La Società Svizzera: astro dell’associazionismo milanese di fine ‘800

Negli anni Ottanta del XIX secolo Milano vide il fiorire di molte associazioni attive nel campo della cultura, dello sport, della scienza. Questo fenomeno fu dovuto sostanzialmente a due ragioni. La prima si legava alla libertà di associazione garantita dall’articolo 32 dello Statuto Albertino, la Costituzione del Regno d’Italia sabaudo estesa alla Lombardia nel 1859: esso riconosceva il diritto di riunione in luoghi chiusi anche se questo era vincolato alla preventiva autorizzazione del governo. I milanesi poterono disporre in tal modo di un margine di libertà che trent’anni prima, sotto il dominio austriaco, sarebbe stato inimmaginabile.

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Apertura della ferrovia del San Gottardo (23 maggio 1882) da “Centotrentanni della Società Svizzera di Milano”, a cura di Renata Broggini, Jean Pierre Hardegger, Marino Viganò, Hoepli-Seb editrice 2013

L’aumento del fenomeno associativo era dovuto in secondo luogo al proliferare di una classe piccolo borghese bisognosa di spazi in cui condividere i propri hobby. A ben vedere, la formazione di società di questo tipo non riguardava solo i milanesi ma anche i tanti stranieri che, stabiliti a Milano per ragioni di lavoro, desideravano ritrovarsi nel tempo libero e condividere l’amore per la patria lontana. La Società Svizzera di Milano costituiva a tal proposito un caso emblematico. Fondata il 15 dicembre 1883, riuniva al suo interno le associazioni elvetiche esistenti in città. La data di nascita non fu casuale: il sodalizio nasceva infatti per aiutare i cittadini della Confederazione che, in seguito all’apertura della linea ferroviaria del San Gottardo (1882), giungevano numerosi a Milano dai cantoni di lingua tedesca in cerca di lavoro.

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Il volume pubblicato dalla Società Svizzera di Milano

L’anno scorso la Società Svizzera ha pubblicato un bel volume per festeggiare i 130 anni della sua attività. Il libro, Centotrentanni della Società Svizzera di Milano 1883-2013 (curato da Renata Broggini, Jean Pierre Hardegger e Marino Viganò, Hoepli-Seb Editrice 2013) prende in esame la storia del sodalizio mediante il ricorso ai preziosi documenti conservati dalla Società.

Ulrico Hoepli
Ulrico Hoepli

Tra i primi soci troviamo i nomi di tante personalità che diedero lustro a Milano. E’ il caso soprattutto di Ulrico Hoepli, presidente della Società Svizzera dal 1886 al 1889, fondatore della celebre libreria oggi in piazzale Meda. Originario del villaggio di Tuttwill (nel cantone di Turgovia), giunse a Milano all’età di 23 anni. Fissata la prima attività nel campo editoriale in Galleria De Cristoforis, Hoepli divenne famoso per aver fondato l’omonima casa editrice che pubblicò una fortunata serie di manuali nei più svariati campi delle scienze e delle arti.

Fu Hoepli a trovare i primi locali alla Società Svizzera: quattro stanze prese in affitto in via Silvio Pellico 6 con vista su piazza del Duomo. Qui il sodalizio tenne le riunioni dal 1886 al 1914, quando l’aumento dei soci rese necessario l’acquisto di una casa in via Disciplini 11, nel sestiere di Porta Ticinese. Il trasferimento nel nuovo stabile fu però contrastato. Oggi via Disciplini è una tranquilla strada del centro la cui importanza si collega al suo tracciato peculiare: assieme alla parallela via Cornaggia, essa infatti mostra tuttora alcuni ruderi delle antiche mura romane. La situazione era ben diversa nei primi anni del Novecento: l’isolato faceva discutere perché di fronte all’edificio acquistato dalla Società Svizzera si trovava una casa di tolleranza la cui fama non era certo legata a iniziative nel campo dello sport o della cultura. La decisione di trasferirsi in quella via provocò quindi un certo disaccordo tra i membri del sodalizio, sollevando polemiche che culminarono nell’abbandono di 30 soci. La Società Svizzera seppe tuttavia guadagnarsi nel tempo la simpatia dei milanesi, dando vita a tante iniziative che contribuirono a migliorare le condizioni dell’isolato.

La bandiera del "Mannerchor", 1887 da "Centrotrentanni della Società Svizzera di Milano"
La bandiera del “Mannerchor”, 1887 da “Centrotrentanni della Società Svizzera di Milano”

Negli anni Venti e Trenta la Società Svizzera era formata dalle Sezioni più antiche: il gruppo dello Schweizer Gesangverein (esistente dal 1869) riuniva i cultori dei canti patriottici immersi nell’atmosfera romantica di Friedrich Schiller e Wilhelm Tell. Gli appassionati del gioco dei birilli o Kegelspiel (dal 1875) contribuirono a far conoscere ai milanesi uno sport tipico della Svizzera che può essere considerato – nonostante alcune differenze nel regolamento di gioco – l’antenato del bowling britannico. V’era poi la Sezione Ginnasti (1874) che riuniva giovani sportivi legati in amicizia con la milanese “Forza e Coraggio”. La sezione Tiratori (1889) consentì di mantenere vivo a Milano l’amore per un altro sport di origine svizzera. Nel 1914 venne costituita la Sezione Signore su iniziativa di Sophie Vonwiller: nata poco dopo lo scoppio della Grande Guerra, questa sezione procurò il vestiario ai soldati in partenza per il fronte.

