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Il cuore pulsante di Milano

Un libro ripercorre la storia della città ambrosiana dalle origini fino ai tempi presenti, individuandone i tratti peculiari e le costanti nel tempo.

Negli ultimi anni la formula “modello Milano” viene costantemente ripetuta da politici, esponenti della classe dirigente e da imprenditori per descrivere un tipo di convivenza civile – quella milanese – che mette al centro la solidarietà e l’operosità dei suoi membri, i quali lavorano al servizio della comunità facendo ciascuno la sua parte. E’ un termine spesso abusato, che trova però un suo fondamento storico: nel corso dei secoli, dalla tarda antichità al Medioevo, dall’Età Moderna ad oggi, la città di Ambrogio ha saputo crescere e progredire grazie alla capacità dei milanesi di rispondere concretamente alle sfide dei tempi: le fratture e le violente divisioni interne – che pure vi furono tra le diverse comunità e famiglie – vennero di volta in volta ricomposte in nome del bene comune. In particolar modo a partire dal Medioevo, la società milanese nelle sue articolazioni cetuali riuscì a intessere con i reggitori del potere un dialogo costruttivo per la tutela dei suoi interessi economici e politici.

“The Milan’s Heart. Identity and History of a European Metropolis”, edited by Danilo Zardin, Milano, Scalpendi editore, 2019, pp.207, 15 euro.

Questa caratteristica di lungo periodo nella storia di Milano è al centro del bel libro The Milan’s heart. Identity and history of a European metropolis (Scalpendi Editore, Milano 2019, 207 p.): si tratta della nuova edizione in inglese, corredata da un elegante apparato di immagini, di un volume curato dal professor Danilo Zardin nel 2012 avente per titolo Il Cuore di Milano. Identità e storia di una “capitale morale” (Rizzoli editore). Vi sono raccolti saggi di storici che hanno posto al centro della loro analisi scientifica il ruolo di Milano nella civiltà europea e i tratti distintivi della sua costituzione interna.

Quali sono gli elementi di lunga durata che caratterizzano il senso di appartenenza alla comunità milanese? In primo luogo, il civismo e una operosa solidarietà, la capacità di accettare il diverso raccogliendo le sfide dei tempi per un modello innovativo di convivenza. Questo avvenne ad esempio nella Milano capitale dell’Impero Romano d’Occidente, quando nel 313 d.C. l’imperatore Costantino vi pubblicò il celebre editto di tolleranza che consentiva ai cattolici di praticare liberamente il loro culto non diversamente da quanto i Romani avevano permesso fino a quel momento alle altre confessioni religiose. Nasce qui la prima forma di quel “modello Milano” cui si è fatto cenno poco sopra, esempio di convivenza tra diversi che si rispettano, vivono e lavorano nell’obbedienza alle leggi.

Agostino Comerio, “Ritratto dell’imperatrice Maria Teresa di Asburgo”, 1834, Milano, Biblioteca Nazionale Braidense, Salone Maria Teresa.

Un secondo tratto distintivo di Milano risiede nel suo spirito riformatore, nella capacità di aprirsi al nuovo, di adattare le istituzioni e le politiche di governo ai bisogni della società. Un caso per certi versi emblematico è costituito dal riformismo settecentesco che svecchiò l’amministrazione del Ducato di Milano avvicinandola a quella di uno Stato moderno. In effetti, come ha dimostrato Carlo Capra, in Lombardia le riforme absburgiche furono portate avanti per volontà dei governanti austriaci (l’imperatrice Maria Teresa di Asburgo, l’imperatore Giuseppe II) e videro l’attivo coinvolgimento di funzionari provenienti da altri territori della monarchia (basti pensare al cancelliere di Stato, il viennese di origini morave Anton Wenzel von Kaunitz Rittberg, al trentino Carlo Giuseppe di Firmian, all’istriano Gian Rinaldo Carli, al toscano Pompeo Neri); non va tuttavia sottovalutato il contributo di un patriziato milanese aperto al nuovo, tra i cui esponenti più noti val la pena ricordare Cesare Beccaria e Pietro Verri: dapprima quali intellettuali attivi nel celebre periodico “Il Caffè”, poi nel ruolo di funzionari pubblici al servizio della monarchia austriaca, essi parteciparono attivamente all’attuazione delle riforme illuminate nei campi della giustizia, dell’economia, dell’agricoltura, del commercio. Le riforme del Settecento illuminato in Lombardia (ricordiamo ad esempio quella sull’autoamministrazione delle comunità locali del 1755 o del catasto particellare del 1760), costituirono il primo stadio di un rinnovamento istituzionale che toccherà il vertice negli anni della Repubblica Italiana e del Regno italico (1802-1814), quando il governo napoleonico avrebbe contribuito in modo decisivo a rinnovare le strutture della società. Le riforme absburgiche e napoleoniche fecero di Milano un vero e proprio laboratorio della modernità e questo nonostante le resistenze conservatrici che pure vi furono.

Filippo Abbiati, Solenne ingresso di San Carlo Borromeo a Milano, 1670-1680, Milano, Duomo.

Un altro esempio di riformismo autenticamente milanese riguarda il governo della chiesa ambrosiana. Esso è costituito dall’azione incisiva dell’arcivescovo di Milano, Carlo Borromeo, il quale negli anni del suo ministero al vertice della curia milanese (1564-1584) fece della diocesi un territorio all’avanguardia nell’applicazione rigorosa dei canoni della Riforma Cattolica fissati dal Concilio di Trento. Il riformismo borromaico si radicò in profondità: le articolazioni cetuali della società milanese furono informate allo spirito di una devotio vissuta con appassionato fervore. Il coinvolgimento del fitto tessuto delle confraternite laicali, la fondazione di seminari e collegi per la formazione del clero, le Scuole della Dottrina Cristiana per l’educazione dei giovani, la pubblicazione di opuscoli e libri in italiano per aiutare i laici ad affrontare le difficoltà della vita orientando le opere allo spirito cristiano, furono interventi che segnarono profondamente l’identità milanese. A tal proposito, facendo stampare in italiano catechismi, testi contenenti istruzioni morali, libri spirituali e pedagogici per ciascun ordine o categoria della società (militari, padri e madri di famiglia, capi di bottega), il Borromeo diede un contributo di primo piano alla diffusione dell’alfabetismo in Lombardia già alla fine del XVI secolo. Questo riformismo ambrosiano venne continuato, con accenti e strategie diverse, dal nipote Federico Borromeo (arcivescovo dal 1595 al 1631) e dal successore di questi, il cardinale Cesare Monti (1631-1650). Come ha messo in evidenza il professor Danilo Zardin nel saggio Da Carlo a Federico Borromeo: alle origini di una nuova identità “ambrosiana” (nella edizione inglese From Carlo to Federico Borromeo: at the Origins of a new “ambrosian identity”, pp.95-102), alla battagliera opera di San Carlo per un riforma della società che lo portò a scontrarsi in più occasioni con le istituzioni civili del Ducato di Milano, i due presuli sostituirono una più prudente azione pastorale che puntò soprattutto a rafforzare le istituzioni culturali nella diocesi per una discreta ma non meno profonda formazione degli spiriti: basti pensare alla Biblioteca Ambrosiana aperta dal cardinal Federico nel 1609 per chiunque avesse desiderato leggere ed istruirsi.

Purtroppo non è possibile soffermarsi sui tanti temi che sono affrontati in questo libro. Avviandomi alla conclusione, credo che un terzo tratto distintivo di Milano risieda nella sua natura internazionale, nell’apertura al mondo, al diverso. La città ambrosiana è infatti una metropoli profondamente europea per stili di vita, costumi, economia, cultura. Credo che la naturale disposizione a vivere e operare entrando in stretta relazione con ambienti internazionali vada ricercata – come notò acutamente Giorgio Rumi in un interessante saggio del 1993 (G. Rumi, Milano e l’Europa in AA.VV., Ottocento romantico e civile. Studi in memoria di Ettore Passerin d’Entrèves. Milano, Vita e Pensiero 1993, pp.343-350) – nei secoli in cui il Ducato di Milano venne incorporato entro la sfera di governo di poteri pubblici plurinazionali: la monarchia absburgica spagnola dalla metà del XVI secolo al 1706, i domini degli Asburgo di Vienna dal 1706 al 1796. In questi vasti imperi, composti da territori con tradizioni giuridico amministrative assai diverse, i milanesi riuscirono per secoli a tutelare i loro interessi economici e politici grazie alla distanza che li separava dai centri di potere entro il cui dominio pure si trovavano. Persa l’indipendenza politica nel 1499, il Ducato di Milano ebbe riconosciute dai Francesi , dagli Asburgo di Spagna e per buona parte del Settecento anche dagli Asburgo di Vienna le sue storiche autonomie giuridico-amministrative risalenti al periodo visconteo-sforzesco. I milanesi dovettero però accettare la sovranità di monarchi le cui corti si trovavano oltralpe, assai distanti dall’Italia cisalpina. Eppure non sembra azzardato ritenere che la natura internazionale di Milano – già presente nell’Età antica e nel Medioevo – si sia rafforzata ancor più in questo periodo, quando i milanesi furono obbligati a confrontarsi con burocrazie europee (spagnola prima, austriaca poi) in un dialogo costruttivo con i sovrani absburgici: questo permise loro di intervenire negli organi consiliari (a Madrid come a Vienna), che garantivano la rappresentanza dei diversi territori al centro della monarchia. Di qui un’apertura costante al diverso e un’attitudine a confrontarsi con politiche pubbliche che superavano la sfera regionale, poste com’erano in una dimensione internazionale.

