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Capire chi siamo: online una Enciclopedia storica

Un’interessante iniziativa avviata dalla Società Storica Lombarda riguarda la compilazione della Enciclopedia delle famiglie lombarde: si tratta di una piattaforma informatica, già in parte accessibile in rete, i cui contenuti saranno accresciuti nei prossimi mesi. L’obiettivo – come ha ricordato Ottavio De Carli in un incontro organizzato il 22 novembre presso l’Archivio di Stato di Milano – è di mettere a disposizione del pubblico uno strumento di conoscenza storica rivolto non solo a specialisti, ma anche a persone appassionate di storia locale che desiderano disporre su Internet di una piattaforma d’immediata consultazione come avviene con Wikipedia; per quanto concerne la qualità dei contenuti disponibili, il modello sarà invece quello delle garzantine: il lavoro è gestito da una commissione scientifica di storici e specialisti: ricordo il direttore Stefano Levati (Università degli Studi di Milano), il coordinatore Ottavio De Carli, Fabrizio Alemani, Saverio Almini, Paolo Galimberti, Gabriele Medolago e Giovanni Necchi della Silva.

L’opera insisterà su un’area territoriale – la Lombardia – di dimensioni regionali o addirittura macroregionali a seconda del significato che si vorrà dare a questo termine: gli storici hanno infatti dimostrato che il nome “Lombardia” non si riferisce soltanto alla Regione attuale, la cui formazione risale alla fine del Settecento e ai primi anni dell’Ottocento. Occorre tener presente anche la “Lombardia storica”, l’antica area geografica ricordata da Montesquieu, estesa alla pianura padana centro-occidentale, comprendente parte del Piemonte, del Veneto e dell’Emilia Romagna. D’altra parte, non sarà fuori luogo ricordare che lo stesso Ducato di Milano in Età Moderna fu esteso fino ai primi del Settecento a territori che oggi fanno parte della Regione Piemonte: è il caso dell’alto e basso novarese, dell’alessandrino o del tortonese.

L’Enciclopedia è dedicata allo studio delle famiglie lombarde dal Medioevo all’età moderna e contemporanea. Ad essere analizzati, sulla base dei documenti conservati negli archivi pubblici e privati, saranno gli stili di vita, le abitudini, i ruoli politico istituzionali rivestiti dalle persone oggetto d’indagine.

Una parte importante di questo lavoro riguarderà le famiglie nobili, il cui studio consentirà di comprendere meglio la società d’antico regime focalizzando l’attenzione sulla vita del tempo, sulle relazioni e sul ruolo pubblico dei matrimoni tra famiglie di pari rango; matrimoni che portavano spesso all’accrescimento del patrimonio immobiliare e finanziario del casato.

Federico Confalonieri
Federico Confalonieri (1785-1846)

La storia delle famiglie nobili lombarde consentirà inoltre di cogliere – meglio di quanto si sia fatto finora – il significato di comportamenti e di istituzioni assai diffuse nell’Europa d’ancien régime; situazioni difficilmente comprensibili al giorno d’oggi nelle loro dinamiche interne. Del tutto emblematica, a tal proposito, la figura del “cavalier servente”. Come ha rilevato lo storico Roberto Bizzocchi nell’incontro citato sopra, un esame del carteggio tra il conte Federico Confalonieri e la moglie Teresa Casati, risalente ai primi anni dell’Ottocento, ha consentito di cogliere la crisi del “matrimonio a tre” tipico della società settecentesca; un matrimonio in cui la figura del “cavalier servente”, scelto dal marito affinché la moglie potesse frequentare i salotti culturali al di fuori delle mura domestiche, svolgeva un ruolo importante. L’amore di Teresa per il marito, evidente nelle lettere che gli scriveva, lasciava trasparire una sfera di affetti già compresa nell’amore romantico di coppia formatosi nel XIX secolo. A Federico, assente da Milano, impegnato in un viaggio politico-diplomatico in Francia e in Gran Bretagna, Teresa scriveva affermando di non voler frequentare i teatri milanesi assieme agli accompagnatori che lui stesso le aveva scelto per la vita in società. La donna sentiva fortemente la mancanza del marito, il che lasciava trasparire un forte legame sentimentale tra i due, un affetto di coppia che tendeva ad essere meno presente nella società aristocratica del Settecento.

Per capire la distanza di un tale legame di natura già romantica rispetto ai formali rapporti di coppia dell’antico regime è utile ricordare il ben più saldo “matrimonio a tre” che caratterizzò la relazione settecentesca tra Laura Cotta, il marito Antonio Greppi e il cavalier servente Stefano Lottinger scelto dal marito per accompagnare la donna in società. Diversamente dai Casati e dai Confalonieri, Greppi apparteneva a una famiglia borghese originaria della bergamasca specializzata nel commercio all’ingrosso di lana e tessuti. L’ascesa sociale della famiglia avvenne a metà Settecento, quando Antonio ricevette dal ministro plenipotenziario della Lombardia austriaca, Gian Luca Pallavicini, l’incarico di gestire con altri soci l’appalto di riscossione delle tasse per conto del governo (la Ferma generale). Arricchitosi considerevolmente grazie all’impegno profuso in questa attività, il Greppi si trasferì a Milano ove acquistò una casa in via Sant’Antonio (sestiere di Porta Romana) che fece ristrutturare e ingrandire perché acquisisse i caratteri di una residenza elegante e fastosa. Negli anni Settanta, grazie ai servigi prestati all’imperatrice Maria Teresa, ottenne la nobilitazione della sua famiglia. Dal matrimonio con Laura Cotta aveva avuto sei figli maschi.

Le lettere della donna al marito, impegnato in alcuni viaggi all’estero, mostravano il rapporto d’interesse e di socialità mondana che la univa al Lottinger, importante funzionario asburgico di origine lorenese che ricoprì uffici di rilievo nella Lombardia austriaca: consigliere del Supremo Consiglio di Economia, membro della Giunta interina incaricata di amministrare le finanze, membro della Camera dei conti, dal 1780 al 1796 fu intendente generale di finanza nella Lombardia austriaca. La frequentazione con il Lottinger consentiva alla nobildonna di avere notizie aggiornate sulla politica del governo asburgico nel settore delle finanze; una messe d’informazioni assai utile al marito per il ruolo che questi, assieme ad altri soci, aveva rivestito per molti anni (dal 1750 al 1770) nella gestione della Ferma e per l’ufficio di consigliere nella Camera dei Conti dal 1770 al 1779.

Un’altra riflessione importante sulla storia delle famiglie lombarde nei secoli dell’Età Medievale e Moderna investe la sfera dei sentimenti tra genitori e figli. L’elevata mortalità infantile unita all’alto tasso di natalità rendeva tenue il legame di affetto dei padri verso i piccoli; un sentimento che tendeva a privilegiare per lo più i maschi primogeniti, sui quali si appuntavano i progetti di discendenza e di trasmissione patrimoniale del casato. Non stupisce a tal proposito, come fa notare ancora Bizzocchi, che nel diario compilato da un nobile lucchese (appartenente alla famiglia Bracci Cambini) la notazione più struggente sia quella riguardante la morte di un figlio di pochi anni, mentre la scomparsa della sorellina sia ricordata in modo quasi anonimo.

L’Enciclopedia sarà anche dedicata allo studio di famiglie borghesi che, soprattutto negli ultimi secoli dell’Età Moderna, hanno contribuito alla crescita culturale ed economica della società lombarda. Le carte conservate negli archivi riguardano non solo uomini, ma anche donne che hanno reso grande Milano in campi di grande attualità quali la moda, il design, l’architettura. Come ha sottolineato la storica Maria Canella, l’opera di valorizzazione di queste “carte politecniche” consentirà di dare voce “a persone che la storiografia ha trascurato finora”.

