La giustizia nella Milano di ancien régime

Come veniva istruito un processo nella Milano d’antico regime, nel Cinque o nel Seicento? Noi oggi siamo legati a una concezione per la quale nel processo non si fa altro che applicare la legge secondo un codice di norme definito, emanato dallo Stato di diritto. Nell’Europa dell’antico regime – vale a dire nel periodo storico anteriore alla rivoluzione francese e all’età delle codificazioni – il sistema era profondamente diverso. Nello Stato di Milano tra il XVI e il XVIII secolo la giustizia era per lo più una prassi, una pratica quotidiana compiuta dai giudici che non solo informavano le sentenze in base alle norme secolari del diritto comune, del diritto ducale e municipale, ma si fondavano anche sulla communis opinio, vale a dire sulle sentenze dei giudici che in passato si erano espressi su casi analoghi.

Probabile ritratto di Virginia de Leyva, la monaca di Monza (1575-1650)
Probabile ritratto di Virginia de Leyva, la monaca di Monza (1575-1650)

Non vi erano sostanziali differenze tra il processo istruito dai tribunali ecclesiastici e quello dei tribunali secolari. In fondo, il sistema di giustizia dei poteri laici aveva molte affinità con quello ecclesiastico istruito secondo il diritto canonico.  Il processo era di tipo inquisitorio, in gran parte scritto e non consentiva all’imputato la scelta di un difensore che potesse bilanciare efficacemente l’accusa come avviene oggi. Ettore Dezza – che ha studiato un caso importante di giustizia ecclesiastica milanese: il celebre processo contro la monaca di Monza istruito tra il 1607 e il 1609 – ha rilevato come la giustizia penale fosse amministrata nel ducato di Milano da un apposito tribunale presieduto da un vicario criminale appositamente delegato dall’arcivescovo. Il vicario era un giurista, laureato in utroque iure (in diritto canonico e diritto comune). Questo giudice non operava da solo. Era coadiuvato da una squadra composta dall’avvocato fiscale, da alcuni attuari e cancellieri. L’avvocato fiscale era incaricato di tutelare gli interessi del fisco qualora la sentenza arcivescovile avesse stabilito una pena come ad esempio la confisca dei beni. Il vero protagonista era però il vicario criminale: era lui che istruiva il processo a carico dell’imputato. Prima di emanare la sentenza, conferiva con l’arcivescovo per il necessario via libera alla pubblicazione della condanna o dell’assoluzione.

Un altro interessante elemento di diversità era costituito dalla funzione delle carceri. Diversamente dalle nostre società, ove le prigioni sono luoghi ove si sconta la pena, le carceri a quei tempi detenevano una funzione che potremmo definire “preventiva”: vi erano rinchiusi gli imputati per evitare che sfuggissero dalle “mani” della giustizia. Se togliamo le condanne a morte, le pene erano di natura corporale o pecuniaria. Nel primo caso era prevista la galera, intesa nel senso originario del termine, vale a dire di “condanna a remare nelle galee”: il condannato, consegnato alle autorità della repubblica di San Marco o della repubblica di Genova, era impiegato ai lavori forzati da scontarsi per un certo numero di anni a bordo delle navi appartenenti alle flotte di questi Stati.

Nello Stato di Milano di antico regime i conflitti di competenza erano molto diffusi per la molteplicità delle istituzioni religiose e secolari che potevano intervenire in casi che rientravano nel loro ambito giurisdizionale. I tribunali dell’arcivescovo, soprattutto all’epoca di San Carlo Borromeo ma anche nel corso del Seicento, entrarono spesso in conflitto con le istituzioni del ducato di Milano: dal Senato alle altre magistrature secolari. Ulteriori conflitti insorgevano tra il tribunale dell’inquisizione romana, i tribunali dell’arcivescovo o il già citato Senato in casi speciali quali il possesso di libri proibiti o gli atti di stregoneria.