I cicisbei nella Milano del ‘700

In un passo dell’ode Il Mattino, all’interno della nota critica alla vita oziosa del nobile signore, Giuseppe Parini prendeva in esame il vincolo del matrimonio, osteggiato dal ricco rampollo cui è rivolta la satira del poeta. Seguiva, poche righe più avanti, un chiaro riferimento all’istituzione tipicamente settecentesca del cicisbeismo, vale a dire alla pratica con cui le donne della nobiltà italiana erano solite frequentare i salotti culturali accompagnate da un uomo cui erano legate da sentimenti di affetto e – in alcuni casi – di amore.

giuseppe_parini
Giuseppe Parini (1729-1799)

Assai pensasti a te medesimo: or volgi

Le tue cure per poco ad altro obbietto

Non indegno di te. Sai che compagna,

con cui divider possa il lungo peso

di quest’inerte vita, il ciel destina

Al giovane signore. Impallidisci?

No, non parlo di nozze: antiquo e vieto

Dottor sarei, se così folle io dessi

A te consiglio. Di tant’altre doti

Tu non orni così lo spirto e i membri

Perché in mezzo alla tuo nobil carriera

Sospender debbi ’l corso, e fuora uscendo

Di cotesto a ragion detto Bel Mondo,

Intra i severi di famiglia padri

Relegato ti giacci, a un nodo avvinto

Di giorno in giorno più penoso e fatto

Stallone ignobil della razza umana. […]

Pera dunque chi a te nozze consiglia,

Ma non però senza compagna andrai,

Che fia giovane dama e d’altrui sposa;

Poiché si vuole inviolabil rito

Del Bel Mondo onde tu se’ cittadino.

 

[Hai pensato molto a te stesso: ora concentra un poco la tua attenzione ad un altro tema degno di te. Tu sai il cielo assegna al giovin signore una compagna con cui possa dividere questa vita inoperosa. Impallidisci? No, non parlo di matrimonio: sarei un poeta vecchio e inutile se dessi a te un consiglio così folle. Il tuo spirito e le tue membra non sono così provviste di tante doti perché tu debba sospendere a metà il corso della tua carriera nobile e, lasciando quel che a ragione si dice “bel mondo”, tu finisca relegato tra i severi padri di famiglia, avvinto a un nodo che ogni giorno diviene più penoso, ridotto a stallone ignobile della razza umana. […] Muoia dunque chi a te consiglia il matrimonio, ma non per questo andrai senza compagna, la quale sarà una giovane donna e maritata con un altro uomo; perché così vuole il rito inviolabile del bel mondo di cui sei cittadino].

 [G. Parini, Il Mattino in G. Parini, Poesie, a cura di Guido Mazzoni, Istituto Editoriale Italiano, Classici Italiani Novissima Biblioteca diretta da Ferdinando Martini, Milano, s.d., pp.38-39].

Il quadro della società milanese settecentesca che Parini tratteggiava in questi versi era assai diffuso tra la nobiltà. Occorre ricordare che nei secoli precedenti, tra il Cinquecento e il Seicento, la vita sociale della donna si era svolta per lo più all’interno delle mura domestiche, in una condizione di completa sottomissione al marito. La nobildonna si trovava al suo fianco nei momenti per così dire istituzionali della famiglia, ad esempio nelle riunioni dei casati nobiliari con i quali si era imparentati: pochi momenti di apparizione “in pubblico” in un’esistenza che si svolgeva entro le spesse mura del palazzo nobiliare.

Alla fine del Seicento e nel corso del Settecento la moda francese imposta dalla vita di corte di Versailles si diffuse progressivamente in Europa, il che contribuì a mutare la condizione della donna nobile cui fu consentita una maggiore libertà di movimento. Le conversazioni nei salotti culturali, spesso tenuti dalle nobildonne nei palazzi ove vivevano, contribuirono a una certa emancipazione. Varrà la pena ricordare, a tal proposito, il celebre salotto milanese della contessa Clelia Borromeo del Grillo che si tenne nella prima metà del Settecento nel palazzo Borromeo di via Rugabella.

Il permanere di logiche tradizionali in base alle quali i matrimoni erano combinati dalle famiglie nobili in base ad interessi cetuali, patrimoniali e finanziari senza alcuna importanza alle inclinazioni delle persone, finì con il favorire, nell’Italia del Settecento, l’instaurarsi di legami affettivi esterni al vincolo coniugale, legami stretti dalle nobildonne con uomini di pari ceto spesso con il consenso dei mariti. Si trattava in fondo di una forma di compensazione nella sfera degli affetti per una donna che veniva spesso unita a un marito assai più anziano, sprovvisto di bellezza fisica e di doti intellettuali.

E’ opportuno chiedersi per quale motivo il fenomeno del cicisbeismo fosse più diffuso in Italia e meno in Francia, nei principati e città del Sacro Romano Impero Germanico e più in generale dell’Europa del Nord. Credo che la risposta sia da ricercare nella maggiore libertà di movimento consentita alla donna europea del Settecento, mentre in Italia si sentì l’esigenza di controllare le sue uscite in pubblico accompagnandola ad un uomo che potesse garantire la sua onorabilità e sicurezza. Nelle città italiane il potere delle famiglie patrizie, radicato nelle istituzioni degli antichi Stati, contava ancora molto, tanto nelle repubbliche quanto nei regni informati alla vita di corte dei sovrani illuminati.

A Milano credo che il fenomeno riguardasse in molti casi i cadetti dell’aristocrazia: questi, non potendo fruire delle pingui rendite patrimoniali riservate al primogenito, educati alle lettere e alle armi più che al lavoro per l’appartenenza all’ordine nobiliare, dovevano accontentarsi di una piccola rendita che era però insufficiente a mantenere una famiglia. Di qui la vita celibe di modesti redditieri, allietata dall’affetto che li legava alle dame di pari ceto in forza del ruolo di cicisbei o di cavalier serventi che accettavano di ricoprire.

Per molti si trattava di una condizione sicuramente preferibile rispetto a quella degli altri cadetti economicamente meno fortunati: alcuni di questi nobili erano costretti ad entrare nell’ordine ecclesiastico rinunciando al mondo secolare per vivere nel celibato religioso, protetti dalla sicurezza economica che conferiva loro il beneficio. Altri invece si arruolavano nell’esercito dedicandosi – com’era tradizione – a una carriera militare che, nel Settecento, li costringeva a lunghe campagne lontano dalla patria di origine.

Cesare Beccaria, nelle Lezioni di economia pubblica tenute nelle Scuole Palatine di Milano dal 1769 al 1773, non esitò ad esprimere tutta la sua avversione per questi celibi: essi erano colpevoli di assumere comportamenti libertini e di mancare ai doveri della procreazione legati alla formazione e al mantenimento della famiglia. Le sue critiche erano mosse all’utilizzo infruttuoso delle piccole rendite di posizione, ristrette al puro e semplice mantenimento del nobile, non impiegate ai fini della ricchezza e della prosperità della nazione. Non faceva un’esplicita menzione dei cicisbei ma non era difficile capire a quali persone si riferisse quando condannava il celibato dei nobili. L’illuminista lombardo mostrava invece un profondo rispetto per il celibato religioso e la dura vita dei soldati.

Cesare Beccaria (1738-1794)
Cesare Beccaria (1738-1794)

Se questo stato (il celibato) si diffonde di troppo, egli diventa piuttosto apparente che reale; le facili e tenebrose risorse del libertinaggio compensano una privazione, e la natura si rivendica, ma a carico altrui, e senza raccoglierne alcun frutto. Non parlo di quel sacro celibato che nelle più auguste funzioni della religione si occupa; non parlo di quello che lontano dal tumulto seducente della frequenza si conserva, incontaminato, fra gli appartati ritiri d’una mesta solitudine; ma parlo di quello che, usurpando la considerazione dovuta al vero celibato religioso, grandeggia nella società soltanto per la scelta calcolatrice d’interesse, non per intima superiore spinta di motivi sovraumani. Dico che in questo caso il celibato o è religioso affatto, e le distinzioni mondane e i premi sociali sono alieni del tutto dal suo scopo, o è secolare e realmente profano, e allora dovrebbe cedere in tutte le occasioni alla classe perpetuatrice [la famiglia unita in matrimonio finalizzata alla procreazione NdR]. […]

Oltre a ciò è necessario che questo stato perpetuatore del genere umano [la famiglia] sia…sopra ogn’altro onorato. Perché abbandonarlo totalmente ai sentimenti della natura o alla calcolatrice indagine dell’interesse, mentre taluni, senza i gravi e più sublimi motivi, per un volubile entusiasmo o per una libertina avversione ad ogni legame, osano sottrarre una serie di generazioni che aspettano di respirar aura vitale dagli oscuri recessi dell’insensibilità ed inazione, carpiscono le distinzioni le più lusinghiere, mentre dovrebbono sovente a quella oscurità condannarsi, cui condannano una numerosa posterità?