Un altro terreno d’indagine sarà dedicato alla storia di famiglie i cui membri si distinsero nell’atletica agonistica tra Otto e Novecento.

L’Enciclopedia della Famiglie Lombarde è liberamente accessibile a questo indirizzo.

La varietà dei dialetti lombardi nell’Italia padana

Il titolo IV della legge regionale 7 ottobre 2016 n.25 si intitola “Salvaguardia della Lingua Lombarda”. Gli articoli 24 e 25 riguardano le misure con cui i Comuni, anche in forma associata, possono promuovere la “lingua lombarda nelle sue varietà locali”. La consigliera Daniela Mainini ed altri membri dell’opposizione in Regione Lombardia hanno contestato il termine “lingua lombarda” sostenendo che non si tratta di lingua, bensì di dialetti lombardi. A suffragare la loro posizione, oltre agli istituti linguistici dell’Università degli Studi di Milano e di Pavia, è l’interessante relazione del professor Paolo D’Achille, membro dell’Accademia della Crusca, che si può leggere qui.

Qual è la differenza tra lingua e dialetto? In Italia con lingua intendiamo un insieme di convenzioni (fonetiche, morfologiche, sintattiche e lessicali) valide sia nella comunicazione orale che in quella scritta esistenti in una comunità etnica, politica, sociale, consacrate dalla storia, dal prestigio degli autori, dal consenso dei cittadini. La lingua acquisisce una sua dignità quando viene utilizzata da un regime politico (Stato o altre forme di potere pubblico) nella redazione di atti aventi valore giuridico. Dialetto è invece un sistema linguistico geograficamente delimitato, avente una sua letteratura, privo tuttavia di un uso politico da parte dei poteri pubblici storici.

Ma torniamo al caso in questione. E’ esistita storicamente una “lingua lombarda” utilizzata in via ufficiale da un potere pubblico nella formazione di atti giuridici e amministrativi? La risposta è no. I governanti di quelle parti del territorio che oggi chiamiamo Lombardia si servirono, nella stesura di editti, gride, patenti ed altre normative, del latino o del volgare fiorentino trecentesco (divenuto poi l’italiano). Il dialetto locale non fu mai utilizzato nella redazione di atti pubblici. Allo stato attuale delle ricerche – che io sappia – non si è trovato nei documenti archivistici, un solo atto pubblico scritto in “lingua lombarda”. La differenza con la Catalogna è qui radicale. Questo è un dato importante di cui tenere conto. A partire dal Tre-Quattrocento, negli Stati italiani il volgare fiorentino acquisì un prestigio enorme in tutta Italia (dal Nord al Sud) grazie alla diffusione delle opere delle Tre Corone (Dante, Petrarca e Boccaccio).

Occorre inoltre ricordare che, nei secoli del Medioevo e nell’Età Moderna non esisteva la Lombardia come la intendiamo oggi. Fino alla metà del Settecento, con questo termine si indicava un’area geografica corrispondente all’incirca alla pianura padana. Montesquieu, ai primi del Settecento, la descrisse molto bene:

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Charles-Luis de Secondat , barone di Montesquieu (1689-1755)

La Lombardia è tutta quella pianura che si stende fra le Alpi e l’Appennino: queste due catene di montagne, unite all’inizio del Piemonte, divergono, formando un triangolo con il mare Adriatico che ne è come la base, e racchiudendo la più deliziosa pianura del mondo che comprende il Piemonte, il Milanese, lo Stato veneto, Parma, Modena, il Bolognese e il Ferrarese”.

La Lombardia attuale ebbe origine in un periodo storico compreso tra il trattato di Campoformio (1797) e i tredici mesi di amministrazione austriaca lombardo-veneta nel 1799/1800, quando i confini tra Lombardia e Veneto furono fissati in sostanza tra il Lago di Garda e il fiume Mincio. Essi furono ripristinati dopo il crollo del Regno d’Italia napoleonico, all’interno dell’amministrazione del Regno Lombardo Veneto asburgico.

Come si è visto nel passo di Montesquieu, la Lombardia antica era divisa al contrario in molti Stati, il che finì con l’influenzare l’evoluzione dei dialetti padano veneti. Si capisce allora che, a voler restringere l’indagine ai dialetti parlati entro i confini della Regione attuale, questi non si possono definire unitariamente “lingua lombarda”. I dialetti lombardi occidentali, esistenti nel territorio compreso tra il Ticino e l’Adda, gravitano sul milanese ma sono parlati anche in aree che non si trovano nella Regione Lombardia: pensiamo all’alto e al basso novarese o al Canton Ticino. Tali dialetti sono diversi dai dialetti lombardi orientali parlati nel bergamasco, nel bresciano, nel cremasco, i quali risentono tuttora dell’antica divisione politico amministrativa tra il Ducato di Milano e la Repubblica di San Marco. Un’ulteriore distinzione va fatta per il dialetto mantovano, più vicino ai dialetti emiliani.

In realtà, i dialetti gallo-italici sono tuttora parlati – se si tolgono le aree urbane più densamente popolate ove domina un ottimo italiano – in gran parte della pianura padana. Per un periodo di tempo limitato vi fu una lingua letteraria lombarda o padana: alcuni scrittori scrissero testi in prosa ispirati ai modelli cortesi dei prosatori in lingua d’oil (francese). Gli specialisti definiscono questa lingua come “franco italiana” presente in alcune opere tra il XIII e il XIV secolo. Questa lingua fu però adottata da un’esigua minoranza di scrittori nel Medioevo, mai usata dai poteri pubblici dell’Italia del Nord. Negli atti giuridici e amministrativi si preferì ricorrere al latino, destinato ad essere soppiantato dall’italiano nel corso dell’Età Moderna. E’ oltremodo significativo che Dante, quando scrisse il De vulgari eloquentia un trattato in latino composto tra il 1302 e il 1306 sull’arte di scrivere in volgare  – non avesse fatto alcuna menzione di questa  “lingua lombarda”. Il che è significativo se poniamo mente al fatto che l’autore della Divina Commedia soggiornò da esule in centri padani importanti quali Bologna, Verona o Ravenna. Com’è fin troppo noto, fu il veneziano Pietro Bembo nelle Prose della volgar lingua (1525) a proporre con successo il fiorentino trecentesco di Dante, Petrarca e Boccaccio quale lingua letteraria valida per l’Italia intera, da Nord a Sud.

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San Carlo Borromeo (1538-1584)

Un’altra istituzione che adottò l’italiano, affiancandolo al latino come lingua ufficiale nei testi scritti, fu la Chiesa cattolica dopo il Concilio di Trento. Le prediche dei sacerdoti, i catechismi, le opere rivolte ai laici e alle monache furono scritti in italiano. Nella Milano di San Carlo Borromeo (1564-1584), 1478 insegnanti attivi nelle scuole delle confraternite laicali assicurarono un’istruzione gratuita a 12.455 scolari su una popolazione complessiva di 113.875 abitanti: un esempio di alfabetizzazione e di catechismo in italiano secoli prima dell’unificazione in una popolazione che parlava abitualmente in dialetto milanese. A partire del Cinquecento il volgare fiorentino (italiano) si affermò sempre più, a fianco del latino, quale lingua ufficiale usata dagli Stati italiani e dalla Chiesa cattolica.

Per queste ragioni, ritengo fondate le critiche dell’opposizione alla legge regionale sulla “lingua lombarda”. Condivido la proposta della consigliera Mainini di definire “dialetti lombardi” i sistemi linguistici esistenti entro i confini della Regione: un’espressione valida per il complesso dei dialetti parlati nell’Italia settentrionale.