Alfonso Litta, arcivescovo di Milano dal 1652 al 1679
Alfonso Litta, arcivescovo di Milano dal 1652 al 1679

Un altro caso interessante di giurisdizione ecclesiastica è quello che ho preso in esame nel mio libro, G. Coltorti, Via Filodrammatici prima di Mediobanca, Scalpendi Editore, Milano 2015. Donna Giustina Riva venne uccisa il 27 dicembre 1657 dal marito, il colonnello don Filippo Leyzaldi per ragioni di adulterio. Si trattava di un caso di uxoricidio abbastanza comune all’epoca, per il quale la normativa municipale, riconosciuta dal Senato di Milano, stabiliva l’assoluzione dei mariti in caso di flagrante adulterio. Qui è interessante notare come il tribunale incaricato di istruire il processo fu la curia ambrosiana perché don Leyzaldi era membro dell’ordine religioso militare di San Giacomo (San Jago) della Spada. In base a un criterio che potremmo definire ratione personam, il colonnello spagnolo fu giudicato in prima istanza in base alla sua appartenenza a un ordine religioso. A Milano l’autorità che esercitava la funzione di giudice per l’ordine di San Giacomo era l’arcivescovo Alfonso Litta.

Il vicario criminale Giuseppe Rastelli, con sentenza risalente al 1658, stabilì l’assoluzione del colonnello spagnolo ma i familiari dell’uccisa non si arresero. La sorellastra di Giustina, Fulvia Anolfi e il padre di questa, il senatore Francesco Perpetuo, fecero ricorso. Si appellarono non già al Senato di Milano ma a un tribunale spagnolo, al Sacro Consiglio del Re delle Spagne, la cui sentenza nei confronti dell’uxoricida, spiccata quattro anni dopo, fu di condanna pecuniaria e di esilio dallo Stato di Milano.

via filodrammatici copertinaCi troviamo quindi di fronte a due tipi di processo: il primo, quello arcivescovile, di natura per così dire ecclesiastica, istruito nei modi che si sono ricordati; il secondo di natura “secolare”, anche se il carattere confessionale della monarchia spagnola rinviava certamente al sovrano asburgico quale supremo capo dell’ordine spagnolo di San Jago, un ordine che era di tipo sia religioso che militare.

Se desideri approfondire questa vicenda, puoi trovare alcuni spunti interessanti nel mio libro.  Buona lettura 🙂

Il Duomo nella Milano napoleonica

Alla fine del Settecento la facciata del Duomo di Milano era ancora incompiuta. Una parte dei lavori era iniziata nella seconda metà del XVI secolo quando San Carlo Borromeo diede incarico a Pellegrino Tibaldi, detto Pellegrini, di costruire alla ‘romana’, vale a dire in uno stile che si allontanasse dal gotico cui era informato il resto della cattedrale. Alcuni portali erano stati edificati ma le operazioni avevano subito nuove interruzioni. Nella prima metà del Seicento un altro architetto della Milano barocca, Francesco Maria Ricchini ultimò le finestre a timpano (oggi visibili sopra i portali). Nel corso del XVIII secolo i lavori erano però assai lontani dal concludersi. Ci si era concentrati soprattutto sulla parte superiore del Duomo: risale al 1769 la guglia centrale con la celebre Madonnina, opera di Francesco Croce. Per la facciata le opere erano ancora in alto mare. Si pensi che a quell’epoca neppure i portali potevano dirsi compiuti.

Edward Gibbon, nel corso di un viaggio compiuto a Milano nel 1764, non nascondeva la sua delusione alla vista di una facciata tanto “meschina”:

Dal_Re,_Marc'Antonio_(1697-1766)_-_Vedute_di_Milano_-_09_-_Il_Duomo_-_ca._1745
La facciata incompiuta del Duomo di Milano in una celebre veduta di Marc’Antonio Dal Re risalente al 1745

Siamo andati a vedere la chiesa. L’esterno non mi ha fatto nessun effetto. Per prima cosa si vede un portale incompiuto; è estremamente ornato ma sembra appena grande quanto basta per un edificio così immenso.

Il periodo napoleonico segnò una svolta. Il decreto dell’8 giugno 1805 ebbe un ruolo decisivo. Esso introduceva una razionalizzazione nel campo degli ordini regolari riducendo il numero di conventi e monasteri nel territorio del regno italico. Lo Stato ne avrebbe incamerato i beni ma alcuni di questi sarebbero stati venduti per reperire risorse pari a cinque milioni di lire milanesi da destinare, come recitava l’articolo 34, “al compimento del Duomo di Milano”. L’articolo 35 stabiliva inoltre che la Fabbrica del Duomo – l’istituzione che da secoli era chiamata a dirigere i lavori di costruzione – avrebbe venduto un numero d’immobili sufficiente ad affrontare le prime spese; spese che il decreto stimava non inferiori al milione e duecento mila lire milanesi.