[C. Beccaria, Elementi di economia pubblica in ID., Scritti economici, vol.III dell’Edizione Nazionale delle Opere di Cesare Beccaria, Milano, Mediobanca 2014, pp.139-140]

Un coraggioso impiccato nella Milano del ‘700

In questi giorni ricorre l’anniversario di uno strano caso di condanna a morte che ebbe per protagonista un ex religioso, Carlo Sala. Originario dell’antico comune di Casletto – oggi frazione di Rogeno – non molto lontano da Erba in Brianza, Sala proveniva da un’agiata famiglia di proprietari terrieri della zona. Dopo la morte del padre Fermo, fu costretto a farsi frate dallo zio Giuseppe, che riuscì a concentrare nelle sue mani il patrimonio del fratello defunto escludendone i nipoti.

Il suo noviziato avvenne a Milano nell’ordine francescano. Acquisito il suddiaconato con il nome di frate Bonaventura, nel 1756 fu trasferito a Domodossola, il cui territorio da pochi anni, in seguito alla guerra di successione austriaca, era stato staccato dal Ducato di Milano e aggregato al Regno di Sardegna. Lì rimase fino al 1764, quando fuggì dal convento facendo perdere le sue tracce.

In realtà, noi sappiamo che Sala rientrò poco tempo dopo nel Ducato di Milano e, tornato al suo paese, rubò 2665 lire dalla cassa di famiglia per avere la parte di patrimonio che reclamava. In una lettera allo zio riportata da Giovanni Biancardi nell’Introduzione a un bel libro ove sono pubblicate le lettere dei fratelli Verri sul caso Sala, il religioso così giustificava il furto dei soldi:

Ricordatevi…che io non ho preso della vostra robba, ma della mia, e che tant’altra me l’avete fatta gettar a male voi per soddisfare a’ vostri Capricci di volerci tutti Fratti [sic!], quando né tutti son fatti per fare il Frate, né tutti per fare il Prete, e di tanti, che ne sono nelle Religioni nemeno la metà si è fatto volontariamente, ma tutti chi per un motivo, chi per un altro.

[Pietro e Alessandro Verri, Un illustre impiccato, Il Muro di Tessa, Milano 2007, dall’Introduzione a cura di Giovanni Biancardi, pp.12-13].

Sala si trasferì quindi a Cremona dove, gettata la tonaca alle ortiche, si sposò, ebbe dei figli e lavorò come commerciante di libri aprendo una bottega sotto il falso nome di Alessandro Barni. Arriviamo così ai primi anni Settanta, quando possiamo dire che l’ex religioso conducesse due vite parallele, entrambe fuorilegge: la prima perché contestava apertamente la religione cattolica, che a quei tempi era protetta dalle autorità del Ducato di Milano come avveniva nell’Europa cristiana d’ancien régime; la seconda vita era parimenti fuorilegge perché caratterizzata da furti ai danni del prossimo.

Oltre a vendere libri proibiti, Sala teneva discorsi in pubblico per convincere amici e colleghi ad allontanarsi dalla religione cattolica. L’ostilità verso i preti e i frati si era formata in lui con ogni probabilità all’epoca in cui era stato costretto ad entrare nell’ordine francescano. Rubò suppellettili e arredi sacri in molte parrocchie del Ducato: ad esempio a Lambrate, a Castellanza, a Usmate, a Tradate, a Villa Pizzone. Il suo odio per la religione si spinse fino alla profanazione delle ostia consacrate.

L’arresto avvenne a Brescia, che si trovava a quei tempi nella Repubblica di Venezia, nella primavera del 1774. Incapace di fornire alle autorità una spiegazione credibile sulla provenienza della merce che portava con sé, Sala fu detenuto in quella città per alcuni mesi. Consegnato alle autorità milanesi il primo maggio 1774, confessò di aver compiuto trentotto furti.

Il libraio brianzolo venne condannato a morte con sentenza del Senato di Milano il 23 settembre 1775: la pena capitale consisteva – com’era consuetudine per i ladri –  nell’impiccagione, preceduta da tre colpi di tenaglia rovente e dall’amputazione della mano.

Vetra nel primo Ottocento
La Vetra in un dipinto del primo Ottocento. A sinistra la basilica di San Lorenzo.

L’esecuzione avvenne due giorni dopo. Lungo il percorso dalle regie carceri alla piazza della Vetra – uno dei luoghi abituali ove erano eseguite le condanne a morte – Sala fu trasportato su un carro e qui torturato dal boia con le tenaglie infuocate.

Lo spettacolo era certamente truce ma è probabile che i milanesi non fossero granché scossi, essendo abituati da secoli alla vista delle torture e dei cadaveri dei condannati esposti in pubblico. La pena di morte era ancora assai diffusa nella Milano settecentesca, segno che i fiochi lumi della ragione accesi dai fratelli Verri, da Beccaria e dagli altri membri dell’Accademia dei Pugni, avrebbero allontanato le tenebre della barbarie solo dopo molti anni.

In un vecchio ma ancora fondamentale studio di alcuni anni fa, Italo Mereu ha dimostrato come dal 1700 al 1767 il numero delle condanne a morte fu di 643, con una media di quasi 10 esecuzioni all’anno (I. Mereu, La pena di morte a Milano nel secolo di Beccaria, Vicenza, Neri Pozza 1988). Nel 1765 – anno della pubblicazione del celebre trattatello Dei delitti e delle pene scritto da Cesare Beccaria – le sentenze capitali furono ben 23, uno dei numeri più alti, al quarto posto dopo le esecuzioni del 1745 (25), del 1750 (34), del 1755 (32).

Eppure, nell’assistere a quella condanna a morte, destò meraviglia nei milanesi la fermezza, il coraggio, quasi l’estraneità al dolore che l’ex religioso Carlo Sala seppe mostrare in quelle ore durissime.

In una lettera del 27 settembre 1775 al fratello Alessandro, Pietro Verri così descriveva la stupefacente esecuzione della condanna a morte.

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Pietro Verri (1728-1797)

Venne l’ora del supplizio, discese e montò sul carro senza il minimo segno di timore; aveva quattro sacerdoti, il carnefice, il fuoco…non aveva il Crocifisso alla faccia, né in mano; con faccia severa e ferma osservava le finestre e l’immenso popolo attonito a segno che non s’udiva una voce per dove passava. La pietà ragionata degli ecclesiastici credo che disponesse perché i colpi di tenaglia rovente fossero dati fortemente. Così fu eseguito: si vedeva un globo di fumo alzarsi, si vedeva il carnefice stringersi nelle spalle e alzar le mani per lo stupore; e non s’udiva un grido, un sospiro del Sala, che poté essere padrone de’ suoi muscoli a segno di non fare il minimo movimento, come se nemmeno lo toccassero. Gridavano i buoni ministri che quello era un minimo ricordo del fuoco eterno a cui si andava a immergere a momenti, che si confessasse e quell’indurato, sempre con un funesto sorriso, diceva di lasciarlo in pace dopo tutte le dispute e non era persuaso. I sacerdoti sul carro erano attoniti e non osavano quasi parlargli, anche per non scomparire in faccia alla moltitudine. Il carnefice credeva o che il Sala fosse un negromante, ovvero che il demonio dovesse comparire alla esecuzione e tremava più assai che il paziente.

Giunto dopo un lungo cammino alla Vetra, scese francamente e con serenità dal carro, contemplò placidamente la forca, si sbarazzò degli ecclesiastici; andò spontaneamente a riporre la mano sul tronco di legno, indicò al carnefice il sito preciso dove si doveva collocare il ferro: non volle che alcuno gli tenesse la mano, osservò come si faceva a tagliarla, si abbassò coll’altra mano per raccogliere la caduta, non diè moto o grido di dolore, osservò attentamente il braccio mozzato, sorrise perché la gallina che se gli doveva applicare era sfuggita alle mani del carnefice; finalmente impaziente ascese da sé la scala e al carnefice stesso, che più volte nel porgli il capestro gli diceva che ancora era a tempo, terminò col dire che si sbrigasse a fare il suo mestiere, diè un’occhiata abbasso e da sé si scagliò. Il carnefice tremava e non poté resistere alla paura di essere portato via dal demonio insieme all’infelice Sala e lo abbandonò che ancora si dibatteva.[…]

Io compiango il destino di un uomo il quale aveva l’anima certamente non volgare e capace del più sublime eroismo: lo compiango, dico, di averla così malamente impiegata. E’ comune agl’inglesi affrontare la morte con coraggio; ma affrontare con eguale coraggio e soffrire con immobilità il dolore, non so se si trovi frequentemente.

Va ricordato che nel Ducato di Milano la tortura fu abolita nel 1784. Negli anni Ottanta cessarono le condanne a morte, sostituite dai lavori alle fortezze (Pizzighettone) o da altri tipi di condanne durissime come ad esempio l’alaggio, che consisteva nel traino delle imbarcazioni lungo le rive dei fiumi in marce forzate che provocavano il decesso per sfinimento.

La pena di morte tornò alla carica in Francia alla fine del secolo, quando la ghigliottina, nei pochi anni del Terrore, uccise tra le 30.000 e le 40.000 persone. Tornò in Italia nella prima metà dell’Ottocento, ben presente negli ordinamenti degli Stati napoleonici e in quelli preunitari. Faceva eccezione il Granducato di Toscana, ove la condanna a morte fu abolita da Pietro Leopoldo di Asburgo Lorena nel 1786.