Credo che la Regione Lombardia – assieme alle Regioni Piemonte, Liguria, Emilia-Romagna, Veneto – debba valorizzare i dialetti gallo-italici o padani che sono certo diversi dal toscano e dall’italiano centro-meridionale.

Inoltre si potrebbero intraprendere iniziative tese a valorizzare la toponomastica locale, magari integrando i nomi italiani con l’indicazione degli antichi toponimi ove questi fossero stati deformati o completamente soppressi dopo l’Unità. Pensiamo ad esempio al Comune di “Capovalle” in provincia di Brescia, così denominato dal regio decreto 27 ottobre 1907 n.464 perché l’antico nome del paese, “Hano”, venne  giudicato dal legislatore “trasparente e volgare”. Un provvedimento centralistico, deciso dall’alto, che non mostrò alcun rispetto per la storia del territorio.

I Comuni italiani (al Nord come al Sud) potrebbero condurre d’altra parte un’altra operazione importante. Dopo l’Unità in molti municipi si scelse di sopprimere le antiche denominazioni delle vie e delle piazze sostituendole con i nomi di eroi o di battaglie risorgimentali. Per promuovere la conoscenza storica dei luoghi, si potrebbe aggiungere una targa che riporti l’antica denominazione della via a fianco di quella esistente. A Milano per esempio via Torino, istituita dopo l’Unità d’Italia con delibera comunale del 12 settembre 1865, unificò ben quattro antiche strade: la contrada di San Giorgio al Palazzo, la contrada della Palla, la contrada della Lupa e la contrada dei Pennacchiari. Forse, in questo come in altri casi, si potrebbero aggiungere alcune targhe aggiuntive come avviene a Firenze o in altre città italiane.

Banca d’Italia: Lombardia in (lenta) ripresa nel 2015

Quando si afferma che la crisi ha segnato profondamente l’economia italiana, che non siamo ancora usciti dal tunnel, che la ripresa è minima, bisogna riconoscere che ci si muove spesso su percezioni della realtà settoriali, su impressioni che spesso ricaviamo dalle nostre relazioni o dalla conoscenza di alcuni eventi specifici di cui siamo venuti a conoscenza: l’azienda che chiude o licenzia, i giovani laureati che vanno all’estero, il flebile aumento del Pil previsto per quest’anno.

Qual è la situazione effettiva? Il Paese è in ripresa oppure è vero quello che si dice da più parti, ossia che arranchiamo ancora nella crisi? Uno sguardo sull’economia della Lombardia, conosciuta come la locomotiva del Paese, può forse aiutarci a capire di più.  Uno studio di Banca d’Italia apparso nel bollettino n.3/giugno 2016 dedicato alle analisi regionali fornisce un quadro definito su quanto avvenuto nell’anno passato.

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A sinistra, il palazzo della Banca d’Italia a Milano in via Cordusio 5 in una vecchia cartolina

I dati disponibili, relativi al 2015, confermano una ripresa per l’economia lombarda, il cui Pil è cresciuto dell’1,1%. Rispetto al dato nazionale, che è dello 0,8%, si tratta però di un aumento tenue.

Le aziende manifatturiere hanno registrato una crescita di fatturato che si è consolidata rispetto all’anno precedente. Su un campione di quasi 360 imprese industriali con almeno 20 addetti, il fatturato a prezzi costanti è aumentato del 3,3% rispetto al 2014, quando si era attestato a +0,7%. La produzione industriale è cresciuta nel 2015 dell’1,5% confermando il dato dell’anno precedente. Si tratta di un risultato positivo ma ancora insufficiente per recuperare il livello pre-crisi: basti ricordare a tal proposito che l’indice della produzione industriale è ancora sotto di 9 punti percentuali rispetto al picco del terzo trimestre 2007. Insomma, c’è ancora molta strada da fare per tornare ad essere competitivi.

I comparti che hanno registrato i migliori incrementi di fatturato nel 2015 hanno interessato le imprese del settore della gomma, dei mezzi di trasporto e della meccanica. In Lombardia – come nel resto del Paese – la crisi ha operato tuttavia una selezione feroce. Le aziende in difficoltà sono quelle che operano nei comparti tradizionali, che non sono riuscite ad innovare a sufficienza: operano nei settori dell’abbigliamento e del tessile, nel comparto dei minerali non metalliferi, ove è impiegata metà della forza lavoro totale nella manifattura.

Le imprese che son riuscite a resistere e ad espandersi guadagnando nuovi mercati sono invece quelle che hanno saputo investire in ricerca e sviluppo, aggiornando soprattutto i sistemi informatici e quelli di automazione. Molte di queste aziende usa sistemi quali internet mobile e Cloud, spesso introdotti da più di due anni. Le imprese che hanno mostrato maggiore vitalità sono quelle specializzate nel settore high-tech, situate in larga parte nella Città metropolitana di Milano e nella provincia di Monza e Brianza: si tratta in molti casi di aziende attive nel campo dei medicinali e della farmaceutica che danno lavoro a 20.000 persone. Si è stimato che per queste aziende il fatturato è cresciuto del 24,2% tra il 2007 e il 2014, registrando le migliori performance nel settore manifatturiero. Le vendite all’estero sono cresciute qui del 19,3% tra il 2013 e il 2014.

Incrementi positivi nel fatturato – ma ancora deboli – si sono registrati invece, secondo Banca d’Italia, nei settori industriali caratterizzati da una produzione a tecnologia medio bassa: ad esempio le aziende attive nella lavorazione dei metalli, dei prodotti chimici e della plastica. Il fatturato del 2014 è in questo caso lievemente superiore rispetto a quello del 2007 .

Dallo studio di Banca d’Italia emergono inoltre due dati importanti. Il primo si lega al mercato immobiliare, che nel 2015 è tornato ad espandersi dopo anni di contrazione. Il numero delle compravendite è aumentato del 9% ma resta ancora lontano dai livelli pre-crisi del 2006.

Expo 2015Il secondo dato verte sul terziario, che nell’anno preso in esame ha registrato una netta ripresa, soprattutto grazie ad Expo 2015. L’affluenza dei visitatori  nei sei mesi di apertura è stata pari a 21,5 milioni di persone. Le strutture alberghiere di Milano hanno registrato un aumento di clientela del 17,8% nel 2015, mentre in Lombardia è stato del 9,2%. Banca d’Italia – che cita in proposito l’indagine Travel condotta da Unioncamere Lombardia, CERST e Regione Lombardia – stima che i visitatori italiani hanno speso mediamente 150-200 euro pro-capite, mentre gli stranieri 250-300 euro. Relativamente a questi ultimi, si è stimato che un terzo è giunto in Italia appositamente per Expo, dedicando ad esso quasi quattro giorni di visita; il resto della permanenza in Italia ha premiato le principali città d’arte italiane: Venezia, Firenze, Roma. Expo ha quindi svolto una funzione di traino per la crescita del turismo in Italia. Gli stranieri hanno concentrato le loro spese nella Città metropolitana di Milano per una percentuale attestata sul 69,6%: a dimostrazione che l’Esposizione Universale ha contribuito in misura notevole alla crescita del turismo a Milano nel 2015.

Dal focus di Banca d’Italia emerge inoltre il grande ruolo che Expo 2015 ha avuto nell’economia lombarda: le imprese della regione si sono aggiudicate gli appalti nel 21% dei casi per la costruzione del sito (588 milioni di euro: fonte OpenExpo) e nel 52% per la fornitura di beni e servizi (216,5 milioni).

