Perché Porta Romana ‘guarda’ Muratori

Qualche giorno fa mi trovavo in piazza Medaglie d’Oro, attratto da quella Porta Romana che segna tuttora un punto di confine tra la città storica e la città “più recente”, sorta attorno a Corso Lodi. Non vi annoierò ripetendo la storia del celebre monumento costruito da Aurelio Trezzi nel 1598 in onore dell’ingresso a Milano di Maria Margherita d’Austria (1584-1611), promessa sposa a Filippo III di Spagna.

Farò invece alcune considerazioni su una piccola scoperta che ho fatto in questi giorni. Nel camminare vicino alla fermata M3 della metropolitana diretto verso viale Montenero, mentre guardavo il celebre monumento, ho notato un particolare che mi era sempre sfuggito. Si tratta di un piccolo dettaglio, ma è un dettaglio importante per lo storico di Milano perché rivela l’antica conformazione di questa zona, segnata dai bastioni spagnoli che costituivano il confine tra la città propriamente detta e il contado compreso nell’antico Comune dei Corpi Santi.

Per capire di cosa si tratta, guardate Porta Romana da due punti diversi: dapprima fermatevi all’incrocio di piazza Medaglie d’Oro con Corso Lodi; andate poi al secondo incrocio all’imbocco di via Muratori sostando davanti a Mariposa. Bene: se avete guardato la Porta da queste due diverse angolazioni, ve ne sarete accorti: la Porta è orientata verso via Muratori e non verso corso Lodi come ci si aspetterebbe visto il ruolo fondamentale che il corso riveste oggi per la viabilità e l’urbanistica cittadina. Come mai?

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La Strada Provinciale Piacentina e, poco sopra, la Strada di Boffalora in una carta di metà Ottocento

Per quale motivo l’arco di Porta Romana fu costruito perché “guardasse” verso una via che ci appare tutto sommato secondaria rispetto al corso?

Per venire a capo di questo “piccolo” mistero dobbiamo risalire indietro nel tempo, alla Milano d’ancien régime o alla città vecchia che mantenne la sua fisionomia urbanistica fino alla metà dell’Ottocento. Chiariamo anzitutto l’origine di queste vie. La delibera comunale che assegnò la denominazione di Corso Lodi all’antica Strada Provinciale Piacentina risale al 7 giugno 1878, cinque anni dopo l’annessione del Comune dei Corpi Santi alla città di Milano. La costruzione di molti edifici ai lati del corso risale alla fine dell’Ottocento, quando il Comune decise di urbanizzare il nuovo quartiere. Un tentativo riuscito benissimo, tanto che oggi possiamo dire che corso Lodi costituisce il proseguimento in periferia del corso di Porta Romana. Quando venne costruito l’arco di Porta Romana, la zona aveva però un aspetto completamente diverso: oltre a far parte del Comune dei Corpi Santi, il quartiere era dominato da un paesaggio agreste: c’erano campi e cascine comprese in vaste proprietà possedute dalle potenti famiglie del patriziato. Basti pensare alla cascina Gugliemesa, alla cascina Benzona, alla Gambaloita, possedute un tempo dai Visconti Ajmi e da altri casati. Lo stradone verso Piacenza costituiva una via di collegamento per chi si spostava nella campagna milanese. A quei tempi tuttavia non doveva essere così importante come oggi è corso Lodi.

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Il primo tratto di via Muratori come appare oggi

Volgiamoci ora verso il primo tratto di via Muratori, fino all’incrocio con via Bernardino Corio. La storia di questa contrada è completamente diversa. Anche qui, il nome della via venne dato con delibera comunale risalente 7 giugno 1878. Un tempo la contrada si chiamava “Strada dello Strettone” o “della Boffalora”. Quanto al primo nome non son riuscito ancora a sapere nulla. Per il secondo invece è facile trovare una spiegazione.

Ora mi dirai: cosa c’entra Boffalora che si trova ad ovest, in direzione diversa rispetto a Porta Romana?  In realtà, il termine Boffalora si riferiva a un piccolo villaggio – chiamato Boffalora per l’appunto – che si trovava in fondo alla via, costituito sostanzialmente da tre cascine di cui una dovrebbe corrispondere al rudere che si trova in via Tertulliano al civico 65.