La famiglia nella Milano ancien régime

Il tema della famiglia è tornato al centro dell’attenzione. Oggi tenterò di svolgere alcune riflessioni sulla famiglia nella Milano d’ancien régime. Qual era il suo significato nella società milanese e più in generale nella società europea dei secoli passati? Di certo la famiglia era a quei tempi qualcosa di diverso. Oggi siamo alle prese con due dati su cui riflettere. Da un lato la presenza dei single, che costituisce a Milano un dato assai più elevato rispetto alla media nazionale. Dall’altro la precarietà delle famiglie: il legame matrimoniale molte volte si spezza dopo pochi anni per le ragioni più svariate.

In età medievale e in età moderna (almeno fino al Settecento avanzato) la famiglia era un’istituzione stabile che rivestiva un ruolo assai più importante nella comunità cristiana. Per comprenderne le complesse dinamiche, dobbiamo pensare che in quel periodo non esisteva la separazione tra pubblico / privato tipica delle società borghesi dell’Otto-Novecento.

A quei tempi non esisteva neppure la moderna separazione tra Stato e Società, tra area ove si esplicano le istituzioni pubbliche culminanti nello Stato e area ove si confrontano i cittadini e le associazioni private in un regime di libera competizione soggetto alle norme del diritto civile. Potremmo dire in altri termini che nel Medioevo e nella prima età moderna queste due aree erano confuse. Solo a seguito del costituzionalismo rivoluzionario di ascendenza francese, a partire dalla fine del Settecento, iniziò ad affermarsi sul continente – quindi anche a Milano – un nuovo sistema che, con l’abolizione degli ordini e delle corporazioni, segnò la divisione tra cittadini titolari di diritti soggettivi e lo Stato di diritto fondato sui principi dell’eguaglianza e dell’impersonalità della legge. Nella società milanese d’ancien régime, almeno fino alla metà del Settecento, non era così. Non esisteva mobilità sociale che non fosse inquadrata all’interno di un ordine cui gli individui appartenevano fin dalla nascita.

Le famiglie patrizie traevano legittimazione dalla secolare presenza dei loro esponenti nelle istituzioni pubbliche del ducato e della città di Milano. Era assente quindi una sfera privata distinta da una sfera pubblica perché la famiglia non era relegata a una dimensione privata come tende ad avvenire nelle società contemporanee. La famiglia patrizia era una vera e propria istituzione, la cui appartenenza costituiva per i giovani una delle condizioni irrinunciabili per accedere al Collegio dei Nobili Giureconsulti in piazza Mercanti. Si trattava del celebre vivaio di dottori in legge chiamati a rivestire uffici importanti nella pubblica amministrazione dello Stato di Milano tra Cinque e Settecento. Scriveva il giureconsulto Bartolomeo Taegio nell’opera Il Liceo pubblicata nel 1571 che al Collegio non si poteva accedere

senza legittima prova della chiarezza e antiquità del sangue, della eccellenza della dottrina e della bontà dei costumi, così del candidato come del padre suo. Onde per la grande diligenza e sottile investigazione ch’usano i protettori dell’ordine nostro per sostegno e diffesa dell’onore del Collegio, si può concludere ch’el domandar il Collegio di Melano [Milano] non sia altro che sottoporsi voluntariamente ad un sindicato di grandissima importanza, dal quale chi ne riesce con lode, passando per li debiti mezzi, si può dire veramente nobile.

[B. Taegio, Il Liceo. Dove si ragiona dell’ordine delle accademie e della nobiltà, Tini, Milano, 1571, pag.57].

In una comunità per ceti fondata non sulla ricchezza ottenuta nel libero gioco del mercato di beni materiali, bensì sulla funzione sociale svolta da ciascun ordine e corporazione, le famiglie contavano nella misura in cui erano inserite in una fitta trama di relazioni che, salendo per gradi, investiva le supreme funzioni pubbliche.

La regola in base alla quale la vita familiare dei sentimenti deve essere confinata entro le mura domestiche e va rigidamente separata dalla vita lavorativa condotta fuori dalla casa, nel “libero” gioco del mercato, nasce e si afferma nelle società otto-novecentesche quando la famiglia ha ormai perso quella funzione pubblica che aveva rivestito per secoli. Nel Medioevo e nell’ancien régime tale norma di condotta non esisteva. A ben vedere essa è sconosciuta tuttora nel mondo delle aziende di famiglia.

Se questa era la struttura della famiglia nella Milano dell’antico regime, si capisce come i rapporti tra i suoi membri fossero alquanto diversi rispetto ad oggi. La sfera dei sentimenti aveva meno spazio. Le famiglie erano costituite da una prole numerosa per far fronte ai danni della mortalità infantile; erano composte non solo dai figli e dai nipoti, ma anche dai servi le cui famiglie avevano lavorato per generazioni nei possedimenti dei padroni.  A dominare era la figura del pater familias, del padre di famiglia, il quale reggeva il governo della casa. Nelle famiglie nobili e in quelle dell’alta borghesia, l’educazione dei figli era affidata a precettori privati. Il più delle volte si ricorreva tuttavia agli ordini religiosi: i rampolli della nobiltà frequentavano i prestigiosi collegi diretti dai Gesuiti; per le altre famiglie si ricorreva all’insegnamento di altri ordini, come ad esempio i Barnabiti. Alla donna era assegnata la cura della casa e il compito primario di generare i figli. Questa era la natura delle famiglie, ove potremmo dire che il ruolo pubblico assorbisse in larga parte la sfera privata dei sentimenti, quasi inesistenti.

A Milano tale situazione cambiò nel corso del Settecento ad opera delle riforme illuminate di Maria Teresa e Giuseppe II: le riforme accentrarono progressivamente nello Stato assoluto burocratico le funzioni pubbliche che le famiglie del patriziato avevano esercitato per secoli nelle tradizionali istituzioni della città e del ducato. Di qui ebbe inizio quella tendenza che vide la famiglia restringersi sempre più in un privato fondato unicamente sul benessere e sulla felicità individuale, mentre l’attività lavorativa in capo ai singoli individui, staccati dai corpi di appartenenza, fu chiamata ad agire sempre più in un libero mercato sottoposto alla vigilanza dello Stato assoluto.

La mentalità era molto diversa rispetto ai nostri tempi. I celibatari, coloro che restavano single – diremmo oggi – per un calcolo di autosufficienza, non a seguito di una vocazione religiosa, venivano spesso fatti oggetto di riprovazione sociale.

Del tutto indicativa la posizione di Cesare Beccaria. Nelle lezioni di economia pubblica tenute tra il 1769 e il 1773 presso le Scuole Palatine di Milano, l’illuminista lombardo tesseva una lode nei confronti delle famiglie numerose. I suoi elogi andavano a quanti lavoravano per rendersi utili alla collettività. Una famiglia numerosa era ben vista da Beccaria perché rientrava in un piano teso a rafforzare la potenza dello Stato mediante l’aumento di una popolazione la cui forza lavoro sarebbe andata a beneficio della monarchia. Il che, beninteso, era in linea con analoghe teorie diffuse dai mercantilisti e dagli economisti europei tra Sei e Settecento. Al contrario, il nobile rimasto celibe era da riprovare perché viveva nell’ozio della sua rendita terriera senza produrre alcunché di concreto per la comunità.

Assai efficace il commosso ritratto che Beccaria tracciava dell’umile famiglia di un artigiano:

Oh umile padre di famiglia; oh, artigiano incallito nell’affumicata tua officina, io rispetto il tuo rozzo abituro: egli è il tempio dell’innocenza e dell’onestà. Quando, tergendo il sudore della fronte, dividi un ruvido pane a’ tuoi figli, ai figli dell’industria e della patria, che levano le tenere loro mani per ricercartelo; quando io contemplo l’amorosa sollecitudine della tua fedele compagna, acciò la semplicità del governo tuo domestico ti sia leggera ed utile, allora io mi risveglio dall’ammirazione che in me destava la contemplazione del sequestrato cenobita, che ha saputo trionfare della natura e della società, che con sì potenti inviti a sé lo richiamavano.

[Cesare Beccaria, Scritti economici, a cura di Gianmarco Gaspari, Edizione Nazionale delle Opere di Cesare Beccaria, vol.III, Milano, Mediobanca 2014, pp.140-141]

 

L’alta istruzione a Milano: Accademia e Politecnico

Il 15 gennaio 1861 Terenzio Mamiani, ministro della pubblica istruzione, tenne nei locali del palazzo di Brera un solenne discorso per inaugurare l’inizio delle lezioni dell’Accademia Scientifico Letteraria. Di cosa si trattava?

Casati
Gabrio Casati (1798-1873)

La fondazione dell’Accademia era prevista dalla legge 13 novembre 1859 conosciuta come Legge Casati dal nome del relatore, il moderato lombardo Gabrio Casati. In fondo possiamo dire che grazie a questa normativa Milano poté disporre di un istituto che per la prima volta somigliava a una università. Com’è noto, dal 1361 l’università di Pavia era la più antica istituzione accademica esistente in Lombardia. Milano si trovava quindi in una posizione d’inferiorità.