La Società Svizzera ebbe sede in via Disciplini fino alla seconda guerra mondiale, quando i bombardamenti spinsero il sodalizio a cercare un altro edificio. Nel 1951, grazie al sostegno della Confederazione, venne inaugurata la parte bassa dell’attuale sede in piazza Cavour. Si tratta di un complesso imponente, costruito dagli architetti Armin Meili di Zurigo (1892-1981) e Giovanni Romano (1905-1990) per ospitare le istituzioni elvetiche: oltre alla Società Svizzera, vi hanno sede oggi il Consolato generale, la Camera di Commercio e l’Ufficio nazionale svizzero del turismo. Nel 1952 venne ultimata la torre tra piazza Cavour e via del Vecchio Politecnico: un edificio di 20 piani, alto 78 metri, che costituiva a quell’epoca il più alto grattacielo di Milano.

Babbo Natale scrive ai bambini Tolkien nel duro inverno 1931

John Ronald Reuel Tolkien (1892-1973) non è stato solo il grande romanziere fantasy de Il Signore degli Anelli e Lo Hobbit che molti di noi conoscono. E’ stato un brillante professore di storia, esperto di letteratura medievale inglese.

John Ronald Reuel Tolkien da www.tolkien.it
John Ronald Reuel Tolkien da www.tolkien.it

A molti potrà sembrare il profilo di uno studioso immerso negli studi, lontano dalla realtà. Nulla di più sbagliato. Tolkien seguì attentamente gli eventi del suo tempo. Partecipò alla prima guerra mondiale prendendo parte nel marzo 1916 alla sanguinosa battaglia sul fronte della Somme come ufficiale segnalatore nell’esercito britannico.

Nel primo dopoguerra fu professore ad Oxford di Lingua e Letteratura anglosassone ma l’attività accademica non gli impedì di assistere con preoccupazione ai gravi eventi economici e politici che si susseguirono negli anni Venti e Trenta del secolo scorso.

Nel periodo natalizio Tolkien era solito spedire ai suoi nipoti lunghe lettere di auguri calandosi nei panni di Babbo Natale.

Per farti gli auguri di Natale ho scelto il passo di una lettera spedita dal professore inglese il 23 dicembre 1931. Due anni dopo il crollo di Wall Street, quando la crisi economica si era estesa ormai all’Europa gettando nella povertà milioni di persone, Babbo Natale scrisse ai bambini Tolkien:

“Cliff House, North Pole

My dear children,

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Babbo Natale da www.brand-identikit.it

I hope you will like the little things I have sent you. You seem to be most interested in railways just now, so I am sending you mostly things of that sort. I send as much love as ever, in fact more. We have both, the old Polar Bear and I, enjoyed having so many nice letters from you and your pets.

If you think we have not read them you are wrong, but if you find that not many of the things you asked for have come, not perhaps quite as many as sometimes, remember that this Christmas all over the world there are a terrible number of poor and starving people. I (and also my green brother) have had to do some collecting of food and clothes and toys too for the children whose fathers and mothers and friends cannot give them anything, sometimes not even dinner.

I know yours won’t forget you. So, my dears, I hope you will be happy this Christmas do not quarrel, you will have some good games with your railway all together.

Don’t forget old Father Christmas when you light your tree”.

Nelle difficili condizioni economiche in cui versa l’Europa – in particolare l’Italia – credo che questa lettera ci consente di comprendere lo spirito di quei tempi, purtroppo non molto diversi da quelli attuali.

Padre Gemelli e le finalità dell’Università Cattolica

Riprendiamo la storia dei chiostri di Sant’Ambrogio. Cominciamo da una data precisa: il 30 ottobre 1932. In quel giorno l’antico monastero divenne sede dell’Università Cattolica del Sacro Cuore. In realtà, l’ateneo esisteva già da alcuni anni: la data di nascita risale al 7 dicembre 1921.

Padre Gemelli, Olgiati, Necchi
Monsignor Francesco Olgiati, padre Agostino Gemelli, Ludovico Necchi in una foto del 1919. Foto Masha Sirago

La fondazione dell’Università Cattolica fu dovuta all’incrollabile forza di volontà del francescano Agostino Gemelli (al secolo Edoardo, 1878-1959). Un vivace gruppo di intellettuali cattolici lo aiutò nella realizzazione di questa impresa: monsignor Francesco Olgiati, Armida Barelli, Ludovico Necchi, il conte Ernesto Lombardo.

Padre Agostino Gemelli in una foto dei primi anni del Novecento. Da http://stelleincielofratellosolesorellaluna.blogspot.it/2013/05/padre-agostino-gemelli-ofm-fondatore.html
Padre Agostino Gemelli in una foto dei primi anni del Novecento. Da http://stelleincielofratellosolesorellaluna.blogspot.it/2013/05/padre-agostino-gemelli-ofm-fondatore.html

I chiostri di Sant’Ambrogio erano familiari da tempo al fondatore. Qui Edoardo aveva passato una parte della giovinezza. Nel 1902, appena laureato in medicina, vi trascorse il periodo del servizio militare con l’incarico di curare i soldati rimasti gravemente feriti. In quei cortili Gemelli, che si era allontanato dalla pratica religiosa fin dagli anni del liceo, sentì rinascere la fede grazie ad alcuni amici e all’incontro con i francescani dediti alla cura dei malati. L’anno dopo giunse – improvvisa – la vocazione religiosa: Edoardo entrò nell’ordine di San Francesco alla fine del 1903 nonostante la forte contrarietà dei genitori, i quali non esitarono a sostenere una campagna giornalistica per evitare che il figlio entrasse in convento.