Insomma: la Strada della Boffalora ha una storia antichissima, quando la zona era costituita per il 95% di campi e per il restante 5% di cascine. In via Muratori sorgono tuttora alcune case vecchie, resti più o meno integri di quelle cascine che si trovavano ai lati della via: cascina Gerazza sul lato destro, pressappoco ove oggi c’è l’Officina Fiat al civico 2, mentre più avanti, sulla sinistra, al civico 7 si affaccia una casa vecchia di color rosa che dovrebbe corrispondere a una parte della cascina Paradisetta. Non è rimasta traccia della cascina Paradisa. La cascina Torchio in fondo alla via, a due passi da viale Umbria, corrisponde invece alla famosa “Cascina Cuccagna”, un antico casolare acquistato dal Comune di Milano nel 1984 che oggi è divenuto una meta d’obbligo per i giovani e per i turisti. Si trova un ristorante ove è possibile assaggiare piatti di alta qualità. In una delle stanze al pianterreno si trova anche un’enoteca. Per gli appassionati delle biciclette, nel cortile c’è uno spazio ove si riparano biciclette.

Torniamo al punto da cui siamo partiti. Perché l’arco di Porta Romana strizza l’occhio a via Muratori? Nei secoli passati i viandanti che entravano in città provenienti da Sud, preferivano passare per quest’antica contrada, ricca di cascine e osterie. E’ probabile che il Trezzi, nel costruire Porta Romana, decise di orientarla verso la Strada di Boffalora perché sapeva che la regina Margherita sarebbe venuta da quella direzione. Ecco cosa rivela quell’arco rivolto verso via Muratori. Guarda un po’ dove si va a nascondere alle volte il demone della storia! 😉

Una fonte preziosa: le vecchie guide di Milano

Oggi al turista che visita Milano non è difficile procurarsi una guida in cui trovare i dati più importanti sulla città, i locali più alla moda, le chiese e i monumenti da visitare. Qual era però la situazione nei secoli passati? Esistevano guide di Milano nell’ancien régime? Se esistevano, com’erano formate?

La risposta è affermativa. Esistevano certamente libri che potremmo ricondurre al genere delle guide. Si tratta sostanzialmente di tre tipologie: le guide descrittive, le guide nominative e le guide numeriche.

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P. Morigia, Santuario della città e diocesi di Milano, 1641.

Le guide descrittive presentavano un’esposizione, abbastanza dettagliata, del patrimonio storico artistico e storico culturale conservato nelle chiese e nei palazzi della città. Non sappiamo quando comparve la prima guida. Gli studiosi hanno però dimostrato che nel corso del XVII secolo uscì un certo numero di guide descrittive riguardanti la città ambrosiana. Ad esempio, il Santuario della città e diocesi di Milano del gesuato Paolo Morigia venne pubblicato nel 1603: il proposito dell’autore era di mostrare ai milanesi le sacre reliquie esistenti nelle chiese cittadine; in realtà, egli non mancava di fornire ai suoi lettori alcune informazioni relative ai monumenti e ai templi trattati.

Altra guida importante della Milano seicentesca, la cui impronta religiosa fu segnata in modo indelebile dal modello tridentino realizzato dall’arcivescovo San Carlo, è la Relatione della Città e Stato di Milano del 1666 scritta dallo storico Galeazzo Gualdo Priorato. Questa guida è rimarchevole perché l’autore forniva informazioni sui palazzi sede delle supreme magistrature del ducato, compilando un elenco dettagliato delle persone titolari dei vari uffici. La descrizione degli edifici sacri è qui basata sulla tradizionale divisione della città nei sei quartieri storici identificati dal nome delle Porte (Romana, Ticinese, Vercellina, Comasina, Nuova, Orientale).

Una descrizione della Milano napoleonica è contenuta nella guida Il forastiere in Milano di Bartolomeo Borroni scritta nel 1808.

Per i primi anni della Restaurazione si ricordano la guida di Luigi Bossi (1818) e quella di Francesco Pirovano (1822). La guida di Bossi fu oggetto di vivaci critiche su cui non mi soffermo in questa sede per ragioni di spazio. Largo successo ebbe invece la guida del Pirovano, della quale vennero curate diverse riedizioni (1824, 1829, 1831). Si ricordano anche le guide di Pietro Ancina (1825) e dell’abate Giuseppe Caselli (1827).

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Guida di Milano in otto passeggiate, Il Polifilo, Milano 2005.