Milano aveva una sua tradizione di studi più frammentata ma non meno importante. Nella seconda metà del Settecento, sotto il governo dell’imperatrice Maria Teresa e di Giuseppe II di Asburgo Lorena, l’innalzamento qualitativo degli insegnamenti era stato ottenuto mediante una riforma incisiva degli studi superiori: dal rinnovamento delle Scuole Palatine alla fondazione della Società Patriottica, avvenuta nel 1776, per la promozione dell’agricoltura e delle arti.  Le riforme asburgiche avevano quindi innalzato il livello dell’alta formazione a Milano, facendone una città della cultura e del sapere utile. La Società Patriottica, specializzata nello studio delle scienze agronomiche,  Basti ricordare, per restare al caso delle Scuole Palatine (situate in piazza dei Mercanti, poi trasferite nel palazzo ex gesuitico di Brera) che dal 1768 al 1773 Cesare Beccaria vi tenne i suoi celebri corsi di economia pubblica; in quegli stessi anni Giuseppe Parini vi insegnò eloquenza e belle lettere, Paolo Frisi meccanica, idrostatica e idraulica.

Si faceva sentire tuttavia la mancanza di una vera e propria Università. La ricordata legge Casati tentò di colmare questo vuoto operando in due direzioni. Anzitutto istituì l’Accademia scientifico letteraria mediante il trasferimento di alcuni insegnanti dall’ateneo pavese. Furono poi concentrate nel nuovo istituto alcune discipline presenti in istituti diversi della città: ad esempio la paleografia e la diplomatica insegnate negli archivi regi o l’astronomia attiva presso il celebre Osservatorio di Brera. I primi locali di quella che può essere considerata l’antesignana dell’Università degli Studi di Milano, furono stabiliti nel palazzo di fronte al naviglio interno di via Senato, ove oggi ha sede l’Archivio di Stato.

I primi anni furono però tormentati. Difatti il trasferimento a Milano degli insegnamenti nelle discipline letterarie finì per provocare le proteste degli studenti: questi si lamentavano delle elevate tasse d’iscrizione, cui si aggiungevano le spese di viaggio perr venire a Milano in un’epoca in cui gli spostamenti non erano certo veloci come quelli odierni. Alcuni studenti preferirono iscriversi nelle università emiliane, ove le tasse d’iscrizione erano abbordabili e gli esami più facili da superare. Per evitare un drastico calo di iscritti, nell’anno accademico 1861-62 i vertici dell’ateneo ticinese decisero di richiamare a Pavia quattro insegnanti. La situazione era critica e tutto faceva pensare che l’accademia fosse destinata a chiudere.

Giuseppe Ferrari
Giuseppe Ferrari (1812-1876)

Le autorità locali e l’opinione pubblica milanese protestarono contro i provvedimenti dell’ateneo pavese. Scrissero al ministro dell’istruzione chiedendo la conservazione dell’Accademia scientifico letteraria. Il ministro Amari acconsentì alle richieste dei milanesi. Con regio decreto 8 novembre 1863, egli riformò in profondità l’amministrazione di questo istituto educativo. La normativa stabiliva l’apertura di una “scuola normale” per la formazione degli insegnanti delle scuole secondarie superiori nelle materie classiche di storia e filosofia. Inoltre fu istituita una scuola di alta cultura specializzata nelle scienze storiche e filosofiche. L’accademia divenne quindi un luogo in cui si affrontavano i problemi della didattica e le esigenze della ricerca scientifica in campo umanistico. Tra gli insegnanti più celebri nell’istituto di via Senato varrà la pena ricordare il deputato federalista Giuseppe Ferrari, docente di filosofia della storia e il celebre filologo Graziadio Ascoli.

Brioschi
Francesco Brioschi (1824-1897)

Nello stesso palazzo di via Senato ebbe sede in quegli stessi anni un’altra importante istituzione di alta formazione, specializzata nelle materie scientifiche applicative. Sulla scia della lezione cattaneana incentrata sul sapere produttivo, sul sapere utile all’economia, sul sapere teso al miglioramento delle vita sociale, la legge Casati, all’articolo 310, stabilì che a Milano fosse aperto un istituto tecnico superiore (il futuro Politecnico) per la formazione di ingegneri e architetti. Il regio decreto 13 novembre 1862 scendeva ancor più nel dettaglio, chiarendo che nell’istituto sarebbe stata attivata una Scuola d’applicazione per ingegneri meccanici e ingegneri agronomici. Il primo direttore fu il professor Francesco Brioschi, celebre patriota milanese che aveva partecipato alle Cinque Giornate di Milano. Negli anni Cinquanta Brioschi aveva tenuto gli insegnamenti di matematica applicata, idraulica e analisi superiore all’ateneo di Pavia. Nel 1851 si era recato all’estero in un viaggio di studio per conoscere la condizione di alcuni atenei, acquisendo una conoscenza approfondita del livello delle istituzioni scientifiche europee. Nominato direttore con decreto 12 febbraio 1863, Brioschi ebbe un ruolo fondamentale nel portare il Politecnico a livelli di eccellenza, il che fece di Milano una città leader nella formazione tecnico-industriale.

Occorre precisare che queste istituzioni di alta formazione, l’Accademia scientifico letteraria e l’Istituto tecnico superiore, ebbero sede nel palazzo di via Senato solo nei primi anni Sessanta dell’Ottocento. Già nell’anno accademico 1865-66 il Politecnico fu trasferito nel palazzo della canonica in piazza Cavour ove sarebbe rimasto fino al 1927. Lo stesso era avvenuto per l’Accademia.

Abbiamo accennato alla storia di queste istituzioni di alta formazione.  Delle due, quella destinata a maggior successo era certamente il Politecnico.

In una rassegna degli istituti d’istruzione esistenti a Milano nell’anno della Esposizione Nazionale del 1881, l’erudito Isaiah Ghiron scriveva a proposito dell’Istituto tecnico:

Apertosi nel 1863 coll’insegnamento della Meccanica razionale e industriale, della Geodesia, della Geologia e Mineralogia applicata, della Topografia, della Geometria descrittiva, della Fisica tecnologica, della Scienza delle costruzioni, della Chimica analitica dell’Idraulica e delle Costruzioni Idrauliche, dell’Agronomia e dell’Economia rurale, vi fu aggiunto nel 1865 quello di architettura e quindi la facoltà di conferire anche il diploma di architetto civile. Più tardi vi s’introdusse l’insegnamento di chimica tecnologica e di metallurgia e gli fu data la facoltà di concedere la laurea d’ingegnere industriale.

Il numero crescente degli alunni d’ogni parte d’Italia e gli uffici che occupano con onore gli allievi che ne sono usciti, rivelano tutta la valentia dei professori e la bontà dell’insegnamento di questo istituto”.

Diverso il commento a proposito dell’Accademia scientifico letteraria, la cui modesta attività era messa in relazione alla deprecata decadenza degli studi classici in una Milano ormai dominata dal clima positivista:

L’età nostra non corre favorevole agli studi classici, e Milano, che più delle altre città italiane rivolse il pensiero alle industrie, deve forse deplorarne maggiormente l’abbandono, desiderare più delle altre che non vadano perdute tutte le antiche tradizioni nazionali, e si conservi tra noi il culto di quelle discipline in cui essa fu maestra al mondo.

Il pane nella Milano d’ancien régime

Il pane oggi non è più un alimento essenziale nella dieta di una persona. E’ invalso l’uso di farne a meno nei pasti quotidiani, a pranzo o a cena, colpevole di essere troppo pesante da digerire o di fare ingrassare costringendoci ad impegnativi percorsi di dimagrimento. E’ quel che avviene nelle ricche società dell’Occidente, in cui gran parte della popolazione può permettersi il lusso di mangiare quello che desidera, non ciò di cui ha bisogno per sopravvivere. I poveri non ragionano in questo modo. Per loro il pane costituisce l’alimento essenziale, come lo è stato per secoli nella società europea.

Quando si afferma la civiltà del pane? Plinio ricorda che nell’antica Roma i primi forni comparvero nel II secolo avanti Cristo. Nella civiltà mediterranea il pane fu l’alimento fondamentale, presente non solo nella civiltà romana ma anche in quella greca, babilonese ed egiziana. Autentico prodotto della civiltà agricola derivato dai cereali, esso garantiva agli uomini e alle donne le calorie necessarie per vivere. Non è un caso se Omero lo descrive come alimento degli uomini civili in opposizione ai barbari che, vivendo di pastorizia e nomadismo, non lo conoscono. “Mangiatori di pane” sono per Omero gli uomini.

pane cattoliciSe il riso costituiva l’alimento primario per la Cina, il mais per le popolazioni dell’America meridionale, il sorgo per quelle africane, il grano fu la base dell’alimentazione mediterranea. Nella tarda romanità e nell’alto Medioevo il pane raggiunse il Nord germanico contendendo alle carni il primato di alimento fondamentale: un processo che si spiega con la diffusione europea del cattolicesimo. Il pane per i cristiani non è solo il corpo di Gesù. E’ il vero simbolo della fede che, coltivata, macinata, impastata, fermenta nei cuori dei fedeli portandoli alla salvezza eterna. Sant’Agostino ci ha lasciato in proposito pagine memorabili. Certo, in una civiltà come quella nord-europea basata sul largo consumo di carne, il pane fatica ad affermarsi come alimento fondamentale nella dieta delle persone. Esso tuttavia si diffonde sempre più nel corso del basso Medioevo: l’aumento della popolazione, provocando una diminuzione degli spazi cui era possibile accedere per la caccia di animali, rese il pane l’alimento essenziale per i contadini e in particolar modo per le classi urbane.