Nel sito della Esposizione Universale, ben collegato con Milano sul piano dei mezzi di trasporto, si pensa nei prossimi mesi di costruire Human Technopole, un parco tecnologico dotato di sette centri di ricerca attivi nei campi della genomica, della scienza dei dati, dei modelli computazionali, delle valutazioni di impatto sociale, delle nanotecnologie; un parco che potrebbe dare lavoro a più di 1500 addetti. Si tratta di un tema importante per Milano che dovrà essere affrontato dal prossimo sindaco, chiunque vinca le elezioni.

Un pittore russo in visita a Milano nel 1847

Il pittore Vladimir Jakovlev visitò l’Italia in un viaggio di sei mesi. Il suo itinerario si rifaceva alla grande tradizione del Gran Tour: un percorso lungo le maggiori città della penisola che i nobili, gli intellettuali, i letterati e i pittori stranieri effettuavano passando per Venezia, Bologna, Firenze, Roma, Napoli, Palermo.

Milano, come altre città della pianura padana quali Parma, Modena o Ferrara, non sempre erano ritenute meritevoli di visita. Ad esempio, il grande Goethe non visitò la città ambrosiana nel suo tour avvenuto nella seconda metà del Settecento, mentre il padre Johann Kaspar, grande giurista e fine intellettuale, ci era passato molti anni prima descrivendo minuziosamente la vita cittadina in alcune note del suo diario.

Desidero ricordare in questa sede il viaggio di Jakovlev perché il pittore visitò Milano alla fine del suo tour per l’Italia a pochi mesi dallo scoppio delle rivoluzioni liberali e nazionali del 1848. Giunto a Pavia, Jakovlev costeggiò in carrozza il naviglio pavese entrando a Milano da Porta Ticinese. Scrisse alcuni ricordi preziosi di quella visita nel volume pubblicato a San Pietroburgo nel 1855: Italija. Pis’ma iz Venecii, Rima i Neapolja. In questo articolo riporterò alcuni passi riguardanti Milano nella traduzione di Patrizia Deotto pubblicata nel numero della rivista Storia in Lombardia (Franco Angeli editore, Anno XXXIII, n.1, 2013).

Per un uomo la cui professione è dipingere sulla tela la bellezza di un paesaggio, la pianura milanese fu inizialmente una cocente delusione. Dopo la vista di città ricche di arte e di storia come Firenze o Roma – i cui monumenti, situati su alture o vicino ai colli, impreziosivano il paesaggio rurale circostante in una sintesi mirabile tra arte e natura – Milano non era fatta per affascinare subito. Il paesaggio, caratterizzato da una distesa sterminata di campi, gli apparve triste e monotono. Mancava la vista grandiosa della città.

Affaticato dall’uniformità della strada, mi aspettavo che Milano dispiegasse davanti ai miei occhi il suo panorama, ma Milano, da lontano, si presenta come una linea dentellata e nebulosa. Soltanto la guglia centrale della sua cattedrale biancheggia sulla cornice azzurrina delle montagne lontane. 

Riflessioni tinte di nero, che possono indurci a ritenere che Jakovlev non si trovò poi così bene a Milano. Dopo pochi passi, ecco però la sorpresa. L’atmosfera e il fascino della piccola Milano – popolata all’epoca da 140.000 abitanti – iniziarono ad incuriosirlo e ad attrarre gradualmente il suo interesse all’avvicinarsi verso la Darsena, lungo i Corpi Santi di Porta Ticinese. La prossimità alla città era annunciata dalla moltitudine di persone, dalle “carrozze all’ultima moda” che sfrecciavano lungo il canale.

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La Porta Ticinese medievale e il naviglio interno in un quadro di Pompeo Calvi (1850 ca)

Dopo aver varcato il naviglio interno all’incrocio tra le attuali vie De Amicis e Molino delle Armi, Jakovlev entrò nel cuore della città medievale. La vista delle antiche colonne di San Lorenzo gli si parò dinanzi improvvisa, affascinandolo grandemente:

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Le colonne di San Lorenzo in una incisione risalente alla fine del Settecento

Milano mi accolse, del tutto inaspettatamente, con l’antica gigantesca colonnata di un edificio sconosciuto, completamente distrutto. Questa è la più lunga fila di colonne che si sia conservata dell’epoca romana: i miei compagni di viaggio ne hanno contate sedici. Il marmo di questi fusti scanalati è coperto di muschio e ruggine; le foglie di acanto dei capitelli sono erose dal tempo, ma la bellezza del loro stile è evidente…

In queste riflessioni abbiamo l’impressione che Milano abbia sedotto Jakovlev come solo lei sa fare: anziché ostentare la sua bellezza affascinando il visitatore fin dall’inizio, la città si scopre a poco a poco, pian piano.

Oltrepassate le colonne, il pittore si recò verso l’Albergo Reale che si trovava nell’antica contrada dei Tre Re. La via, oggi scomparsa, era il proseguimento di via Speronari in direzione sud-est, verso l’attuale via Mazzini.

Diversamente dai turisti che si affidavano alle guide del luogo, Jakovlev preferì avventurarsi da solo per le vie cittadine alla ricerca di scorci paesaggistici. Questa è un’altra ragione per la quale le sue memorie rivestono uno straordinario interesse per gli storici di Milano. Ci sembra già di vederlo, mentre esce dall’albergo maledettamente curioso di conoscere i segreti della città.

Le vie del centro, quelle vicine al suo albergo, gli apparvero fin dall’inizio popolate da una vivace borghesia di artigiani e commercianti. Ancora nel primo Ottocento il quartiere vicino al Duomo rifletteva la sua antica anima medievale, un’anima mercantile ben testimoniata dalle vie: via Speronari, via Pennacchiari, via Mercanti d’Oro, via Borsinari, via Pescheria Vecchia, via Spadari, via Armorari, via Cappellari. La vita quotidiana di queste contrade era disordinata, ma vivace e affascinante ai suoi occhi:

Nelle vie strette e tortuose dei vecchi quartieri il chiasso e il movimento sono ancora più intensi. Il calderaio, il sarto, il rilegatore, il calzolaio lavorano in strada, chiacchierando tra di loro e con i passanti; le vicine iniziano la conversazione mattutina da una casa all’altra; i ragazzini proseguono i loro giochi ingenui, correndo tra le gambe dei passanti e spesso afferrando le falde degli abiti per nascondersi da qualche monello o dalla palla, che finisce per colpire la guancia di un venditore, intento a contrattare ad alta voce con un signore, affacciato alla finestra del quinto piano. Intanto le urla dei venditori e i richiami dei bottegai continuano ininterrotti.

Diversa l’aria che si respirava nelle vie ove si trovavano i palazzi della nobiltà milanese: erano alcune strade del centro, spesso vicine al naviglio interno. Quali potevano essere queste vie percorse da Jakovlev? Ad esempio in Porta Romana, via Rugabella ove si trovava il palazzo appartenuto nel Settecento a Clelia Borromeo o quello dei Trivulzio; via Sant’Antonio con il palazzo Greppi; via dei Nobili (oggi via Unione), su cui si affacciavano il palazzo Cicogna (oggi distrutto) e il palazzo Erba Odescalchi; in Porta Ticinese via Olmetto con la casa Archinto; via Borgonuovo con i palazzi Orsini e Perego in Porta Nuova; via della Cerva con il palazzo Visconti di Modrone in Porta Orientale il cui giardino – esistente tuttora – si affacciava sul naviglio interno…

Jakovlev notò il silenzio di queste nobili contrade. Le imposte chiuse alle finestre gli davano un senso di tristezza, ricordandogli le città abbandonate:

Nei quartieri aristocratici, quando batte il sole tutto il giorno, le persiane verdi delle finestre rimangono chiuse ermeticamente, il che conferisce alla strada un aspetto triste. In questi luoghi Milano sembra una capitale abbandonata: la magnificenza qui ha fatto amicizia con il silenzio.