Napoleone_Bonaparte_re_d'Italia
Napoleone con il costume e la corona ferrea di re del Regno italico (1805)

Pochi anni dopo, un decreto imperiale del 20 febbraio 1810 attribuiva al ministro delle finanze Giuseppe Prina il compito di assegnare alla fabbrica del Duomo un complesso di beni immobili pari a due milioni di lire italiane (corrispondenti all’incirca alle due milioni e duecento mila lire milanesi previste dal citato decreto dell’8 giugno) per consentire alla fabbrica di far fronte in via immediata alle spese di costruzione.

I lavori, affidati inizialmente a Giuseppe Zanoia, passarono presto sotto la direzione dell’architetto Carlo Amati, che li portò a termine nel giro di due anni. Nel 1812 un opuscolo anonimo dedicato al Duomo di Milano, L’Ottava Meraviglia del Mondo osservata nel Duomo di Milano in occasione dell’ora compiuta facciata (stampato dalla tipografia Pulini in contrada del Bocchetto, vicino alla Borsa degli Affari nel sestiere di Porta Vercellina) poteva celebrare il compimento dell’opera inneggiando a Napoleone re d’Italia e imperatore dei francesi:

Questo insigne tempio rimasto sarebbe per avventura  tuttora imperfetto se la mano benefica di Sua Maestà Imperiale e Regia data non gli avesse quella provvida spinta per la quale ha potuto giugnere al suo più alto compimento.

Proseguendo in tono enfatico, l’autore del piccolo opuscolo tesseva ancor più le lodi di Napoleone, le cui gesta – in linea con la retorica del regime diffusa a quell’epoca – erano poste sullo stesso piano della civiltà greco romana:

E se i Greci ed i Latini per rendere immortale la fama de’ loro eroi, e le epoche gloriose delle loro nazioni innalzavano marmorei e grandiosi edifizj, potrà il nostro Duomo egualmente essere considerato come un perpetuo monumento della gloria e della munificenza di questo grande Monarca, e tramandare ai più tardi posteri la memoria di un sì grande avvenimento.

Pochi anni dopo, nella Milano tornata sotto il dominio austriaco nei primi anni della Restaurazione, Stendhal poteva mirare il Duomo scintillante di marmo bianco evocando lo spirito dell’amore.

Duomo-di-Milano-sera5 novembre 1816. Tutte queste sere, verso l’una di notte, sono tornato a vedere il Duomo di Milano. Illuminata da una bella luna, la chiesa offre uno spettacolo incantevole ed unico al mondo. […] Alle persone nate con un certo gusto per le belle arti dirò: “Questa architettura fantasiosa è un gotico senza l’idea della morte; è la gaiezza di un cuore melanconico; e poiché quest’architettura destituita di ragione sembra fatta dal capriccio, essa s’accorda con le folle illusioni dell’amore”.

Meno entusiaste le sue riflessioni in merito alla facciata, anche se non mancò di apprezzarne la linearità. Il suo consiglio ai visitatori era di guardarla al tramonto del sole:

La facciata semigotica del Duomo non è bella, ma graziosa assai. Bisogna vederla illuminata dalla luce rossastra dl sole cadente.

Il pane nella Milano d’ancien régime

Il pane oggi non è più un alimento essenziale nella dieta di una persona. E’ invalso l’uso di farne a meno nei pasti quotidiani, a pranzo o a cena, colpevole di essere troppo pesante da digerire o di fare ingrassare costringendoci ad impegnativi percorsi di dimagrimento. E’ quel che avviene nelle ricche società dell’Occidente, in cui gran parte della popolazione può permettersi il lusso di mangiare quello che desidera, non ciò di cui ha bisogno per sopravvivere. I poveri non ragionano in questo modo. Per loro il pane costituisce l’alimento essenziale, come lo è stato per secoli nella società europea.