Per buona parte dell’età moderna fino al Settecento, cura costante dei poteri pubblici europei fu di garantire alle città un mercato ben fornito di pane con prezzo calmierato per i ceti popolari. Lo smercio dei cereali non obbediva alla libera legge della domanda e dell’offerta ma era regolato su prezzi politici perché le classi povere potessero procurarsi senza difficoltà un alimento basilare per l’esistenza della persona.

Negli Stati italiani d’antico regime ogni città si riforniva facendo arrivare i cereali dai contadi circostanti sottoposti al suo dominio. A Milano la più antica istituzione civica, il Tribunale di Provvisione, fu costituita nel 1279 con il compito di impedire che i cereali venissero esportati oltre il territorio del Comune. Tale magistratura sarebbe stata soppressa solo con l’arrivo in Lombardia del generale Bonaparte, nella primavera del 1796. Composto dal Vicario e da dodici funzionari provenienti dalle sei porte cittadine (i quartieri del centro di Milano), il Tribunale aveva tra le sue funzioni quella di assicurare la circolazione di questo bene di prima necessità.

Il duca di Milano, Gian Galeazzo Visconti, emanò il 13 luglio 1386 la prima normativa che vietava l’esportazione dei cereali senza un apposito permesso dell’autorità pubblica. L’obiettivo dichiarato era di evitare carestie nel territorio milanese.

Sotto il dominio spagnolo, le Novae Constitutiones emanate da Carlo V nel 1541 – la suprema fonte dell’ordinamento giuridico lombardo erede del diritto visconteo-sforzesco – riservavano all’annona un’intera sezione intitolata De praefectis annonae.  Cosa significa “annona”? Con questo termine ci si riferiva all’organizzazione della pubblica alimentazione da parte del potere politico (dal latino Annona, dea delle biade dell’anno). I prefetti dell’annona erano incaricati di presiedere all’amministrazione e alla giurisdizione su questa materia cruciale per la popolazione del ducato. L’incipit di questa sezione descrive bene l’importanza di tale magistratura nello Stato di Milano d’antico regime:

Non sine ratione Magistratus annonae in excelsa urbe Mediolani constitutus est, qui curam annonae per universam Mediolanensem ditionem haberet. Studeretque ut ordines in eam causam facti observarentur. Quia per huius Magistratus constitutionem, annonae ubertas conservatur ad commodum subditorum & huius imperii tutelam.

[Non senza ragione fu istituito nell’eccelsa città di Milano il Magistrato dell’Annona, perché avesse la cura dell’annona su tutto quanto il milanese nell’accezione ampia del termine, perché operasse affinché fossero rispettati gli ordini emanati su questo tema. Perché, mediante la formazione di questa istituzione, venisse assicurata l’abbondanza dell’annona per il bene dei sudditi e per la sicurezza di questo dominio]

Nella città di Milano, come si è ricordato, tale funzione era gestita dal Vicario e dai XII di Provvisione. Due erano gli ambiti in cui operava questa magistratura civica: il mercato dei cereali, la produzione e la vendita del pane.

Quanto al mercato dei cereali, occorre ricordare che la maggior parte delle operazioni commerciali avveniva nel Mercato del Broletto, il luogo ove doveva essere sistemato il grano proveniente dal contado avendo cura che la merce non subisse furti lungo il trasporto.

Il forno delle grucce
“Il forno delle Grucce” . Incisione di Gonin tratta dai Promessi Sposi

Altrettanto importante era la gestione della produzione e vendita del pane, l’alimento basilare dei milanesi nell’età moderna fino all’Ottocento. Erano prodotti a tal proposito due tipi di pane: il pane bianco, ricavato dal frumento, accessibile alla nobiltà e alla ricca borghesia; il pane di mistura formato da segale, granoturco e miglio. Due corporazioni distinte gestivano la preparazione e la vendita di questi tipi di pane. I prestinai del pano bianco erano in tutto 13 persone che gestivano in via esclusiva lo smercio di questo alimento a Milano. I 13 forni si trovavano in diversi luoghi: oltre a quelli operanti nei sei quartieri cittadini fino ai Bastioni – ad esempio il celebre “prestin dii Scansch” manzoniano in corsia dei Servi, oggi corso Vittorio Emanuele, per il sestiere di Porta Orientale e altri nei sestieri di Porta Romana, Ticinese, Vercellina, Comasina, Nuova – c’erano panettieri “alla Cicogna” (probabilmente ove si trovava palazzo Cicogna – oggi scomparso – in via Unione), a Sant’Ambrogio, alla Rosa (zona piazza San Sepolcro), alle Farine (zona Duomo), ai Rosti (zona San Giorgio al Palazzo), al Cordusio e ai Bossi (zona via Broletto). Alla corporazione del pane misto appartenevano invece più di 100 membri, i quali non potevano certo permettersi gli alti guadagni riservati ai 13 “panettieri privilegiati”.

D’altra parte occorre rilevare che, diversamente dai panettieri che producevano il pane di mistura, i 13 fornai di pane bianco non erano proprietari dei forni ove lavoravano. Tali negozi erano di famiglie nobili o di corporazioni religiose che li affittavano alla corporazione dei prestinai delegando a un organismo del patriziato milanese, la congregazione del Banco di Sant’Ambrogio, la gestione dei lucrosi affitti triennali. Potente istituzione composta da membri del patriziato, questa congregazione svolse nel Settecento un’attività di sorveglianza sui panificatori.  Si pensi che essa poteva revocare a suo piacimento il contratto con uno o più panettieri se non era soddisfatta del servizio o se questi ultimi non fornivano le necessarie garanzie di tutelare i suoi interessi.

A partire dagli anni Sessanta del Settecento, quando i prezzi dei cereali (e quindi del pane) iniziarono a salire in Europa in seguito all’aumento della popolazione, il governo asburgico intraprese alcune inchieste tese a migliorare il commercio e la produzione di questo bene agricolo. Non si arrivò alla piena liberalizzazione dei grani nel commercio interno ed estero quale si ebbe ad esempio nel Granducato di Toscana, ma si assicurò con gli editti del 1770 e del 1771 una parziale liberalizzazione all’interno della Lombardia austriaca. Così, ad esempio, la riforma del 29 agosto 1770 abolì i divieti nel numero dei panettieri rendendo possibile a chiunque produrre e vendere il pane. Cadeva il monopolio tradizionale dei 13 ‘panettieri bianchi’. Se era uscita sconfitta la linea di Pietro Verri e degli imprenditori agricoli, i quali propugnavano la piena liberalizzazione del settore per massimizzare i guadagni, d’altra parte avevano vinto economisti quali Cesare Beccaria e Gian Rinaldo Carli, aperti a una cauta liberalizzazione, diffidenti verso un’astratta legge del mercato che rischiava di impoverire i ceti popolari. Il governo austriaco, alle prese con gravi problemi di ordine pubblico per le carestie avvenute in Boemia e in Moravia, temeva che, ove fosse stata realizzata una piena liberalizzazione, la popolazione lombarda non avrebbe avuto pane a sufficienza.

Il governo austriaco promosse quindi il libero commercio di cereali all’interno della Lombardia austriaca mediante la graduale abolizione delle corporazioni, ma non rinunciò ad intervenire con azioni volte a salvaguardare i bisogni delle classi disagiate.

Una grande istituzione milanese: il Teatro alla Scala

Il 15 luglio 1776 l’imperatrice Maria Teresa d’Asburgo approvò il progetto dell’architetto Giuseppe Piermarini per la costruzione di un teatro di corte nel luogo in cui si trovava l’antica chiesa di Santa Maria della Scala.

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Marc’Antonio Dal Re, Festa in Teatro Ducale del Governatore Pallavicini per la nascita dell’arciduca Pietro Leopoldo nel 1747

Da cinque mesi Milano era sprovvista di un luogo in cui potesse riconoscersi la colta società cittadina. Il vecchio teatro ducale, un suntuoso edificio comprendente 800 posti che si trovava in un’ala del palazzo del governatore (oggi Palazzo Reale) era stato distrutto da un incendio il 26 febbraio. Incendio che, oltre a rendere inagibili per alcuni anni le stanze della residenza di corte costringendo gli arciduchi a traslocare nel palazzo Clerici, aveva privato la città di un teatro importante, che era stato costruito nel 1725 con i fondi del patriziato milanese.

L’imperatrice Maria Teresa ordinò la pronta costruzione del nuovo edificio: i lavori, iniziati il 5 agosto 1776 con la demolizione della chiesa scaligera, terminarono due anni dopo. Il 3 agosto 1778 il Teatro alla Scala apriva al pubblico con l’opera in due atti l’Europa riconosciuta di Antonio Salieri. Furono inoltre eseguiti due balletti, uno a metà dell’opera, l’altro al termine.

Qual era il normale allestimento dello spettacolo in un teatro del Settecento? Anzitutto non dobbiamo pensare che vi fosse un direttore e che l’orchestra fosse nascosta, al di sotto del palco, come avviene oggi. Queste furono invenzioni del compositore, poeta e musicista tedesco Richard Wagner (1813-1883) che vennero introdotte progressivamente nei teatri europei verso la fine dell’Ottocento.

Nel XVIII secolo l’orchestra era situata sul palco ove si svolgeva la scena principale. Allo spettacolo principale (commedia o melodramma) era affiancata l’esecuzione di scene mute nei palchi situati ai lati. Il melodramma poteva essere intervallato da balletti.