Interessanti le annotazioni sulle case di Milano:

Le case qui non superano i tre o quattro piani e quasi tutte le finestre sono dotate di un balconcino di ferro, dove, quando non c’è il sole, compaiono fiori o giovani signore.

Il turista russo non mancava poi di soffermarsi sullo stile di vita dei milanesi, la cui distanza da altre città italiane lo colpì notevolmente. L’ordine pubblico, la pace, la tranquillità, il decoro urbano era molto simile a quello diffuso nelle altre città dell’impero asburgico di cui Milano faceva parte: da Praga a Vienna, da Budapest a Bratislava, da Trento a Trieste.  Le sue riflessioni riguardavano il vestiario, la sosta delle persone nelle vie ma anche la postura delle guardie davanti agli edifici pubblici, come mostrato dal caso dei granatieri ungheresi. Milano gli appariva ordinata, ben regolata nei suoi freddi costumi sociali.

In mezzo a questo turbinio della vita italiana, in mezzo a queste fisionomie mobili e a questo incessante chiacchiericcio, i granatieri ungheresi muti e immobili, che stanno di guardia agli edifici pubblici, con i loro colbacchi di pelo d’orso, sembrano delle cariatidi. Nelle vie di Milano c’è di gran lunga meno disordine poetico che nelle altre città italiane. Qui molto di rado vedrete qualcuno dormire sul selciato o sui gradini di una chiesa. In genere, non è permesso dormire per strada o fare la siesta in mezzo alla piazza, secondo l’abitudine napoletana. A maggior ragione, nessun povero osa sistemarsi a riposare negli atri, nei corridoi, sulle scale dei palazzi, come si usa a Napoli. Qui non si vede quell’abbigliamento meridionale eccessivamente leggero, costituito da una camicia e da pantaloni di tela olona che arrivano al ginocchio. Non si vede gente svestita in giro nemmeno nella stagione più calda e il pittore non troverà in Lombardia modelli gratuiti come sul molo di Napoli.

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Il Duomo adornato con paramenti per l’incoronazione di Ferdinando I di Asburgo a re del Lombardo Veneto il 6 settembre 1838.

Le notazioni più importanti riguardano il Duomo, che conquistò il pittore russo per il biancore dei marmi, l’infinito numero di guglie, le statue le cui forme plastiche riflettevano il fecondo connubio tra le linee severe dell’arte germanica – tipica del gotico – e la fine creatività dell’arte italiana. L’edificio era descritto come una creatura della natura fisica. I marmi, che risplendevano di un bianco acceso, quasi sfolgorante, gli sembravano partoriti dalle Alpi innevate.

Da lontano il Duomo è un fantastico palazzo, formatosi ai piedi delle Alpi con le nevi perenni del Montebianco. Quando vi avvicinate alle pareti di questo edificio abbagliante, intessuto di arabeschi, festoni, archi, ghirlande, popolato da migliaia di statue e vi persuaderete che è tutto marmo puro, dalla base massiccia ricoperta dal muschio dei secoli, fino alle graziose guglie gotiche, che biancheggiano nell’aria azzurra: in quel momento il meraviglioso edificio vi sembrerà favoloso.

Intere generazioni di scultori distribuirono su questi muri le loro fantasticherie. L’elemento plastico è talmente connaturato qui all’architettura che bisognerebbe dire che la cattedrale di Milano non è costruita ma scolpita nel marmo.

A colpirlo maggiormente fu la vista dalla terrazza della cattedrale, ove l’occhio poté spaziare a 360 gradi ammirando un panorama eccezionale. Le riflessioni negative svolte all’inizio vengono ora smentite da questa bella descrizione, inno commosso alla bellezza lombarda.

Finalmente salii sulla sottile, trasparente torre della cattedrale, intessuta di una trina di marmo, e sotto di me si dispiegò il brillante panorama della Lombardia. E’ un vero e proprio mare di verde costellato di città e di paesi con le loro torri bianche e rosse. In lontananza lungo tutto l’orizzonte si estende la catena delle Alpi: la linea ondulata delle nevi perenni luccica al sole, sfolgorante come oro fuso. Ecco i massicci del Rosa e del Sempione, dove la mia strada si snoda fra le cime che arrivano fin sopra alle nuvole; ed ecco al limitare della verde piazza d’armi biancheggiare anche l’arco di trionfo, da cui parte la strada del Sempione. Proprio davanti a me alza il suo capo canuto il San Gottardo; a sinistra, dietro alle cime, si intravedono i ghiacciai del Monte Bianco; a destra gli Appennini si fondono con le Alpi. Da qui si vede tutta l’enorme parete che separa la Lombardia dalla Germania. In lontananza, ai piedi di queste montagne, risaltano, azzurri come strisce d’acciaio, i poetici laghi: il Lago Maggiore, il Lago di Como, il Lago di Garda. L’aria è così tersa che distinguo perfino le cupole di Pavia e le alte torri di Torino. I dintorni di Milano sono ombreggiati da boschetti, solcati da viali, sembrano un grande parco inglese. Sotto di me si dispiega tutta la pianta della città con i palazzi e le cupole e le torri originali; vi scorgo il movimento, ma il rumore di quella vita giunge appena alle mie orecchie come il mormorio lontano del mare; in quel brusio si distingue chiaramente soltanto il suono delle campane…E poi il mio sguardo si perde di nuovo nel dedalo delle terrazze candide come la neve, delle scale, degli archi, dei pinnacoli, e io gironzolo di nuovo tra quella folla di gente di marmo che abita la cima della cattedrale. E’ una di quelle visioni che rimangono per sempre impresse nella memoria.

La strana cucina nella Milano ‘ancien régime’

L’Italia è famosa per i suoi piatti prelibati. Oggi però non voglio darti consigli sui ristoranti che fanno tendenza a Milano. Se vuoi sapere quali sono i locali in cui si mangia bene, ti consiglio di iscriverti alla mia newsletter.  Puoi trovare informazioni utili al riguardo.

In questo articolo desidero affrontare un tema afferente alla storia dell’alimentazione. Come si mangiava a Milano nel Medioevo o nel Sei-Settecento? Partiamo dalla nostra cucina: oggi si tende a separare i sapori sia nei singoli piatti che nelle portate dei pasti. Per noi un piatto deve essere dolce o salato. Questa usanza si affermò in Francia tra Sei e Settecento e si diffuse in Occidente nel XIX secolo. Nel Medioevo invece si tendeva a mischiare i sapori. I cibi erano cucinati in un miscuglio artificiale che faceva sentire nel palato un gusto completamente diverso rispetto al nostro. Perché si mischiava il dolce con il salato, il dolce con il piccante? Secondo i costumi di quei tempi, si riteneva opportuno che le pietanze contenessero il maggior numero di sapori per essere adeguatamente nutrizionali. Il gusto per l’agrodolce, ottenuto mediante l’immissione dello zucchero negli agrumi, era tipico del Medioevo.

Oggi in Europa son rimaste le tracce di quella concezione culinaria. Lo riscontriamo nella cucina dell’Europa del Nord o in alcuni paesi dell’Europa dell’Est: se ordiniamo un piatto di carne o di pesce, ci accorgiamo che viene guarnito con confetture di mirtilli o marmellate di pere. Questo tipo di cucina medievale durò molto tempo a Milano. In alcune zone del Nord Italia esso è tuttora diffuso: si pensi ad esempio in Lombardia all’uso di accompagnare le carni con la mostarda. In origine la mostarda era una salsa in cui il piccante delle spezie era unito al sapore dolce dello zucchero.