Negli anni Trenta dell’Ottocento il numero delle guide crebbe considerevolmente per il notevole afflusso di turisti. Vennero stampate guide anonime oppure recanti i nomi di poligrafi del calibro di G.B. Carta, Ignazio Cantù, Massimo Fabi e Felice Venosta. In alcuni esemplari compare addirittura il nome dell’editore: Giuseppe Rejna (1838; 1841), Luigi Zucoli (1841), G.B. Zambelli (1865) e Pietro Giovanni Sacchi, proprietario assieme ad altre persone, della casa Artaria (1871, 1881). Tra le guide anonime, ricordo la Guida di Milano in otto passeggiate, recentemente ripubblicata da Il Polifilo in una bella edizione del 2005.

Passando alle guide nominative, la prima fonte da cui partire è il Calendario secolare milanese, pubblicato dal 1730 al 1742: vi sono contenuti gli elenchi dei funzionari e degli impiegati appartenenti alle magistrature giuridico amministrative del ducato di Milano. Il Calendario contiene anche dati riguardanti la composizione del Vicariato di Provvisione, uno dei più antichi uffici del Comune di Milano, corrispondente all’incirca alla nostra giunta comunale.

A partire dal 1782 furono pubblicate le prime guide nominative ove vennero inseriti non solo i nomi degli ufficiali e funzionari dello Stato, ma anche l’indirizzo della loro abitazione. Negli anni Novanta del Settecento comparvero anche guide che indicavano i recapiti di persone che non lavoravano nell’amministrazione statale, ma esercitavano la professione di commercianti, artigiani, avvocati e così via.

Risale a questi anni una guida nominativa recante informazioni su alberghi e osterie: Il Servidore di piazza, (prima edizione 1782) divenuto poi Calendario ad uso del Foro su iniziativa del tipografo Geatano Motta. Il Servidore di piazza venne pubblicato dalla stamperia Motta dal 1782 al 1785. Un litigio sorto tra il compilatore Giuseppe Astolfi e la stamperia, provocò la sospensione delle pubblicazioni nei due anni 1786 e 1787. Nel 1788 il Servidore venne ripubblicato a spese dell’Astolfi dai tipi di Francesco Pulini. Tra il 1789 e il 1790 il Servidore uscì col titolo Calendario ad uso del Foro. Nel 1791, sempre a spese dell’Astolfi, il Servidore di piazza ad uso di commercio per la città di Milano venne ripubblicato dalla tipografia di Luigi Veladini: edizione significativa perché per la prima volta compariva un quadro della città assai ampio e dettagliato con l’indicazione delle attività commerciali, artistiche, artigianali, delle strutture alberghiere, dei caffé, delle osterie. Nel 1794 il tipografo Motta continuò a pubblicare Il Calendario ad uso del foro, uscito anche negli anni 1795 e 1796.

Nel periodo napoleonico le guide nominative furono poche e di scarsa qualità. L’interprete cisalpino venne stampato all’incirca nel 1800. Nel breve intermezzo della Repubblica Italiana, più precisamente nel 1804, uscì il Fiacre e il Supplemente al Fiacre, repertorio molto breve che contiene però gli indirizzi dei funzionari e impiegati dello Stato. Nel 1805, data di fondazione del Regno italico, uscì la Guida di Milano ad uso di servitore di piazza e il Supplemento alla prima parte della Guida di Milano ad uso di servitore di piazza: si tratta di due opuscoli di poche pagine, i cui contenuti non sono molto dissimili dai Fiacre del periodo cisalpino. Venne poi pubblicato nel 1808 L’Interprete milanese: le annate 1811 e 1812 sono particolarmente ricche di informazioni.

Vero e proprio repertorio d’informazioni preziose sulle città e i dipartimenti del regno d’Italia napoleonico e su Milano capitale è la serie degli Almanacchi reali, pubblicati regolarmente dal governo dal 1808 al 1814. L’Almanacco reale contiene l’elenco degli impiegati nell’amministrazione del regno italico con l’indirizzo di abitazione. Mancano tuttavia le attività private, fatta eccezione per alcune professioni. Gli Almanacchi, pubblicati anche nel regno Lombardo Veneto asburgico, sono una fonte imprescindibile per gli studiosi di storia delle istituzioni e della società moderna.