Torniamo all’Università Cattolica. Quali furono le ragioni che spinsero padre Gemelli e i suoi collaboratori a fondarla nel 1921? Possiamo affermare anzitutto che la situazione dei cattolici italiani non era allora particolarmente critica. Le riserve della classe politica nazionale nei loro confronti erano cadute in gran parte: durante la prima guerra mondiale i cattolici si erano dimostrati leali servitori dello Stato; nel dopoguerra  don Luigi Sturzo fondò un partito cattolico che aveva consentito alle masse una larga partecipazione alla vita politica dopo anni di distacco. Deputati cattolici erano addirittura al governo del Paese. La fondazione dell’Università Cattolica costituiva in fondo il coronamento di un percorso di avvicinamento all’alta cultura scientifica – nazionale e internazionale – che era stato assai lungo e tormentato.

Godefroid Kurth (1847-1916). Photo Institut Jules-Destrée (Droits SOFAM)
Godefroid Kurth (1847-1916). Photo Institut Jules-Destrée (Droits SOFAM)

Vent’anni prima, negli ultimi anni dell’Ottocento i cattolici italiani godevano in Europa di un credito assai limitato nel campo degli studi. Alcuni intellettuali, essi stessi cattolici, li consideravano addirittura una massa di ignoranti. Al congresso internazionale degli scienziati cattolici tenuto a Friburgo tra il 16 e il 20 agosto 1897, lo storico belga Godefroid Kurth rivolse critiche spietate. A chi proponeva di scegliere Roma per la riunione degli scienziati da tenersi l’anno successivo egli rispose: “Il nostro è un congresso scientifico. Ora io vi domando: ci vien forse da Roma e dall’Italia la luce scientifica? Dove sono le sue alte scuole, i suoi istituti, le sue pubblicazioni?”.  L’analisi del Kurth fotografava in modo impietoso lo stato della cultura cattolica italiana alla fine dell’Ottocento ma era ancora valida per certi versi nel primo ventennio del Novecento.

Si capisce quindi come l’Università Cattolica fosse stata fondata al fine di sanare la mancanza di cultura scientifica nei cattolici italiani. Non fu un caso se l’ateneo venne stabilito a Milano, città più aperta al progresso e alla modernità rispetto a Roma. Le prime facoltà furono Filosofia e Scienze sociali. Come ricordava padre Gemelli in un discorso degli ultimi anni, le finalità dell’ateneo alle sue origini erano due:

Padre Gemelli
Padre Agostino Gemelli da http://www.studisemeriani.it/archives/3228.

“Nacque la nostra Università con questo duplice programma: innanzitutto preparare all’Italia giovani cattolici in guisa che essi potessero diventare attivi membri della comunità sociale; in secondo luogo, ma non come compito secondario bensì principale, elaborare le dottrine alle quali questi giovani debbono richiamarsi nella loro azione; difatti ciò di cui il mondo ha bisogno sono soprattutto le idee”.  Egli fornì agli studenti una preparazione scientifica informata ai severi standard delle università belghe e tedesche. L’Università Cattolica doveva essere la prova che in Italia scienza e fede non erano inconciliabili.

Russia: le sanzioni occidentali fanno temere la recessione

Fosche nubi si addensano sulla Russia. Nei giorni scorsi il rublo si è svalutato sensibilmente nei confronti di euro e dollaro. Agli sportelli delle banche è stata una corsa al cambio della moneta. Se a questo aggiungiamo il forte calo del prezzo del petrolio, da cui il Cremlino ricava oltre metà delle entrate, non è difficile intuire che i mesi a venire saranno per i russi a dir poco problematici. Alcuni già scommettono che l’anno prossimo Mosca entrerà in recessione. Oggi il presidente Vladimir Putin, parlando in una conferenza stampa davanti a 1200 giornalisti, ha assicurato che il Paese uscirà dal pantano nel giro di due anni. Gli analisti però nutrono seri dubbi.

Il presidente russo Vladimir Putin in una foto pubblicata da www.the-american-interest.com
Il presidente russo Vladimir Putin in una foto pubblicata da www.the-american-interest.com

La crisi della moneta russa è la conseguenza delle tensioni scaturite recentemente nei rapporti tra il Cremlino e la comunità internazionale. Putin ha puntato il dito contro l’Occidente: “La crisi” – ha detto nella conferenza stampa di oggi – “è provocata da elementi esterni. Vogliono che l’orso [la Russia] stia seduto tranquillamente e mangi il miele, ma tentano di metterlo in catene, di togliergli i denti e gli artigli e impagliarlo”. A cosa si riferisce? Alle sanzioni che gli Stati Uniti e l’Unione Europea hanno adottato contro Mosca per aver violato i trattati e le norme di diritto internazionale nella questione ucraina. E’ qui infatti che gli opposti interessi della Russia e dei paesi occidentali si sono scontrati in tutta evidenza. Putin ha mostrato di non voler rinunciare a territori sui quali Mosca ha esercitato da secoli la sua influenza: l’annessione della Crimea, il sostegno ai partigiani filorussi del sudest ucraino sono atti di una politica tesa a difendere il ruolo della Russia quale grande potenza mondiale su un piano di parità con gli altri paesi del G7.