Quando si afferma la civiltà del pane? Plinio ricorda che nell’antica Roma i primi forni comparvero nel II secolo avanti Cristo. Nella civiltà mediterranea il pane fu l’alimento fondamentale, presente non solo nella civiltà romana ma anche in quella greca, babilonese ed egiziana. Autentico prodotto della civiltà agricola derivato dai cereali, esso garantiva agli uomini e alle donne le calorie necessarie per vivere. Non è un caso se Omero lo descrive come alimento degli uomini civili in opposizione ai barbari che, vivendo di pastorizia e nomadismo, non lo conoscono. “Mangiatori di pane” sono per Omero gli uomini.

pane cattoliciSe il riso costituiva l’alimento primario per la Cina, il mais per le popolazioni dell’America meridionale, il sorgo per quelle africane, il grano fu la base dell’alimentazione mediterranea. Nella tarda romanità e nell’alto Medioevo il pane raggiunse il Nord germanico contendendo alle carni il primato di alimento fondamentale: un processo che si spiega con la diffusione europea del cattolicesimo. Il pane per i cristiani non è solo il corpo di Gesù. E’ il vero simbolo della fede che, coltivata, macinata, impastata, fermenta nei cuori dei fedeli portandoli alla salvezza eterna. Sant’Agostino ci ha lasciato in proposito pagine memorabili. Certo, in una civiltà come quella nord-europea basata sul largo consumo di carne, il pane fatica ad affermarsi come alimento fondamentale nella dieta delle persone. Esso tuttavia si diffonde sempre più nel corso del basso Medioevo: l’aumento della popolazione, provocando una diminuzione degli spazi cui era possibile accedere per la caccia di animali, rese il pane l’alimento essenziale per i contadini e in particolar modo per le classi urbane.

Per buona parte dell’età moderna fino al Settecento, cura costante dei poteri pubblici europei fu di garantire alle città un mercato ben fornito di pane con prezzo calmierato per i ceti popolari. Lo smercio dei cereali non obbediva alla libera legge della domanda e dell’offerta ma era regolato su prezzi politici perché le classi povere potessero procurarsi senza difficoltà un alimento basilare per l’esistenza della persona.

Negli Stati italiani d’antico regime ogni città si riforniva facendo arrivare i cereali dai contadi circostanti sottoposti al suo dominio. A Milano la più antica istituzione civica, il Tribunale di Provvisione, fu costituita nel 1279 con il compito di impedire che i cereali venissero esportati oltre il territorio del Comune. Tale magistratura sarebbe stata soppressa solo con l’arrivo in Lombardia del generale Bonaparte, nella primavera del 1796. Composto dal Vicario e da dodici funzionari provenienti dalle sei porte cittadine (i quartieri del centro di Milano), il Tribunale aveva tra le sue funzioni quella di assicurare la circolazione di questo bene di prima necessità.

Il duca di Milano, Gian Galeazzo Visconti, emanò il 13 luglio 1386 la prima normativa che vietava l’esportazione dei cereali senza un apposito permesso dell’autorità pubblica. L’obiettivo dichiarato era di evitare carestie nel territorio milanese.

Sotto il dominio spagnolo, le Novae Constitutiones emanate da Carlo V nel 1541 – la suprema fonte dell’ordinamento giuridico lombardo erede del diritto visconteo-sforzesco – riservavano all’annona un’intera sezione intitolata De praefectis annonae.  Cosa significa “annona”? Con questo termine ci si riferiva all’organizzazione della pubblica alimentazione da parte del potere politico (dal latino Annona, dea delle biade dell’anno). I prefetti dell’annona erano incaricati di presiedere all’amministrazione e alla giurisdizione su questa materia cruciale per la popolazione del ducato. L’incipit di questa sezione descrive bene l’importanza di tale magistratura nello Stato di Milano d’antico regime:

Non sine ratione Magistratus annonae in excelsa urbe Mediolani constitutus est, qui curam annonae per universam Mediolanensem ditionem haberet. Studeretque ut ordines in eam causam facti observarentur. Quia per huius Magistratus constitutionem, annonae ubertas conservatur ad commodum subditorum & huius imperii tutelam.

[Non senza ragione fu istituito nell’eccelsa città di Milano il Magistrato dell’Annona, perché avesse la cura dell’annona su tutto quanto il milanese nell’accezione ampia del termine, perché operasse affinché fossero rispettati gli ordini emanati su questo tema. Perché, mediante la formazione di questa istituzione, venisse assicurata l’abbondanza dell’annona per il bene dei sudditi e per la sicurezza di questo dominio]

Nella città di Milano, come si è ricordato, tale funzione era gestita dal Vicario e dai XII di Provvisione. Due erano gli ambiti in cui operava questa magistratura civica: il mercato dei cereali, la produzione e la vendita del pane.