Passando infine alle guide numeriche, esse sono successive al 1787, anno in cui Giuseppe II introdusse a Milano la denominazione delle contrade e assegnò una precisa numerazione agli stabili secondo un curioso metodo che partendo dal centro continuava poi in progressione circolare verso i bastioni. La prima guida venne pubblicata nel 1788 a cura di Giacomo Cavaleri: Guida sicura che conduce col numero progressivo a tutte le contrade. 

La Madonnina e il “berretto di pulcinella”

La Madonnina sulla guglia più alta del Duomo è forse il simbolo della città più caro ai milanesi, che a lei hanno guardato nei momenti più difficili della loro storia. Eppure, quando fu costruita, vi fu chi criticò fortemente quel monumento.

Partiamo dalle origini. L’idea di collocare una statua della Vergine Maria sulla guglia più alta del Duomo fu di Francesco Croce, l’architetto che nel 1762 aveva ricevuto l’incarico di costruire la guglia maggiore. Tre anni dopo, Croce propose di issare sulla sommità una statua della Madonna circondata dagli angeli. Com’è noto, l’artefice della statua fu Giuseppe Perego, che nel 1769 lavorò a tre soluzioni alternative: la prima prevedeva che alla base vi fosse una vasta schiera di cherubini e angeli tra le nubi; nella seconda ipotesi vi sarebbero stati alcuni angeli ai piedi della Vergine; il terzo progetto – quello che ricevette il via libera delle autorità – era incentrato pressoché interamente sulla figura di Maria.

I lavori iniziarono nell’estate di quell’anno: ad assistere il Perego furono l’intagliatore Giuseppe Antignati per la struttura in legno e un certo fabbro Varino che lavorò allo scheletro in ferro. Si decise quindi di coprire il modello di legno con lastre di rame, battute e montate dall’orefice Giuseppe Bini. Per la doratura, su consiglio del celebre pittore Anton Raphael Mengs, furono utilizzati 156 libretti, ognuno dei quali formato da due fogli d’oro zecchino.

Quattro anni dopo, nel 1773, i lavori erano terminati. Eppure, per quelle strane circostanze di cui la storia ci rende spettatori, la statua non fu collocata sulla guglia. Per un anno rimase nel palazzo della Veneranda Fabbrica del Duomo: oltre ai pericoli costituiti dalle folate di vento, si temeva che le lastre di rame attirassero i fulmini.

Quale fu la reazione dei milanesi? E’ probabile che l’entusiasmo avesse coinvolto gran parte dei sudditi lombardi dell’imperatrice Maria Teresa. L’opinione pubblica restava tuttavia divisa. La prosecuzione dei lavori di costruzione del Duomo secondo lo stile gotico aveva suscitato viva opposizione presso molti uomini di cultura. In un periodo – la seconda metà del Settecento – caratterizzato dall’avversione per i vecchi monumenti dell’età medievale ritenuta dagli illuministi un’epoca di barbarie e d’inciviltà, l’architettura con cui si andava edificando la sommità della cattedrale era criticata severamente, fuori tempo in un’epoca in cui si andavano affermando i moduli stilistici del neoclassicismo. Del tutto indicativa in proposito la posizione assunta dai fratelli Pietro e Alessandro Verri.

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Pietro Verri (1728-1797)

Quando la guglia maggiore fu ultimata dal Croce, nel 1770, Pietro non esitò a definirla “sconcia cosa in architettura”, mentre Alessandro la paragonò ironicamente a un “berretto da pulcinella”. Nove anni dopo Pietro, in una lettera al fratello, lo informava che un fulmine era caduto “sul gran clistere” sopra la cupola del Duomo: il gran clistere era la guglia del Croce.

Critiche ancor più serrate erano rivolte alla Madonnina. Alessandro si espresse in modo particolarmente duro rilevando “l’empietà di aver posta la Santissima Vergine incomoda e sconcia in quell’atto tra i fulmini”.

Con buona pace dei fratelli Verri, la statua fu collocata alla fine in cima alla cattedrale. Il 30 dicembre 1774 il rettore della Fabbrica del Duomo comunicava di aver finalmente collocato la Vergine dorata sulla guglia maggiore “col plauso universale” dei milanesi.