Il presidente degli Stati Uniti Obama con il presidente polacco Komorowski. Photo: PAP/Pawel Supernak
Il presidente degli Stati Uniti Obama con il presidente polacco Komorowski. Photo: PAP/Pawel Supernak

Dall’altra parte troviamo le potenze occidentali, Stati Uniti in testa. Obama ha garantito pieno appoggio ai governi ucraini che si sono succeduti dopo la rivoluzione di Jevromajdan, asserendo che la libertà del popolo ucraino sarà difesa ad ogni costo. Nel discorso tenuto a Varsavia il 5 giugno il presidente degli Stati Uniti, mettendo sullo stesso piano l’Ucraina di oggi con la Polonia dei primi anni Novanta liberata dal comunismo sovietico, ha affermato: “in qualità di uomini liberi noi ci uniamo, non semplicemente per salvaguardare la nostra sicurezza, ma per far compiere passi avanti alla libertà altrui…lo facciamo perché crediamo che i popoli e le nazioni abbiano il diritto di determinare il proprio destino. E ciò include il popolo ucraino”. Obama ha le idee chiare: intende ridimensionare la Russia confinandola al rango di una potenza regionale. L’obiettivo è allargare ad est la sfera d’influenza militare ed economica dell’Occidente, favorendo l’ingresso dell’Ucraina nella Nato e nell’Unione Europea.

Le tensioni tra l’Unione europea e la Russia si sono acuite nelle scorse settimane quando Putin ha annunciato di voler fermare la costruzione del gasdotto Southstream che avrebbe consentito ai paesi dell’Europa meridionale (Bulgaria, Serbia, Ungheria, Slovenia, Austria e Italia) di ottenere il gas russo senza passare per la costosa mediazione dell’Ucraina. Nello spiegare l’abbandono del progetto, Putin ha puntato il dito contro la Bulgaria e l’Unione Europea, responsabili di aver bloccato l’avanzamento dei lavori. Non sappiamo di chi sia la colpa. E’ certo che tutto questo ha finito per rendere ancor più profonda la spaccatura tra Russia e Occidente.

L'assedio di Očakov 1788, di Sučodolskij da http://john-petrov.livejournal.com/655857.html
L’assedio di Očakov 1788, di Sučodolskij da http://john-petrov.livejournal.com/655857.html

Il 17 dicembre 1788, durante la guerra russo-turca, il generale Grigorij Alexsandrovič Potëmkin conquistò la fortezza ucraina di Očacov. Quella vittoria consentì alla Russia di mantenere la Crimea e di ottenere una fortezza che, situata in un punto strategico quale il lato destro della foce del Dnepr, venne espugnata grazie a un memorabile assedio che aveva ridotto alla fame gli occupanti turchi. Allora Kiev e la parte dell’Ucraina situata ad oriente del fiume Dnepr erano da più di un secolo sotto l’impero della grande Caterina e sarebbero rimaste russe fino alla prima guerra mondiale.

Crimea e Ucraina continuano ad essere terreno di contesa ma oggi è la Russia, per uno strano paradosso della storia, ad essere affamata dalle sanzioni occidentali.

La Rinascente: morte e resurrezione di un negozio storico

Facciamo un giro in piazza del Duomo. Lo spazio a sinistra della cattedrale era conosciuto un tempo come “gli scalini del Duomo” perché fino agli anni trenta dell’Ottocento le gradinate si trovavano unicamente sul lato nord della chiesa e sulla parte antistante alla facciata.

Se si prosegue a sinistra  è possibile raggiungere il palazzo monumentale della Rinascente, il prestigioso emporio della moda che va sempre più somigliando al londinese Harrods o alle parigine Galeries Lafayette.  Potremmo dire che la storia della Rinascente è stata un continuo altalenarsi di alti e bassi, di crisi ed inattese resurrezioni.

Ferdinando Bocconi (1836-1908)
Ferdinando Bocconi (1836-1908)

La data di nascita risale al 1889, quando i fratelli Ferdinando e Luigi Bocconi costruirono un negozio di abiti per la borghesia milanese in un’area in via Santa Radegonda, una traversa di corso Vittorio Emanuele. Il negozio era intitolato “Alle città d’Italia” ma non era certamente il primo gestito dai due fratelli. I Bocconi erano conosciuti da tempo nel settore commerciale. Originari di Lodi, iniziarono a lavorare a Milano vendendo abiti nelle bancarelle di piazza Sant’Ambrogio. Fecero fortuna in tempi relativamente brevi. Nel 1877 li troviamo già nei pressi della Galleria Vittorio Emanuele, in via Tommaso Grossi: qui costruirono il primo magazzino di stoffe e generi di arredo in un edificio che in precedenza era stato sede dell’Hotel Confortable: lo battezzarono “Aux villes d’Italie”.

Ad alcuni può sembrar strano che i fratelli Bocconi fossero ricorsi al francese per intitolare il loro primo negozio di dimensioni ragguardevoli. In realtà la scelta era a dir poco ambiziosa: essi intendevano rivolgersi a una clientela completamene diversa rispetto ai milanesi che bazzicavano per le bancarelle di Sant’Ambrogio. Il francese era lingua internazionale nell’Europa dell’Ottocento, un po’ come l’inglese ai giorni d’oggi.  Eppure, a ben vedere, il francese lasciava trasparire qualcosa di più sottile. Indicava quale fosse il modello cui i fratelli Bocconi ispirarono la loro attività: era stato infatti il francese Aristide Boucicaut (1810-1877) ad aprire a Parigi una prima catena di grandi magazzini. Ma il francese era fatto soprattutto per piacere ai ricchi italiani cosmopoliti.