Quanto al mercato dei cereali, occorre ricordare che la maggior parte delle operazioni commerciali avveniva nel Mercato del Broletto, il luogo ove doveva essere sistemato il grano proveniente dal contado avendo cura che la merce non subisse furti lungo il trasporto.

Il forno delle grucce
“Il forno delle Grucce” . Incisione di Gonin tratta dai Promessi Sposi

Altrettanto importante era la gestione della produzione e vendita del pane, l’alimento basilare dei milanesi nell’età moderna fino all’Ottocento. Erano prodotti a tal proposito due tipi di pane: il pane bianco, ricavato dal frumento, accessibile alla nobiltà e alla ricca borghesia; il pane di mistura formato da segale, granoturco e miglio. Due corporazioni distinte gestivano la preparazione e la vendita di questi tipi di pane. I prestinai del pano bianco erano in tutto 13 persone che gestivano in via esclusiva lo smercio di questo alimento a Milano. I 13 forni si trovavano in diversi luoghi: oltre a quelli operanti nei sei quartieri cittadini fino ai Bastioni – ad esempio il celebre “prestin dii Scansch” manzoniano in corsia dei Servi, oggi corso Vittorio Emanuele, per il sestiere di Porta Orientale e altri nei sestieri di Porta Romana, Ticinese, Vercellina, Comasina, Nuova – c’erano panettieri “alla Cicogna” (probabilmente ove si trovava palazzo Cicogna – oggi scomparso – in via Unione), a Sant’Ambrogio, alla Rosa (zona piazza San Sepolcro), alle Farine (zona Duomo), ai Rosti (zona San Giorgio al Palazzo), al Cordusio e ai Bossi (zona via Broletto). Alla corporazione del pane misto appartenevano invece più di 100 membri, i quali non potevano certo permettersi gli alti guadagni riservati ai 13 “panettieri privilegiati”.

D’altra parte occorre rilevare che, diversamente dai panettieri che producevano il pane di mistura, i 13 fornai di pane bianco non erano proprietari dei forni ove lavoravano. Tali negozi erano di famiglie nobili o di corporazioni religiose che li affittavano alla corporazione dei prestinai delegando a un organismo del patriziato milanese, la congregazione del Banco di Sant’Ambrogio, la gestione dei lucrosi affitti triennali. Potente istituzione composta da membri del patriziato, questa congregazione svolse nel Settecento un’attività di sorveglianza sui panificatori.  Si pensi che essa poteva revocare a suo piacimento il contratto con uno o più panettieri se non era soddisfatta del servizio o se questi ultimi non fornivano le necessarie garanzie di tutelare i suoi interessi.

A partire dagli anni Sessanta del Settecento, quando i prezzi dei cereali (e quindi del pane) iniziarono a salire in Europa in seguito all’aumento della popolazione, il governo asburgico intraprese alcune inchieste tese a migliorare il commercio e la produzione di questo bene agricolo. Non si arrivò alla piena liberalizzazione dei grani nel commercio interno ed estero quale si ebbe ad esempio nel Granducato di Toscana, ma si assicurò con gli editti del 1770 e del 1771 una parziale liberalizzazione all’interno della Lombardia austriaca. Così, ad esempio, la riforma del 29 agosto 1770 abolì i divieti nel numero dei panettieri rendendo possibile a chiunque produrre e vendere il pane. Cadeva il monopolio tradizionale dei 13 ‘panettieri bianchi’. Se era uscita sconfitta la linea di Pietro Verri e degli imprenditori agricoli, i quali propugnavano la piena liberalizzazione del settore per massimizzare i guadagni, d’altra parte avevano vinto economisti quali Cesare Beccaria e Gian Rinaldo Carli, aperti a una cauta liberalizzazione, diffidenti verso un’astratta legge del mercato che rischiava di impoverire i ceti popolari. Il governo austriaco, alle prese con gravi problemi di ordine pubblico per le carestie avvenute in Boemia e in Moravia, temeva che, ove fosse stata realizzata una piena liberalizzazione, la popolazione lombarda non avrebbe avuto pane a sufficienza.