Scrisse Montesquieu in un passo delle Lettere persiane (pubblicate nel 1721) ove descriveva una rappresentazione  teatrale all’Opera di Parigi:

Montesquieu
Charles Louis Secondat barone di Montesquieu

La gente verso la fine del pomeriggio si raduna per fare una specie di recita che ho sentito chiamare commedia. L’azione principale si svolge su una scena che si chiama teatro. Ai due lati, in certi piccoli ridotti, che si chiamano palchi, si vedono degli uomini e delle donne che rappresentano insieme delle scene mute… Qui c’è un’amante afflitta che esprime il suo abbattimento; un’altra con occhi vivaci e aspetto appassionato, divora con gli occhi il suo amante, che la guarda allo stesso modo; tutte le passioni sono dipinte sui visi ed espresse con un’eloquenza che, essendo muta, è ancora più viva.

Gli spettacoli teatrali nella Milano settecentesca non dovevano essere molto diversi da quelli descritti da Montesquieu.

Ma torniamo a quel 3 agosto 1778, giorno dell’inaugurazione del teatro alla Scala. La Gazzetta di Milano, nel descrivere l’entusiasmo con cui i presenti avevano assistito allo spettacolo, non mancò di accennare alla grandiosa architettura del teatro, soffermandosi in particolar modo sull’impegno con cui le famiglie milanesi, proprietarie dei palchi, avevano contribuito a rendere memorabile quella serata addobbando gli ambienti con mobili e oggetti lussuosi. Anche l’impresa teatrale aveva arredato sontuosamente i ridotti, le stanze ove si praticava il gioco d’azzardo. A quell’epoca l’impresa teatrale era stata appaltata dallo Stato ad alcuni nobili milanesi. Dal 1776 vi facevano parte il conte Carlo Ercole Castelbarco Visconti, il marchese Antonino Menafoglio, il marchese Bartolomeo Calderara amico intimo di Cesare Beccaria, il marchese Giacomo Fagnani. L’impresa curava l’amministrazione del teatro vendendo i posti accessibili al pubblico, curando lo smercio delle bevande, allestendo i tavoli per il gioco d’azzardo.

Sulla Gazzetta di Milano si leggeva questo resoconto pochi giorni dopo l’inaugurazione:

Nella sera di Lunedì scorso giorno 3 del corrente, giusta quanto erasi già da due mesi annunciato, si fece l’apertura di questo nuovo Regio Ducal Teatro colla prima rappresentazione intitolata L’Europa riconosciuta in due Atti…

Non potevasi con pompa maggiore solennizzare un’Epoca di simile pubblica allegria in questa Città. E ben lo meritava la grandiosità, e magnificenza dell’Edificio disegnato ed eretto dal Regio Professore ed Architetto Signor Don Giuseppe Piermarini, il quale mediante il favore di Sua Altezza Reale il Serenissimo nostro Arciduca [l’arciduca Ferdinando di Asburgo Lorena, figlio di Maria Teresa, governatore della Lombardia] e la splendidezza de’ Proprietari de’ Palchetti, lo seppe rendere in questo genere il migliore forse d’Europa.

Frontispizio, solidità, forma, compartimento, grandezza, comodi, ornamenti, proporzione, risonanza, visuale, tutto in esso è ammirabile, tutto grandioso, tutto il meglio all’uso adattato. Corrispondente a sì bella fabbrica è pure il lusso ed il buon gusto, con cui, e ciascun Particolare adornò il proprio Palchetto e la nobile Associazione della teatrale impresa sfoggiò negli ornati e ne’ mobili delle vaste Sale de’ Ridotti; onde senza esagerazione potrebbe assicurarsi non ritrovarsi altrove un pubblico luogo da potersi a questo in ricchezza e beltade uguagliare.

L’apertura di un tal Teatro: il Dramma di composizione nuovo, di genere inusitato: la prima rappresentazione, che da’ nobili Associati dopo l’impegno da loro assunto si esponeva: la notorietà del dispendioso apparecchio, che da lungo tempo questi facevano, erano motivi, che tanto avevano l’universale aspettazione ingrandito, che credevasi difficile il poterla bastantemente appagare. Con tutto ciò lo Spettacolo ebbe un felicissimo incontro, ed il Pubblico restò soddisfatto…

In realtà, l’architettura del teatro sollevò alcune perplessità nei contemporanei. Pietro Verri, in una lettera al fratello Alessandro scritta nel luglio 1778, ammise la sua delusione per la mole dell’edificio il cui loggiato, distaccandosi dalla facciata per consentire il passaggio delle carrozze, spezzava a suo giudizio l’armonia complessiva della fabbrica. Bisogna tener presente che allora non esisteva piazza della Scala, che fu costruita nel 1858 mediante l’abbattimento delle case tra palazzo Marino e il teatro. Verri, passeggiando in via Santa Margherita, non disponeva quindi di spazio sufficiente per ammirare la facciata nella sua interezza, il che finiva per rendergli sproporzionata la mole dell’edificio rispetto all’asse della strada. Verso la fine della lettera, l’illuminista lombardo accennava curiosamente  a “un casotto”, termine con cui si riferiva al tetto, eccessivamente alto.

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Un particolare del quadro di Angelo Inganni, La facciata del Teatro alla Scala, 1852

La facciata del nuovo teatro è bellissima in carta, e mi ha pure sorpreso quando la vidi prima che si mettesse mano alla fabbrica; ma ora quasi mi dispiace. Nel disegno tu vedi la facciata come una sola superficie, nella esecuzione sono tre pezzi. Il portico di bugne si avanza molto, e servendo al passaggio delle carrozze che vanno al teatro ti copre e offusca parte dell’edificio. Se ti scosti poi per vedere scemata la deformità, ti spunta un casotto in cima alla facciata che è poi il tetto assai alto.

Mi chiedo cosa direbbe oggi Pietro Verri se vedesse la colossale torre scenica a forma di cubo o l’edificio a pianta ellittica: due recenti costruzioni che troneggiano sopra il vecchio tetto del teatro.

Beccaria e la disoccupazione

La disoccupazione è uno dei temi di maggiore attualità. L’Ocse, nel rapporto economico dedicato all’Italia, ha sostenuto che le riforme strutturali che il governo sta portando avanti  – dalla pubblica amministrazione al lavoro – saranno in grado di creare 340.000 posti di lavoro in cinque anni. Se consideriamo che i disoccupati (stime Istat 2014) sono più di tre milioni con una percentuale che per i giovani tra i 15 e i 24 anni resta superiore al 40%, si ha un’idea delle preoccupanti dimensioni del fenomeno.

Come uscirne? Tornare alla figura di Cesare Beccaria può esserci d’aiuto, in particolar modo al Beccaria funzionario nel governo della Lombardia austriaca tra il 1771 e il 1794. Può sembrare strano ma anche l’illuminista lombardo dovette fare i conti con il problema della disoccupazione. Diamoci un’occhiata.

Cesare Beccaria (1738-1794)
Cesare Beccaria (1738-1794)

Negli anni Ottanta del Settecento il fenomeno interessava soprattutto il comasco, un territorio ove operavano molti setifici che esportavano i prodotti nelle fiere del Levante. La seconda guerra russo-turca, scoppiata nel 1787 e protrattasi fino al 1792, aveva provocato tuttavia una notevole instabilità nei commerci internazionali. Questo segnò un calo considerevole delle vendite di sete lavorate nei mercati tedeschi che erano in rapporti con l’Oriente. Ne risultò a Como una eccessiva produzione di manufatti che il mercato non fu in grado di assorbire. I proprietari dei setifici, di fronte al calo della domanda, furono costretti a limitare la produzione e a licenziare molti operai.

Nel 1787, quando Beccaria si recò a Como per rendersi conto della situazione, i disoccupati erano divenuti alcune migliaia, una numero rilevante se si tiene presente che la città di Como e la pianura circostante contavano nel 1785 sui 42.000 abitanti (esclusi i paesi di montagna o sull’alto lago).  Molti disoccupati, rimasti senza fonti di sostentamento, finirono per ingrossare le fila dei delinquenti commettendo tumulti e furti nelle campagne. La situazione era grave. Il governo si trovava di fronte a un problema di ordine pubblico, ma era evidente che per risolverlo occorreva affrontare in modo adeguato la causa che stava più a monte: la disoccupazione.

Beccaria convocò le autorità del luogo: l’intendente politico di Como, che corrispondeva all’incirca al prefetto di oggi; il vescovo della città; il prefetto e la congregazione municipale, oggi diremmo il sindaco e la giunta comunale. Per risolvere il problema furono avanzate tre proposte, che Beccaria sottopose al governo austriaco migliorandole in alcuni punti. Vorrei qui accennarti le due che mi sembrano più importanti.

La prima riteneva opportuno procurare un lavoro “di badile” a quei disoccupati che erano stati mediocri lavoratori. Si trattava di giovani che, soffrendo la fame, erano disposti a tutto. Si pensò quindi di impiegarli in opere di bonifica. Gli abitanti di Borgo Vico (oggi Como) – un paese situato nella parte nord occidentale del lago – vivevano in un ambiente insalubre; il terreno Pasqué, reso paludoso dai periodici inondamenti del lago e dalle esondazioni del torrente Cosia, provocava l’insorgere di febbri malariche che colpivano periodicamente gli abitanti del paese; un istituto religioso, il Luogo Pio dei Catecumeni, pagava 10.000 lire all’Ospedale Maggiore perché i malati fossero trasportati e curati a Milano. La proposta consisteva nell’abbassare la foce del Cosia: gli operai avrebbero trasportato la ghiaia dal torrente al prato affinché cessassero le inondazioni che lo rendevano paludoso. Per il finanziamento dei lavori si sarebbe fatto ricorso al fondo di 10.000 lire destinato originariamente all’Ospedale Maggiore. Beccaria approvava questa proposta perché riteneva che la bonifica del territorio avrebbe finito per ridurre il numero dei malati da portare all’ospedale. Lo Stato, cui spettava l’amministrazione del Luogo Pio in seguito alla riforma del 1784, avrebbe quindi risparmiato risorse nel lungo periodo.