In un catalogo dell’8 dicembre 1879 preparato dai Bocconi per le vendite a corrispondenza era possibile rendersi conto del vasto assortimento di articoli, a partire dai giocattoli per bambini:

auz ville d'italie“Nulla di più grandioso e più ricco dell’assortimento dei balocchi e delle chincaglie…tutto  quel ben di Dio che la più fervida fantasia di un ragazzino può sognare e che le grandiose fabbriche della Germania, della Francia e della Svizzera in questo genere a sollazzo dell’infanzia umana creano, si trova in gran copia in questa speciale Esposizione. D’altra parte non mancano gli oggetti utili, e tra questi talune confezioni speciali e tagli di abiti per signora, e molti altri articoli d’uso di vera eccezionale convenienza”.

I magazzini Aux Ville d'italie in via Tommaso Grossi (1879)
I magazzini Aux Villes d’Italie in via Tommaso Grossi (1879)

Ai nazionalisti italiani il francese faceva però storcere il naso. Fu così che nel 1880 i Bocconi furono indotti a cambiar nome al negozio, ribattezzandolo “Alle città d’Italia”. I magazzini Bocconi davano lavoro in quegli anni a trecento impiegati divisi in 31 sezioni quante erano le tipologie di merci. Nell’azienda e nello stabilimento di produzione delle stoffe prestavano servizio circa 2000 persone, senza contare le succursali di Torino, Genova, Trieste e Roma. Fu in questo quadro, quando la crescita degli affari divenne esponenziale, che i Bocconi fecero costruire nel 1889 la nuova sede in via Santa Radegonda. Oltre ai reparti delle stoffe e abiti confezionati, i clienti potevano accedere a quelli di biancheria, merceria, giocattoli, mobili e arredamento, profumeria.

Al volgere del nuovo secolo si avvicinò la prima crisi. Alla morte di Ferdinando Bocconi, il figlio Ettore guidò la ditta trovandosi presto in difficoltà per la mancanza di adeguate competenze. Inoltre, i problemi nella gestione di un’impresa le cui dimensioni si erano fatte ormai considerevoli si accrebbero nella crisi in cui versò l’Italia durante la prima guerra mondiale.

Senatore Borletti (1880-1939)
Senatore Borletti (1880-1939)

Arrivò però la ripresa. Su consenso dei Bocconi venne progettata e realizzata la fusione della ditta con i “Magazzini Vittoria”. Il regista di tale operazione fu Senatore Borletti: industriale brillante e creativo, specializzato nel settore tessile, aveva fondato nel 1917 una ditta di orologi che le necessità della guerra avevano  convertito a fabbrica di spolette per proiettili. Arricchitosi enormemente grazie alle commesse belliche, il Borletti poté acquistare senza difficoltà i Magazzini Bocconi: il 27 settembre 1917 fondò “la Rinascente” il cui nome fu un’idea di Gabriele D’Annunzio. Il vate sentenziò dalle vette poetiche della sua ispirazione: “La Rinascente: l’Italia nova impressa in ogni foggia”. Si trattava ora di un vero e proprio centro commerciale. Il 7 dicembre 1918 i grandi magazzini riaprirono in corso Vittorio Emanuele.

Rinascente liberty
Il palazzo della Rinascente dell’architetto Giovanni Giachi

Ecco però la seconda crisi, questa volta imprevista: il 25 dicembre di quello stesso anno, in pieno Natale, l’edificio venne distrutto da un incendio. Borletti tuttavia, per nulla piegato da quel duro colpo della sorte, finanziò prontamente la ricostruzione affidando i lavori all’architetto Giovanni Giachi. Il 23 marzo 1921 la Rinascente riaprì le porte in uno stupendo edificio che conferiva alla zona una solenne atmosfera di eleganza e decoro urbano.

I bombardamenti del 1943 segnarono la terza crisi cui seguì per così dire la terza “resurrezione”: quella – si spera per noi milanesi – definitiva. Il 4 dicembre 1950 la Rinascente tornava a rivivere nel palazzo a portici imponenti disegnato dall’architetto Ferdinando Reggiori.

Oggi alla Rinascente respiri un’aria un po’ diversa da quella delle origini.  Trovi tanti turisti, donne d’affari, giovani e meno giovani che vanno a caccia di abiti, prodotti di design, articoli di alta moda. C’è anche chi ne approfitta per acquistare  prodotti culinari: basta prendere l’ascensore per arrivare velocemente all’ultimo piano ove trovi i grandi marchi della ristorazione “made in Italy”: penso ad Obikà o a De Santis.

Lo Stradone e i chiostri di Sant’Ambrogio nel sestiere di Porta Vercellina

Lo "Stradone di Sant'Ambrogio" quale appare oggi dopo i lavori urbanistici.
Lo “Stradone di Sant’Ambrogio” quale appare oggi dopo i lavori urbanistici.

Guardando la basilica di Sant’Ambrogio, costeggiando l’attigua piazza sulla sinistra si accede all’ampio viale che corre parallelo all’antico naviglio di San Girolamo (oggi via Carducci). Quel viale era conosciuto come Stradone di Sant’Ambrogio. Oggi, dopo i lavori urbanistici che hanno interessato l’isolato per molti anni, è divenuto finalmente una piacevole area pedonale intervallata da spazi verdi fino alla Caserma Garibaldi. A quel punto il viale, dopo aver costeggiato i giardini e le case della basilica ambrosiana, piega a gomito sulla destra per terminare in Largo Gemelli.