Un altro dato su cui riflettere. Contrariamente a quel che si può pensare, la cucina medievale era molto povera di grassi. Le salse, cui si faceva largo ricorso, erano ottenute mischiando componenti acidi: vino, aceto, succhi di agrumi o di uva acerba erano usati in composti fatti di molliche di pane, fegato, mandorle, noci, tuorli d’uova. Insomma, se con la macchina del tempo fossimo “teletrasportati” nella Milano del Seicento, magari nel banchetto allestito da una nobile famiglia, non aspettiamoci di trovare salse grasse come la maionese, la besciamella e tutti quei composti che, diffusi lentamente nel corso del Settecento, si affermarono in Europa tra Otto e Novecento.

Un’altra differenza rispetto alla nostra cucina risiedeva nel tipo di portate che venivano servite. Noi oggi presentiamo in ordinata successione le stesse portate a tutti i commensali. Questa usanza, conosciuta come “servizio alla russa”, si affermò in Europa solo nella seconda metà dell’Ottocento. Prima l’uso era ancora quello – di origine medievale – di servire i piatti per così dire “in contemporanea”: toccava ai commensali scegliere i cibi che preferivano. Un po’ come si usa oggi in Cina, in Giappone o nei buffet, anche se a quel tempo non esisteva certo quella concezione “egalitaria” per cui l’accesso ai cibi è aperto a tutti i partecipanti.

Allora esistevano varie tipologie di piatti ed ogni persona mangiava le pietanze previste per il suo ceto di appartenenza. La nobiltà ad esempio consumava quasi sempre carne o pesce, ma lo faceva spesso in modo esagerato perché era un segno di status. Nel XV secolo Malatesta Baglioni, capitano generale dei fanti della repubblica veneta, offrì a Crema due pranzi faraonici che si protrassero per tre giorni: il primo era composto di 1438 vivande, tra le quali colpiscono piatti che oggi ci sembrano a dir poco artificiali: ad esempio il pollo cotto nello zucchero e bagnato nell’acqua di rose; il secondo, a base di pesce, presentava ‘solo’ 650 piatti assortiti nelle più ricche variazioni. Un vero supplizio per i convitati!! I ceti popolari ricorrevano ai legumi o ripiegavano su piatti quali la luganiga (carne tritata di maiale, condita con sale, sostanze vegetali aromatiche e inserita dentro le intestina di agnello) o la cervellata (composto di scarti porcini o di rognoni di manzo tritati, salati e misti con cacio lodigiano).

Nella seconda metà del Quattrocento era molto conosciuto in Europa il ricettario di Bartolomeo Sacchi detto “il Platina” (il soprannome latino indicava il paese di origine: Piadena nel cremonese): il De honesta voluptate et valetudine. Eppure, a ben vedere,  il contenuto di questo testo non era farina del sacco del Platina. Il ricco elenco di ricette riprendeva l’opera del maestro Martino de Rossi, un esperto di cucina originario della val di Blenio, territorio che a quell’epoca era parte integrante del ducato di Milano. Martino viaggiò nei vari Stati italiani: fu al servizio della corte milanese di Francesco Sforza, cucinò a Roma per i pontefici, ritornò a Milano per deliziare il palato del suo nuovo datore di lavoro: il condottiero milanese Gian Giacomo Trivulzio il cui palazzo, oggi scomparso, era in via Rugabella, nel sestiere di Porta Romana.

Il libro di Martino, De arte coquinaria è una fonte preziosa perché le sue ricette, diffuse alla fine del Medioevo, continuarono ad essere praticate nella cucina italiana fino al Seicento e al primo Settecento. In fondo, può essere considerato l’antenato dei manuali gastronomici italiani. La pasta era presentata per la prima volta come un piatto a sé stante; comparivano nuovi elementi destinati ad avere larga fortuna: ad esempio la polpetta e la frittella. Inoltre faceva la sua prima apparizione la melanzana.

20 aprile 1814: la rivoluzione dei lombardi per uno Stato indipendente nella valle padana