Il governo austriaco promosse quindi il libero commercio di cereali all’interno della Lombardia austriaca mediante la graduale abolizione delle corporazioni, ma non rinunciò ad intervenire con azioni volte a salvaguardare i bisogni delle classi disagiate.

Un campione della riforma cattolica: San Carlo Borromeo

Il 4 novembre è stato l’anniversario della morte dell’arcivescovo di Milano San Carlo Borromeo. Quali furono gli ultimi giorni di vita del presule milanese?

Egli soleva trascorrere il tempo libero praticando la preghiera mentale. Una delle sue mete preferite era il Sacro Monte di Varallo: si tratta del celebre santuario all’imbocco della Valsesia, ove un sentiero tra i boschi è intervallato da cappelle affrescate che consentono al cristiano d’immergersi nella preghiera.

Lasciata Varallo mentre era di ritorno da un pellegrinaggio alla Sacra Sindone, salito su un barcone per raggiungere Milano lungo il Naviglio Grande, il Borromeo iniziò ad accusare i primi segni della malattia che doveva condurlo alla morte nella sera del primo novembre 1584. Giunto al palazzo arcivescovile su una lettiga, il cardinale trascorse le ultime ore assorto nella preghiera. Chiese che nella sua camera gli fosse montato un altare composto di alcuni quadri sacri tra i quali il dipinto Orazione nell’orto .

digiuno di san carlo
Daniele Crespi, Il digiuno di San Carlo. Milano, Chiesa di Santa Maria della Passione

Credo che per comprendere il carattere e l’opera del Borromeo sia utile soffermarci sul celebre dipinto di Daniele Crespi, Il digiuno di San Carlo, conservato nella chiesa milanese di Santa Maria della Passione. Il prelato è ritratto nel suo scrittoio mentre è assorto in preghiera negli esercizi spirituali. Il magro pasto, caratterizzato da un pane e da una bottiglia di acqua, passa in secondo piano rispetto ai due protagonisti del dipinto: da un lato il volto piangente del presule, ritratto in un atteggiamento di commozione e di estasi nella lettura del testo sacro, dall’altro il crocifisso collocato sopra un tavolino di legno poco discosto dallo scrittoio, di fronte al santo.

San Carlo può essere considerato l’interprete più coerente dei canoni riformatori fissati dal Concilio di Trento: tali canoni non solo resero il vescovo un vero pastore d’anime, ma gli conferirono poteri incisivi di disciplina e di controllo sulla condotta del clero all’interno della diocesi. Si pensi ad esempio alle visite pastorali, alla convocazione periodica dei sinodi diocesani o dei concili provinciali. Su questo punto il Borromeo fece di Milano una diocesi modello.

Personalità forte, a larghi tratti autoritaria quella di San Carlo che, nel condurre fino in fondo la riforma della chiesa ambrosiana, per contrastare efficacemente quelli che al tempo erano considerati i mali del secolo (dalle sette protestanti alle feste popolari), non esitò a scontrarsi con il potere spagnolo mettendo in difficoltà la Santa Sede. La sua azione zelante, esemplare, instancabile nell’informare la diocesi ai canoni tridentini, rese l’autorità episcopale milanese un corpo intermedio nella chiesa, quasi sottratto al controllo disciplinare di Roma.

Nel ducato di Milano lo scontro con il governatore spagnolo investì il campo religioso. Di fronte all’intenzione del re Filippo II d’introdurre nella capitale ambrosiana l’inquisizione spagnola onde sradicare le sette protestanti, il Borromeo si oppose risolutamente mettendo in campo tutta la sua autorità. Rimasto vincolato a una concezione medievale dei rapporti tra potere pubblico e potere ecclesiastico nella quale il secondo si poneva su un piano di superiorità rispetto al primo, il prelato si oppose fermamente alla politica di Filippo, affermando non solo una netta diversità nei modi di perseguire gli eretici (così ad esempio avversava il metodo spagnolo  delle “denunce anonime”) ma anche la piena autonomia dell’autorità ecclesiastica, che non poteva in alcun modo essere menomata da un intervento dello Stato in una questione religiosa che spettava in via esclusiva all’arcivescovo. San Carlo scriveva a tal proposito nel 1566: “il popolo milanese ha il sospetto che…si cerchi di mettere in questo Stato l’Inquisizione alla foggia di Spagna, non tanto per zelo di religione quanto per interesse di Stato…”.