La strada è percorsa in prevalenza dagli studenti della vicina Università Cattolica. L’ateneo ha sede proprio lì, in quei magnifici chiostri dietro la basilica di Sant’Ambrogio che facevano parte anticamente di un convento abitato dai monaci benedettini dal 789 d.C. fino alla fine del Quattrocento. I canonici, vale a dire i chierici addetti al servizio in chiesa, abitavano invece nelle case vicine all’altra area della basilica. I rapporti tra i monaci e i canonici furono a dir poco complessi, segnati da rivalità che nel Medioevo erano assai diffuse tra corporazioni gelose dei loro diritti particolari.

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La basilica di Sant’Ambrogio e la Caserma San Francesco. Litografia ottocentesca a cura di Giuseppe Elena e Pietro Bertotti.

Vi siete mai chiesti per quale motivo la basilica di Sant’Ambrogio ha due campanili? Semplice: perché i canonici, stanchi di suonare le campane con i monaci del vicino convento, convinsero l’arcivescovo Anselmo V della Pusterla, nel 1128, a costruire a spese del Comune un secondo campanile sul lato opposto della facciata. E pazienza se per completare i lavori fu necessario abbattere il fianco sinistro della chiesa: per i canonici era più importante salire sul “loro” campanile. Chissà quante risate si saranno fatte i monaci quando guardavano i loro vicini dall’alto del “loro” campanile!

I benedettini risero meno quando alla fine del Quattrocento, accusati di cattivi costumi, furono costretti a sloggiare. I chiostri di Sant’Ambrogio furono affidati in commenda al cardinale Ascanio Sforza: uomo colto e raffinato, fratello del duca Ludovico il Moro, l’abate Ascanio affidò la ristrutturazione di quegli edifici religiosi all’architetto Donato Bramante, al cui stile dobbiamo la linea sublime dei capitelli a due ordini, nonché le raffinate logge in pietra e in cotto. Il cardinale assegnò questi spazi ai cistercensi di Chiaravalle, che vi abitarono fino all’arrivo degli eserciti francesi del generale Bonaparte: l’edificio, ora demaniale, divenne un ospedale militare. A tale uso continuò ad essere destinato fino agli inizi degli anni Trenta quando vi fu trasferita l’Università Cattolica. Questa però è un’altra storia che vi racconterò in un altro post….

 

La strage di piazza Fontana e le sue ombre sul presente

Lo sciopero generale di oggi cade nello stesso giorno in cui, quarantacinque anni fa, si consumò la strage di piazza Fontana, avvenuta a Milano il 12 dicembre 1969.  Una bomba, piazzata nella sede della Banca dell’Agricoltura, scoppiò alle ore 16.37 di un venerdì. I morti furono 16, i feriti 90.  Massimo Mazzucco, uno dei tanti testimoni che si trovavano nelle vicinanze, ha descritto così quegli istanti drammatici:

 

Il 12 Dicembre del 1969 ero un ragazzino, e verso le 4.30 del pomeriggio ero chinato sul mio motorino, in un garage di via Larga, tutto intento a limare i condotti del carburatore per farlo “andare di più”. Ad un certo punto ho sentito un tonfo sordo, forte, opaco, che ha scosso l’aria e i vetri dappertutto. Nel giro di tre minuti c’era gente che correva e urlava da tutte le parti. Sono uscito nel buio (a Milano, d’inverno, a quell’ora è già notte) e mi sono unito a tutti quelli che confluivano come automi verso piazza Fontana, dalla parte opposta della strada. Sono però riuscito ad arrivare solo fino all’angolo della piazza, e tutto era già bloccato. Dappertutto arrivavano ambulanze, carri pompieri e auto della polizia, e dopo pochi minuti la piazza veniva illuminata a giorno da potenti riflettori, come se fosse un set cinematografico a 360 gradi.

Giravano mille voci, ma nessuno capiva bene cosa fosse successo. C’era chi diceva… “l’è stada ‘na bumba”, l’altro che rispondeva “ma che bumba, pirla, l’è sciupada la caldaia del gas”, e il terzo “la caldaia del gas? Ma t’è vist che bùs che l’ha fà de sòta?” La gente urlava, le sirene urlavano, i vigili urlavano, i feriti urlavano. Eravamo tutti ipnotizzati, confusi, senza punti di riferimento“.

Oggi il Paese sta vivendo gravi tensioni sociali: ai problemi legati alla mancanza di riforme strutturali nel sistema politico amministrativo, si aggiunge la grande piaga della disoccupazione dovuta a una crisi economica devastante. Le manifestazioni dei sindacati, contraddistinte in alcune città da attacchi dei manifestanti e cariche della polizia, fanno pensare a quei lunghi anni Settanta segnati da innumerevoli lutti e violenze.

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Foto scattata da Paolo Pedrizzetti il 14 marzo 1977: l’estremista Memeo punta la pistola contro la polizia

Non rifarò la storia degli innumerevoli processi che furono istruiti per trovare i colpevoli della strage di piazza Fontana. Da storico mi preme accennare brevemente allo stato della città in quegli anni drammatici. Milano era dominata da un notevole disordine sociale. I fascisti e le frange rivoluzionarie della sinistra estrema si opponevano alle forze dell’ordine in un clima di guerriglia continua. Il sabato era giorno di cortei e manifestazioni in cui i cittadini avevano paura. Si usciva di casa malvolentieri. Gli scontri erano continui e spesso ci scappava il morto. Per chi li ha vissuti furono anni orribili.