La crisi politica ed economica in cui versa l’Unione Europea sembra rafforzare i movimenti nazionalisti ed indipendentisti che si stanno formando un po’ ovunque nel Vecchio Continente. In Italia i movimenti orientati a promuovere l’indipendenza delle piccole patrie sono divisi nei programmi e nelle idealità. Gli indipendentisti veneti vorrebbero uno Stato veneto, altri invece aspirano a costituire uno Stato padano formato dall’unione delle regioni del Nord Italia. Beppe Grillo, che di tutto può essere accusato fuorché di nazionalismo, sembra voler proporre ai suoi elettori l’uscita dello Stato italiano dall’Unione monetaria. I partiti nazionalisti si spingono addirittura sino a chiedere l’uscita dell’Italia dall’Unione europea.
Nel constatare l’eterogeneità di tali posizioni, il mio pensiero corre ai giorni convulsi dell’aprile 1814 quando, in una crisi europea seguita alla dissoluzione del dominio napoleonico, i lombardi furono protagonisti di un moto rivoluzionario che assunse una notevole importanza nel panorama delle rivolte antifrancesi. Anche in quei frangenti le posizioni dei partiti in cui si articolava l’opinione pubblica a Milano erano assai diverse, inconciliabili fra loro perché nemiche irriducibili sul piano politico.
Nel mio libro (Gabriele Coltorti, I lombardi contro l’Italia di Napoleone, “Quaderni Padani” 99-100, San Marino, Il Cerchio 2012) ho mostrato come la rivoluzione scoppiata a Milano il 20 aprile 1814 causò il crollo del regime napoleonico nella città del Duomo portando al governo dello Stato – sia pure per breve tempo (dal 20 aprile al 25 maggio 1814) – una classe politica di nobili e notabili lombardi determinati ad ottenere l’indipendenza di un regno limitato a una parte della Padania centro-occidentale. Le soluzioni dei rivoluzionari erano tuttavia assai diverse tra loro. Tale Stato poteva ricondursi al vecchio principato regionale visconteo-sforzesco comprendente la Lombardia ma esteso al Novarese, all’Alessandrino e al Genovesato (soluzione caldeggiata dalla nobiltà milanese più tradizionalista) oppure poteva consistere in uno Stato padano-italico esteso alla Lombardia e al Novarese, ma anche ai territori cispadani di Parma, Piacenza, Modena, Reggio e alle Romagne (posizione sostenuta dal ceto medio della burocrazia, dalla borghesia e dalla nobiltà tiepidamente liberale). E’ peraltro significativo che la classe politica napoleonica, contro la quale fu compiuta la rivoluzione, puntasse in fondo ad obiettivi simili sul piano territoriale: le istruzioni rilasciate dai funzionari napoleonici agli ufficiali in missione all’estero insistevano sull’indipendenza di uno Stato cisalpino limitato alla Lombardia, al Novarese, ai territori ex estensi di Modena e Reggio e alle ex legazioni romagnole di Ferrara, Bologna e Ravenna. In tali documenti non si parlava affatto di Italia unita; neppure di rivendicazioni estese al Veneto e al Friuli, ormai acquisiti dagli austriaci in via definitiva.
Perché le cose non funzionarono? Il governo napoleonico chiedeva uno Stato indipendente governato dal principe Eugenio Beauharnais, il figliastro di Napoleone che da nove anni aveva governato il regno italico per conto del patrigno. Una frangia considerevole di rivoluzionari aspirava invece ad uno Stato governato da un principe che non fosse riconducibile in alcun modo ai napoleonidi, tale era l’odio che i lombardi nutrivano verso il regime di Bonaparte. Questa diversità di vedute fu radicale, foriera di uno scontro autenticamente politico (laddove “politico” è qui inteso nel significato schmittiano di “opposizione radicale tra fazioni, lotta all’ultimo sangue”): quando scoppiò a Milano il tumulto popolare, per tre giorni (20-21-23 aprile) ebbe luogo una guerra civile nel corso della quale la fazione dei funzionari napoleonici fedeli al viceré fu travolta dalla ferocia dei rivoluzionari. La violenza di tale scontro, ma soprattutto l’assenza di un gioco di squadra tra le fazioni furono decisivi nel portare al fallimento dei progetti indipendentisti.
20 aprile 1814: il palazzo del ministro Prina saccheggiato dai milanesi.
Qualcuno potrebbe chiedersi quale importanza potesse avere a quel tempo il Regno d’Italia napoleonico governato da Napoleone e dal viceré Eugenio Beauharnais. Milano in quegli anni era capitale di uno Stato che, quantunque soggetto al dominio francese, si estendeva a una parte significativa della valle padana, comprendendo il Novarese, la Lombardia, il Modenese e il Reggiano, le Romagne, il Veneto, il Trentino, il Friuli e le Marche. In fondo Napoleone, il despota Napoleone accusato di aver saccheggiato i territori conquistati drenando risorse e traendo carne da macello per i suoi eserciti con lo strumento della coscrizione obbligatoria, aveva contribuito in modo non trascurabile al risveglio delle nazioni oppresse. Ai polacchi – il cui territorio, fagocitato da Russia, Prussia e Austria, era scomparso alla fine del Settecento dalla carta geopolitica dell’Europa – aveva garantito uno Stato, il granducato di Varsavia, che, quantunque limitato nella sua stessa estensione rispetto all’antico regno di Polonia, costituiva un esempio tangibile di Stato nazionale basato su principi opposti rispetto a quelli seguiti dalla fredda diplomazia delle cancellerie settecentesche.
Nella penisola italiana la repubblica cisalpina – divenuta repubblica italiana e, dal 1805, regno d’Italia – costituiva un altro esempio di Stato poggiante su basi “nazionali”. Questo regno costituì in effetti per tanti patrioti il primo passo verso l’unificazione della penisola. Eppure, a ben vedere, nella sua fondazione era possibile riconoscere il tentativo, compiuto da Napoleone, di riesumare l’antico regno italico di origine longobarda che, a partire dalla metà del VII secolo per arrivare sino al X-XI secolo, si era esteso a larga parte della pianura padano veneta e della Toscana. Faceva eccezione la città di Venezia, antico dominio di origine bizantina, che i longobardi non riuscirono mai a piegare. Nel 774 il regno italico longobardo venne conquistato dai franchi di Carlo Magno, i quali – in linea con le consuetudini medievali – conservarono il diritto e le strutture istituzionali fissate dai longobardi; difatti Carlo Magno – come i suoi successori – non governò il regno italico-longobardo come re dei franchi, bensì come re d’Italia: l’Italia longobarda, presto divenuta “Lombardia”, estesa a larga parte della Padania. La cerimonia dell’incoronazione mediante l’impiego della corona ferrea rivestiva una funzione di legittimazione presso il popolo lombardo. Nonostante la frammentazione politica cui andò soggetto il regno italico di origine longobarda nei secoli del Basso Medioevo – il che portò , com’è fin troppo noto, alla formazione degli Stati cittadini e delle Signorie feudali – la cerimonia dell’incoronazione continuò ad essere tenuta nella basilica milanese di Sant’Ambrogio fino al XVI secolo segnando una continuità con la tradizione medievale.
Ora, tornando al regno d’Italia napoleonico, varrà la pena ricordare che negli anni della sua massima estensione politica (1810-1813) esso occupava una parte considerevole della valle padana fino ad includere le Marche ex pontificie. Diverso il caso di territori quali l’Umbria, la Toscana, il Lazio e la parte restante della Padania occidentale (l’ex ducato di Parma e Piacenza, la Liguria e quasi tutto il Piemonte), annessi all’Impero francese e amministrati con prefetti nominati da Parigi. Nel Sud Italia Napoleone aveva lasciato intatto quel che restava del Regno di Napoli, riconoscendo l’irriducibile diversità di quelle terre rispetto alla parte centro-settentrionale della penisola. Affidò il governo del Mezzogiorno continentale al fratello Giuseppe Bonaparte e, dal 1808, al cognato Gioacchino Murat.  
Al Nord il Regno d’Italia con capitale Milano non riprendeva del tutto i confini dell’antico Regnum Italiae longobardo ma non è azzardato ritenere che Napoleone intendesse richiamare idealmente la tradizione storica dell’antico regno medievale. Basti pensare all’incoronazione di Bonaparte a re d’Italia avvenuta nel Duomo di Milano il 26 maggio 1805: ecco comparire di nuovo la corona ferrea, scelta non casuale perché segnava una certa continuità con la tradizione del Regnum Italiae longobardo. Non diversamente dai polacchi, Napoleone aveva quindi dato ai lombardo-italici un piccolo Stato nazionale in cui potessero riconoscersi, guardandosi tuttavia dall’unire la Padania sotto un solo regime politico istituzionale.
La storiografia risorgimentale ritiene che Bonaparte abbia ostacolato la formazione di uno Stato nazionale esteso dalle Alpi alla Sicilia perché lo giudicava una minaccia per gli interessi francesi. Io penso che, più verosimilmente, egli ritenesse naturale la divisione secolare della penisola. Occorreva ai suoi occhi semplificare la carte geopolitica, riducendo il numero degli Stati senza mettere in discussione le storiche fratture esistenti tra le tre Italie: l’Italia padano-italica di origine longobarda; l’Italia romano-fiorentina  radicata nell’eredità classica che le avevano lasciato il Rinascimento e il Papato romano; il Regno di Napoli depositario della grande tradizione sveva che ne aveva fatto un Reame poggiante su un peculiare senso di nazionalità venuto a delinearsi sotto la monarchia angioina, aragonese, ma soprattutto nei secoli del vicereame spagnolo e del governo borbonico.

Nella valle padana il Regno d’Italia napoleonico costituì il tentativo di costituire una nazione lombardo-italica in ideale continuità con l’antico Regnum ItaliaeLangobardorum. Questo non significa che mancassero a Milano patrioti sensibili al tema dell’unità della penisola. Basti ricordare, per fare alcuni esempi, alle poesie di Ugo Foscolo oppure ai progetti editoriali finanziati dal governo: indicativi in proposito i volumi degli Scrittori classici italiani di economia politica (1803-1816) diretti dal giacobino Pietro Custodi ove erano raccolte le opere di famosi economisti italiani vissuti in ogni parte d’Italia. Pensiamo ancora ai patrioti napoletani che operarono a Milano durante la repubblica e il regno d’Italia e fornirono un contributo importante al rinnovamento culturale della città: Vincenzo Cuoco, Francesco Lomonaco, Francesco Saverio Salfi per citarne solo alcuni. L’ideale di uno Stato nazionale italiano esteso a tutta la penisola, sulla cui formazione i patrioti meridionali esuli a Milano ebbero un ruolo importante, rimase tuttavia limitato a una ristretta minoranza  della classe dirigente italica.