La seconda proposta era tesa invece a procurare un impiego agli ex lavoratori della seta che avevano mostrato una certa abilità. Si trattava soprattutto delle donne. Si proponeva di insegnar loro l’arte del linificio attivando scuole provvisorie in alcuni ex conventi. Il comune di Como chiese allo Stato un prestito di 16.000 lire che avrebbe rimborsato in due anni: in tal modo sarebbe stato in grado di istituire le scuole, pagare gli insegnanti, procurare il fuoco e il lino per il lavoro. Beccaria apportò alcuni miglioramenti a questa proposta: convinse il governo ad elevare il prestito portandolo a 20.000 lire da rimborsare in tre anni anziché due.

Cosa ci insegna questa storia? Nel caso degli operai impiegati nelle opere di bonifica possiamo ricavare due lezioni: a) che le opere pubbliche utili alla collettività sono un mezzo valido per risolvere la disoccupazione in circostanze eccezionali. Keynes lo dimostrò nel saggio The Means of Prosperity pubblicato nel 1933; b) che anziché alzare le tasse o ridurre i servizi, lo Stato dovrebbe impiegare meglio il denaro pubblico per finanziare interventi davvero utili alla collettività.

Le scuole provvisorie per apprendere l’arte del linificio possono essere considerate le antenate dei corsi di formazione per disoccupati organizzati al giorno d’oggi.

L’attualità di Cesare Beccaria professore di economia pubblica

Nel 2014, in occasione dei 250 anni dalla pubblicazione Dei delitti e delle pene, sono usciti due volumi su Cesare Beccaria. Il primo (Scritti economici, a cura di Gianmarco Gaspari) fa parte della monumentale Edizione Nazionale delle Opere di Cesare Beccaria pubblicata da Mediobanca. E’ il terzo volume in cui sono pubblicati tutti i contributi dell’illuminista lombardo in tema economico.

Il secondo libro, L’arte della ricchezza pubblicato da Mondadori, è scritto dal senatore Carlo Scognamiglio Pasini. E’ presa in esame la figura dell’illuminista milanese nel breve periodo in cui fu professore di economia pubblica (1769-1771) presso le Scuole Palatine di Milano e negli anni in cui ricoprì l’ufficio di funzionario nel governo dello Stato di Milano al servizio dei sovrani austriaci (1771-1794).

Le Scuole Palatine di Milano in unin
Le Scuole Palatine di Milano in piazza Mercanti in una incisione settecentesca di Marc’Antonio Dal Re. Avevano sede nell’edificio centrale e al piano superiore di quello a destra.

Questi autori non sono i primi ad essersi occupati in modo approfondito del Beccaria economista. Desidero ricordare ad esempio il bel volume Riformatori lombardi, piemontesi e toscani curato da Franco Venturi nel 1958 nella serie Illuministi italiani pubblicata dalla casa editrice Ricciardi.

Sette anni fa, assieme a mio padre, io stesso ho curato un saggio sul Beccaria docente di economia pubblica. Si tratta del volume Cesare Beccaria visto da Fulvio e Gabriele Coltorti (Luiss University Press, Roma 2007). Nella parte affidata alla mia penna, dopo aver tracciato un profilo biografico, ho preso in esame l’insegnamento di Beccaria mettendo in relazione il contenuto delle sue lezioni con i concreti obiettivi di politica economica fissati a quel tempo dalle monarchie germaniche. Occorre ricordare infatti che lo Stato di Milano, nella seconda metà del Settecento, faceva parte dei territori sottoposti al dominio degli Asburgo di Vienna.

Il cameralista e giurista austriaco Joseph von Sonnenfels
Il cameralista e giurista austriaco Joseph von Sonnenfels (1732-1817)

L’imperatrice Maria Teresa, quando nel 1768 nominò Beccaria alla cattedra di economia pubblica – cattedra inizialmente definita “scienze camerali” – si attendeva che il filosofo milanese impostasse il lavoro seguendo l’esempio del cameralista Joseph von Sonnenfels, attivo in quegli stessi anni all’Università di Vienna. Cosa insegnavano i cameralisti? Insegnavano – e suggerivano ai sovrani come fidati consiglieri – i provvedimenti più efficaci per arricchire lo Stato, rafforzarne la potenza, assicurare il benessere e la felicità dei sudditi. I cameralisti seguivano insomma l’impostazione dottrinaria dei mercantilisti, i quali nel secolo precedente avevano raccomandato un deciso intervento dello Stato nell’economia.  La differenza era che i primi avevano capito che le ricette economiche non contano nulla se non vengono realizzate da uno Stato retto su un’amministrazione efficiente. Questo spiega per quale motivo i cameralisti del Settecento insegnavano non solo la Scienza del commercio (Handlungswissenschaft o Oekonomische Wissenchaft), ma anche la Scienza delle finanze o camerale (Kameralwissenschaft) e la Scienza della polizia (Polizeiwissenschaft), quest’ultima intesa nel senso ampio di amministrazione pubblica.

Beccaria non seguì del tutto l’impostazione germanica: nei pochi anni in cui fu professore di scienze camerali limitò il suo corso all’economia pubblica senza toccare la parte relativa alla polizia e alle finanze, che era tipica invece della cameralistica. Eppure, nonostante queste mancanze – dovute probabilmente alla decisione di lasciare l’insegnamento – la sua teoria economica riveste un’assoluta originalità, mostrandosi per certi versi superiore a quella del coevo Adam Smith.

Cesare Beccaria (1738-1794)
Cesare Beccaria (1738-1794)

Oggi, quando sentiamo parlare di Beccaria, ci viene spontaneo pensare al trattatello Dei delitti e delle pene che fu decisivo nella riforma della legislazione penale negli Stati europei del XVIII e XIX secolo (compreso l’impero russo di Caterina II). Beccaria fu non solo questo. Anzi, fu assai più di questo. Il Beccaria genuino è il professore di scienze camerali che spiegava agli studenti i fondamenti dell’economia pubblica. Anche in veste di pubblico funzionario al servizio dello Stato di Milano austriaco diede negli ultimi anni della sua vita un contributo importante…ma questa sarà materia per un altro intervento.

Chiediamoci ora se il pensiero economico di Beccaria sia attuale. Come si poneva l’illuminista lombardo dinanzi al tema, tuttora scottante, dell’intervento dello Stato nell’economia di un Paese? Beccaria seguiva una via di mezzo che lo distanziava sia dai cameralisti che dai teorici del laissez faire.  Sosteneva che il governo poteva intervenire solo per rimuovere gli ostacoli al libero commercio e al fare impresa.

In merito agli aiuti di Stato, Beccaria direbbe ad esempio che i fondi pubblici a sostegno delle imprese sono inutili e dannosi per due ragioni: a) perché privilegiano inevitabilmente alcuni a danno di altri; b) perché l’industriale tenderebbe a vivere di fondi pubblici come un parassita e non se ne servirebbe per migliorare l’impresa. Se il capitale pubblico prestato all’imprenditore ha tempi lunghi di rimborso, questi cercherà di sfruttarlo per sé “contentandosi” – sono parole di Beccaria a proposito delle manifatture – “di esibire un’apparenza di travaglio più per conservarsi il diritto di prolungare la restituzione o di chiedere nuovi soccorsi”. Una lezione che la nostra classe politica democristiana dimostrò di ignorare se pensiamo alla politica fallimentare della Cassa del Mezzogiorno.

Beccaria auspicava una politica economica oculata. Lo Stato deve agire per premiare – così diceva nelle sue lezioni – “l’attività già fatta”: punto decisivo perché non si aiuta l’imprenditore a fare qualcosa che non ha fatto, ma lo si aiuta premiando l’impresa che ha conseguito eccellenti risultati nella libera competizione del mercato. “Il premio è di un solo” – ci dice Beccaria – “ma l’emulazione è di molti: la speranza, che è uno dei più grandi agenti dell’uomo socievole, mette in fermento l’interesse privato di ciascheduno”.

In concreto, per Beccaria un Paese può arricchirsi solo se il governo promuove il commercio con quattro misure:

  1. Stimolando la massima concorrenza venditori/compratori. E’ la concorrenza il vero motore del progresso: è l’“universale concorrenza che aumenta il moto e l’azione … rendendo ogni cosa prontamente correspettiva rappresentatrice d’ogni altra, anima l’industria e la speranza di ogni membro della Società”;
  2. Impiegando meno manodopera possibile e velocizzando la produzione: “Ogni opera nel minor tempo possibile e dalle più poche mani che si può venga fatta;
  3. Migliorando le infrastrutture e i trasporti per rendere più veloce il commercio all’interno di una nazione;
  4. Garantendo bassi interessi del danaro per stimolare i prestiti. Vedeva con favore un aumento della circolazione monetaria.