Da quel 12 dicembre 1969 e per più di un decennio la mala pianta del terrorismo insanguinò l’Italia spegnendo le vite di giornalisti, uomini delle forze dell’ordine, professori, magistrati la cui unica colpa era di aver difeso lo Stato democratico.

Fortunatamente, non foss’altro che per ragioni anagrafiche, posso dire di non aver vissuto quegli anni. Eppure, se le cose non migliorano in Italia e in Europa, c’è il rischio che quella stagione si ripresenti in tutta la sua violenza.

Certo, crollato da più di vent’anni il Muro di Berlino, le ideologie comuniste non sono più il punto di riferimento dei giovani. Il grande problema dell’Europa è la mancanza di lavoro che colpisce ormai una larga fascia della popolazione. In Italia la situazione è ancor più drammatica perché i disoccupati sono in numero esponenziale. Se nei prossimi mesi l’economia italiana non si rimetterà in moto, il Paese non solo imboccherà la strada del declino (come ha detto il premier Renzi), ma dovrà lottare per la sua stessa esistenza.

Macroregioni e Regioni: pilastri del buongoverno in una riforma federale

Recentemente il ministro dell’ambiente, Gianluca Galletti, ha proposto di ridurre il numero delle regioni portandole a 11. Tale riforma viene caldeggiata da una parte dei democratici per ora apparentemente minoritaria. Difatti, oltre a Galletti, non sono molti ad essersi schierati a sostegno di questa proposta. L’unico ad avergli fatto eco è stato il neogovernatore dell’Emilia Romagna, Stefano Bonaccini. A far discutere è stata in particolare l’idea di accorpare la Regione Emilia Romagna con la Toscana dando vita ad un’unica macroregione tosco emiliana. Un’idea certamente originale, che può avere una sua giustificazione nella storia peculiare di quei territori e nello stile di vita degli abitanti.

Galletti e Bonaccini
Il ministro dell’ambiente Galletti e il governatore dell’Emilia Romagna Bonaccini (da Il Resto del Carlino)

Per il resto l’accorpamento interesserebbe almeno 15 delle 20 regioni esistenti. Resterebbero invariate, oltre alle isole, Lombardia, Puglia e Campania. Troveremmo invece quali “macroregioni”, oltre ad Emilia Romagna-Toscana, Piemonte-Liguria-Valle d’Aosta; Friuli Venezia Giulia-Veneto-Trentino Alto Adige; Umbria-Lazio; Marche-Abruzzo-Molise; Basilicata-Calabria.

La fusione delle Regioni rivela una concezione sostanzialmente estranea alle ragioni dell’autonomia: si propone di modificare dall’alto, con provvedimenti decisi a tavolino, l’assetto di enti territoriali la cui nascita è in molti casi antecedente all’attuale ordinamento repubblicano. Penso ad esempio al Trentino Alto Adige-Sud Tirol o alla Valle d’Aosta-Vallée d’Aoste. Cambiamenti nella fisionomia di questi territori non possono essere decisi in via unilaterale dal Parlamento perché le autonomie speciali vennero riconosciute alla fine della guerra con veri e propri trattati di diritto internazionale.

La proposta di costituire le macroregioni accorpando le regioni esistenti non è nuova. La Fondazione Agnelli elaborò nel 1993 un progetto analogo che proponeva 12 regioni. L’unico ad avere introdotto il tema delle macroregioni coniugando l’esigenza della funzionalità amministrativa con le ragioni dell’autonomia e dell’autogoverno è stato però Gianfranco Miglio. Nel suo modello, presentato per la prima volta nel 1994, la riforma degli enti locali si accompagnava a una riscrittura completa della Costituzione in senso federale. Oltre all’abolizione delle province, era proposta la conservazione delle Regioni esistenti che, per un migliore governo del territorio, avrebbero formato tre o quattro macroregioni disegnate secondo criteri afferenti alla geografia economica: una macroregione individuata nella Valle padana (Liguria, Piemonte, Lombardia, Veneto, Emilia Romagna); una nel Centro Italia (Toscana, Umbria, Marche, Lazio) e una nel Sud Italia (Abruzzo, Molise, Puglia, Calabria, Campania, Basilicata). Le 5 Regioni a Statuto speciale sarebbero state salvaguardate. Se vuoi saperne di più, ho trattato questo tema nell’articolo Le tre Repubbliche di Miglio.

Macroregione alpina

Il progetto migliano rivela in larga parte la sua attualità. Un’area rilevante della macroregione padana è stata riconosciuta dall’Unione Europea come parte integrante di una macroregione alpina estesa su un territorio di 450 mila chilometri quadrati comprendente 46 Regioni appartenenti a sette Stati diversi (Francia, Italia, Svizzera, Austria, Slovenia, Germania, Liechtenstein). Le Regioni italiane coinvolte nella macroregione alpina (EUSALP) sono cinque: Piemonte, Valle d’Aosta, Veneto, Lombardia, Friuli Venezia Giulia. A queste si aggiungono le Province autonome di Trento e Bolzano. In base all’accordo di Grenoble, firmato il 18 ottobre 2013, la macroregione alpina sarà oggetto di specifiche politiche europee: le Regioni potranno individuare e finanziare interventi comuni nelle materie dell’ambiente, delle infrastrutture, nonché delle politiche economiche e sociali. La costituzione della macroregione alpina si pone sullo stesso piano di analoghe esperienze portate avanti dall’Unione europea verso territori contraddistinti da lineamenti culturali e geofisici abbastanza precisi: è il caso della macroregione danubiana o della macroregione del Baltico.

