maria Richini: il grande chiostro interno e la chiesa dell’Annunciata diedero all’ospedale una veste grandiosa ma al contempo misurata; un’atmosfera solenne corretta da quell’austera chiesetta posta a ridosso del naviglio.

Ma come riuscì a prosperare l’Ospedale Maggiore nella sua lunga vita al servizio della comunità? Potrà stupire in una città di cui si lamenta quasi sempre l’eccessivo consumismo ed egoismo, ma la grandezza dell’Ospedale Maggiore nei suoi cinque secoli di storia fu resa possibile dal profondo senso di carità della nobiltà ambrosiana, che non mancò di impiegare le sue risorse in favore dei poveri.