Tornando alla rivoluzione del 20 aprile 1814, il dato significativo è che a Milano – capitale, come si è accennato, di un vasto Stato padano –  quasi tutti lavorassero concretamente per l’indipendenza. Perfino i funzionari italici più fedeli al viceré Beauharnais, chiedevano un regno sottratto al dominio francese. Erano persone come il cancelliere guardasigilli e duca di Lodi Francesco Melzi d’Eril, il ministro delle finanze Giuseppe Prina, il ministro dell’interno Luigi Vaccari: tutti uniti nel chiedere l’indipendenza di un regno limitato a una parte della valle padana e governato dal principe Eugenio.
Questo partito, il partito della “cabala” come era definito sprezzantemente dai nobili municipalisti avversi al regime napoleonico, era nettamente minoritario a Milano. Per certi versi fu un peccato: si trattava infatti dell’unico movimento in grado di sostenere la battaglia per l’indipendenza al congresso di Parigi. In quel fatidico aprile del 1814, il viceré resisteva valorosamente con il suo esercito contro gli austriaci dilagati in Veneto fino al Mincio. Il 16 aprile a Schiarino Rizzino, un castello non molto distante da Mantova, il Beauharnais aveva firmato con l’Austria un armistizio in base al quale gli veniva riconosciuto il diritto di inviare a Parigi una deputazione per sostenere i suoi diritti sul trono di Milano. Tale missione fu affidata ai generali Achille Fontanelli e Antonio Bertoletti, i quali partirono subito per la Francia. Il senato del regno italico, un collegio rappresentativo con poteri prevalentemente consultivi, scelse di inviare due deputati tiepidamente filonapoleonici come Luigi Castiglioni e Diego Guicciardi, i quali tuttavia non poterono raggiungere la capitale francese per lo scoppio della rivoluzione. Se la deputazione avesse avuto i poteri necessari per operare a Parigi per conto del vicerè, non sarebbe stato difficile ottenere il riconoscimento del Beauharnais come re d’Italia al posto di Napoleone, ormai esiliato all’isola d’Elba. Egli godeva infatti della potente amicizia dello zar Alessandro I. Era inoltre legato da un vincolo familiare al re di Baviera Massimiliano I di Wittelsbach avendone sposato la figlia Amalia Augusta. Gli eventi assunsero una piega diversa. Il partito della “cabala”, quantunque fosse in grado di riscuotere alcuni consensi nell’Europa delle corti, era oggetto di un odio feroce da parte della popolazione lombarda che il 20 aprile non esitò a insorgere facendo la rivoluzione.    
Duramente provati dall’elevata tassazione che Napoleone aveva imposto al regno per finanziare le guerre francesi, sconvolti dalla morte di tanti giovani sui campi di Russia e di Germania che avevano militato valorosamente nella Grande Armée, i rivoluzionari lombardi volevano la fine del regime napoleonico. Quanti avevano aiutato il despota francese a sfruttare il popolo prestando servizio in posti di responsabilità nella burocrazia (ministri e direttori generali) furono cacciati. Ad essere colpiti furono principalmente i ministri del governo e non pochi funzionari della pubblica amministrazione. Nel mio lavoro ho dimostrato che gli impiegati pubblici modenesi e reggiani furono i più odiati dai lombardi per la loro fedeltà al regime napoleonico. La reazione colpì tuttavia quasi tutti i funzionari che erano stati ligi a Napoleone, anche quanti potevano vantare origini lombarde, venete o addirittura novaresi come il ministro delle finanze Giuseppe Prina: la feroce uccisione di questo funzionario, linciato dalla folla milanese con i puntali delle ombrelle, è descritta nel libro in modo approfondito sulla base di alcuni documenti risalenti a quell’epoca.
La stragrande maggioranza dei rivoluzionari lombardi si divideva sostanzialmente nei due partiti che si sono accennati all’inizio. Il primo raccoglieva i “cisalpini”: uomini appartenenti al ceto medio burocratico, alla borghesia lombarda del commercio e dell’artigianato, i quali chiedevano l’indipendenza di uno Stato esteso a larga parte della valle padana centro-occidentale. Come il partito dei funzionari fedeli al Beauharnais, essi aspiravano quindi a uno Stato padano italico. Diversamente dagli uomini del cessato governo italico, questi lombardi chiedevano tuttavia che il regno fosse governato da un sovrano non appartenente alla dinastia napoleonica. Erano disposti a sostenere la candidatura di un principe di casa d’Austria il cui potere fosse limitato da una Costituzione disegnata sul modello inglese o sulla falsariga di una Costituzione moderata ispirata alla Carta francese del 1791. Varrà la pena ricordare tra gli esponenti più importanti di questo movimento il cremonese Gaetano Pietro Cadolino, il comasco Ludovico Giovio.
Il secondo partito era formato invece dalla nobiltà lombarda più tradizionalista, la quale aveva colto nel crollo del regime napoleonico una straordinaria opportunità per rifondare uno Stato assai vicino all’antico principato regionale visconteo-sforzesco ad egemonia patrizia: lo Stato che si era venuto formando nei secoli della dominazione spagnola e nei primi cinquant’anni del XVIII secolo, nel primo periodo della dominazione austriaca. Questa nobiltà (Luigi Carlo Rasini, Alfonso Castiglioni, Giacomo Mellerio) chiedeva un regno indipendente limitato all’incirca all’attuale regione Lombardia, alla Liguria, all’alto e basso novarese, a una parte dell’alessandrino: un territorio quest’ultimo che si rendeva necessario per congiungere il Genovesato con il Milanese. Aspiravano anch’essi a un regno governato da un principe di casa d’Austria, ma era importante che l’assetto costituzionale del potere riprendesse  i peculiari moduli di governo della società d’ancien régime: la gestione dell’amministrazione pubblica doveva essere esercitata in una sorta di regime a mezzadria tra la burocrazia professionale del monarca e la nobiltà locale. Tale partito era ben presente in seno al governo provvisorio succeduto a quello napoleonico.
Occorre inoltre ricordare che, tra quanti parteciparono alla rivoluzione, c’era una piccola frangia di patrioti italiani i quali, a voler prendere in esame le loro rivendicazioni sul piano geopolitico, possono considerarsi gli antenati degli attuali paladini dell’Unità d’Italia. Erano uomini assai vicini alla massoneria e alle prime sette carbonare, i quali si battevano per un regno esteso a gran parte della penisola, governato dal re di Napoli Gioacchino Murat.
Quando i rivoluzionari lombardi conquistarono il governo dello Stato in seguito alla rivolta popolare del 20 aprile fu inviata al congresso delle potenze alleate una nuova deputazione in sostituzione di quella napoleonica per ottenere il riconoscimento di uno Stato indipendente in una parte più o meno estesa della Padania centro-occidentale. Tali piani furono destinati al fallimento: il viceré Eugenio, amareggiato per l’odio che i lombardi nutrivano nei suoi confronti, sconvolto per la feroce uccisione del ministro Prina, firmò un trattato con l’Austria (capitolazione di Mantova: 23 aprile 1814) con il quale cedeva all’Impero asburgico quel che restava del regno italico nonché le stesse piazzeforti che ancora resistevano valorosamente al nemico. Gli austriaci si videro consegnare su un piatto d’argento quel che restava del regno italico, senza colpo ferire. Con tale atto di diritto internazionale il viceré non solo rinunciò ai suoi piani per succedere a Napoleone come re d’Italia; compromise gli stessi programmi dei rivoluzionari, i quali non poterono più contare su un esercito “nazionale” con cui far valere materialmente l’indipendenza dei territori lombardi. Come scrisse da Parigi il patrizio milanese Federico Confalonieri alla moglie Teresa Casati, “noi siam venduti”.
TITOLO: I Lombardi contro l’Italia di Napoleone. La battaglia perduta per uno Stato indipendente in Padania AUTORE:  Gabriele Coltorti; EDITORE: San Marino: Il Cerchio, 2012; PAGINE: 112