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L’Italia formata da 9 enti territoriali: 4 Macroregioni e 5 Regioni a Statuto Speciale

Una macroregione padano alpina (costituita dall’unione di Piemonte, Liguria, Lombardia, Veneto) potrebbe essere integrata in un progetto di riforma federale teso non solo a conservare le Regioni a Statuto Speciale ma anche ad individuare le macroregioni sulla base dell’autonomia finanziaria, delle dinamiche geo-economiche, dei caratteri geofisici e soprattutto dei peculiari lineamenti storico culturali risalenti al periodo preunitario.

La macroregione tosco emiliana proposta da Galletti e Bonaccini potrebbe essere una scelta felice a patto che sia integrata in una più ampia riforma federale che preveda, oltre alla macroregione padano alpina, una macroregione del Centro Italia (composta da Marche, Umbria e Lazio e coincidente in via tendenziale con la parte di territorio rimasta più a lungo nello Stato pontificio) e una macroregione del Sud Italia (Abruzzo, Molise, Puglia, Basilicata, Campania, Calabria) ricalcata sulla parte continentale dell’antico Regno delle due Sicilie.

Le Regioni non dovrebbero scomparire. Ad esse spetterebbe l’amministrazione del territorio nelle materie di competenza macroregionale; inoltre i Presidenti delle Regioni, in quanto membri del Direttorio della macroregione, parteciperebbero direttamente a un esecutivo presieduto dal governatore della macroregione eletto direttamente dai cittadini.

Seguendo il modello di Costituzione di Miglio, si potrebbe estendere la forma direttoriale al governo federale che, presieduto da un Presidente della Repubblica eletto direttamente dai cittadini italiani, sarebbe composto dai Governatori delle quattro macroregioni (padano alpina, tosco-emiliana, Centro Italia, Sud Italia) e da un Presidente a turno annuale di Regione a Statuto Speciale.

La Cà Granda nel Sestiere di Porta Romana

 

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L’Ospedale Maggiore in una foto del primo Novecento.

 L’Università degli Studi è un altro dei luoghi simbolo di Milano. In realtà nell’immobile aveva sede un tempo uno dei più importanti ospedali europei, noto ai milanesi come la Cà Granda. D’altra parte all’osservatore attento non sfuggirà che il quartiere di Porta Romana conserva tuttora la sua impronta socio assistenziale nei molteplici padiglioni  del Policlinico di via Francesco Sforza, a pochi passi dall’Università.

La costruzione della Cà Granda si deve al duca Francesco Sforza e alla moglie Bianca Maria Visconti, i quali vollero fondare un grande ospedale che si prendesse cura dei malati, in particolar modo i poveri sparsi nelle città e nelle campagne dello Stato lombardo. Il duca donò all’ospedale alcune case nel quartiere di Porta Romana: le fece risistemare e abbellire dall’architetto fiorentino Antonio Averulino detto “il Filarete” e, ricorrendo ai fondi degli altri ospedali della città e della diocesi, fece in modo che la nuova istituzione fosse provvista di adeguate risorse. Insomma, decisamente altra cosa rispetto al modo con cui viene gestita nei tempi attuali la sanità italiana. L’Ospedale Maggiore (che è l’altro nome con cui i milanesi erano soliti riferirsi alla Cà Granda) sorgeva entro le mura medievali, vicino al naviglio interno che, scorrendo praticamente al di sotto di quelle opere di fortificazione, costituiva allora una formidabile via di comunicazione. Sulle sue acque transitavano i grandi barconi carichi di merci, derrate e materiali da costruzione che poi i barcaioli lasciavano nelle ‘sciostre’, le aree di sosta che, poste a ridosso del naviglio, servivano quali magazzini.

Portone d’ingresso alla Cà Granda sul naviglio interno in una foto del primo Novecento

 

A questo punto si riesce forse a capire per quale motivo Francesco Sforza avesse deciso di donare all’ospedale quelle case poste proprio a ridosso del naviglio. Il complesso sanitario sorgeva infatti in una posizione strategica: situato all’interno delle mura medievali, l’edificio non solo si trovava nel centro cittadino ma, posto in prossimità del naviglio e vicinissimo al contado circostante, era in collegamento diretto con i paesi circostanti. L’utilizzo del naviglio quale via di comunicazione consentiva ai milanesi di rifornire continuamente l’ospedale con viveri e medicinali provenienti spesso dalle campagne.

Verso la metà del Seicento, l’edificio venne ampliato grazie agli interventi dell’architetto Francesco Maria Richini: il grande chiostro interno e la chiesa dell’Annunciata diedero all’ospedale una veste grandiosa ma al contempo misurata; un’atmosfera solenne corretta da quell’austera chiesetta posta a ridosso del naviglio.

Ma come riuscì a prosperare l’Ospedale Maggiore nella sua lunga vita al servizio della comunità? Potrà stupire in una città di cui si lamenta quasi sempre l’eccessivo consumismo ed egoismo, ma la grandezza dell’Ospedale Maggiore nei suoi cinque secoli di storia fu resa possibile dal profondo senso di carità della nobiltà ambrosiana, che non mancò di impiegare le sue risorse in favore dei poveri.