carlo borromeoIl Borromeo, appoggiato dal papa, ebbe successo in tale azione di contrasto alla politica spagnola. Agli organi della curia ambrosiana fu riservato il compito di respingere il protestantesimo, il che avvenne mediante un vasto programma di evangelizzazione nella diocesi. Si deve a San Carlo la fondazione del Seminario arcivescovile (tuttora esistente in Corso Venezia 11) affinché il clero, ricevendo una formazione rigorosa, potesse svolgere una migliore azione di evangelizzazione. Interprete inflessibile del modello tridentino per la formazione di una chiesa ordinata, tesa al disprezzo dei beni mondani, tutta lanciata verso l’elevazione morale della comunità e la salvezza spirituale delle anime, l’arcivescovo istituì confraternite per promuovere la religiosità nel popolo favorendo una concreta opera di apostolato presso il laicato.

Celebri le sue battaglie contro le feste popolari, colpevoli di allontanare i cattolici dalla cura dell’anima. Dal carnevale alle feste di quaresima, la sua posizione fu intransigente: anche qui essa provocò uno scontro con le autorità civili milanesi. Il governatore spagnolo, il marchese di Ayamonte, alla fine degli anni Settanta chiese al papa l’allontanamento di un arcivescovo tanto scomodo: richiesta ovviamente respinta.

Per tornare alla formazione del clero, l’opera di San Carlo fu davvero fondamentale. Ricordiamo la fondazione del Collegio Elvetico (oggi palazzo dell’Archivio di Stato di Milano in via Senato 10) per la formazione di preti da inviare in missione nei cantoni svizzeri, oppure l’apertura di istituti quali la fondazione di San Giovanni Decollato per le vocazioni tardive, la fondazione della Beata Maria presso la Canonica arcivescovile per il clero di campagna, o ancora i piccoli seminari di Inverigo e Celana. Ad Arona fu istituita una sezione distaccata del Seminario milanese.

Nella riforma del clero, vietò il cumulo di benefici in capo a una sola persona. I benefici erano beni immobili concessi in origine dal signore per il mantenimento del suo vassallo. In tal modo il clero fu privato di numerose rendite, il che lo rese più povero allontanandolo da quella ricchezza che era stata la causa principale della corruzione della chiesa. Il clero lombardo formato dal Borromeo operò in un clima di austerità e semplicità dedito esclusivamente alla predicazione e alle opere di carità.

Segno di una religiosità combattiva fu la decisione di fondare l’ordine degli Oblati di Sant’Ambrogio, una congregazione di preti a dimensione diocesana il cui obiettivo consisteva nel lavorare instancabilmente perché la pastorale del vescovo venisse attuata fin nei più remoti interstizi della società milanese e più in generale lombarda. D’altra parte, per l’efficace contrasto alla superstizione e al movimento ereticale, l’arcivescovo poteva contare sui “crocesignati”, una congregazione composta da 40 nobili milanesi che avevano giurato di sterminare gli eretici. Si trattava di una compagnia che operava con mezzi violenti, alla quale il Borromeo fece ricorso assai raramente, in circostanze eccezionali. Per l’esecuzione delle sentenze arcivescovili esisteva inoltre una “famiglia armata”, quasi un corpo di polizia incaricato di rendere esecutive le disposizioni della curia ambrosiana.

San_Carlo-Arona_01
Colosso di San Carlo Borromeo ad Arona. I lavori, iniziati nel 1624 per volontà del cardinale Federico Borromeo, terminarono nel 1698. Il disegno della statua è di Giovanni Battista Crespi detto “Il Cerano”

San Carlo si conquistò l’affetto dei milanesi in occasione della peste che imperversò in città nel 1576. La sua azione a sostegno dei malati, dei moribondi, dei poveri fu totale. Forse il ritratto migliore di questa grande personalità della storia milanese ci è offerto dalla gigantesca statua del santo che si trova ad Arona: alto 28 metri, il celebre “Carlone” incarna davvero il modello stoico dell’uomo che obbedisce con umiltà e disciplina ai doveri del suo ministero, operando con coraggio per il bene della comunità.