Giovanni Visconti Venosta
Giovanni Visconti Venosta (1831-1906)

Da allora la Madonnina entrò lentamente nell’immaginario collettivo come simbolo della città. Visto che ci avviciniamo all’anniversario delle Cinque Giornate di Milano, non sarà fuori luogo concludere questo articolo ricordando le toccanti riflessioni del marchese Giovanni Visconti Venosta. Questi, nel suo libro di memorie, rammentava come i milanesi del ’48 avessero più volte sollevato lo sguardo verso la sommità del Duomo, quasi a voler cercare la protezione della Vergine perché li aiutasse nei momenti difficili. Gli occhi erano puntati sulla statua di Maria e sulla bandiera tricolore che i rivoluzionari, durante la terza giornata di combattimenti, erano riusciti a far sventolare dall’alto di quella guglia:

E tutti, ogni tanto, alzavano gli occhi in alto, nella direzione della più alta guglia del Duomo, sulla quale sta la statua della Vergine, con cui i milanesi sono in grande confidenza, come col genio tutelare della casa, e la chiamano la Madonnina. Essa vede da tanti anni le nostre gioie e i nostri dolori; situata sì in alto, pare più vicina al cielo, al quale i milanesi amavano sperare che dicesse in quei momenti una buona parola per loro. Quando, nella terza giornata della rivoluzione, si vide sventolare in mano alla Madonnina la bandiera tricolore, nessuno dubitò più della vittoria. Da tutta la città si levò un grido di trionfo e di gioia, come se la Madonnina avesse fatto causa comune con noi, e avesse preso Milano sotto la sua protezione.

[Giovanni Visconti Venosta, Ricordi di gioventù, Milano, Cogliati 1906, pag.94]

I quartieri popolari nella Milano del 1881

In un volumetto pubblicato dall’editore Vallardi in occasione della Esposizione Nazionale del 1881, un articolo intitolato “La vita intima” presentava uno spaccato interessante della vita quotidiana dei milanesi.

L’autore, Giuseppe Sacchi (1804-1891), fu un educatore e uno studioso particolarmente conosciuto al suo tempo. Varrà la pena ricordare a tal proposito il ruolo decisivo ch’egli assunse negli anni Trenta dell’Ottocento, quando si fece promotore dei primi asili regolati secondo i principi pedagogici di Ferrante Aporti. Negli anni Cinquanta  s’impegnò a garantire l’intervento dello Stato asburgico nel campo delicato dell’educazione infantile e popolare. Funzionario integerrimo, ebbe dal governo austriaco la medaglia d’oro al merito civile per la sua opera indefessa a sostegno dei disagiati. Sacchi era anche conosciuto per aver diretto, sempre negli anni Cinquanta, gli Annali Universali di Statistica, la celebre rivista di economia su cui avevano scritto economisti quali Melchiorre Gioja, Gian Domenico Romagnosi, Carlo Cattaneo. Nel 1860, un anno dopo la liberazione di Milano dal dominio asburgico, fu nominato prefetto della Biblioteca Braidense. Educatore e pubblicista, uomo di profonda cultura, fine conoscitore della società milanese,  il Sacchi era stimato per il suo impegno a sostegno delle classi disagiate.

Ma torniamo al 1881, l’anno dell’Esposizione Nazionale, quando il Sacchi scrisse l’articolo da cui abbiamo preso le mosse. L’anziano studioso conduceva un’analisi delle classi sociali milanesi, svolgendo una similitudine tratta dalle scienze fisiche che mostrava l’influenza del positivismo allora dominante. Come nella composizione del sottosuolo, egli notava che la cittadinanza era divisa in tre classi sociali:

E’ questo uno studio quasi geologico. La composizione demografica di Milano, può dirsi che presenti tre grandi strati. Nel primo strato ove i geologi sogliono scoprire la sede del quarzo e del granito sotto cui cova il fuoco di un perenne vulcano, noi riscontriamo quella parte del nostro popolo che una volta chiamavasi plebe. Caratteri granitici che resistono contro chi tenta opprimere, e tempre ad un tempo vulcaniche le quali si muovono e si commuovono ad ogni alito di novità: quest’è l’indole caratteristica del vecchio popolo ambrosiano. 

[G. Sacchi, La vita intima in Vita Milanese, Vallardi editore 1881, pp.77-96]

Sacchi, proseguendo nella similitudine, enunciava poi le altre classi sociali milanesi (la classe media e la nobiltà) su cui non mi soffermo in questa sede.

Credo invece di grande interesse le riflessioni di Sacchi sul popolino ambrosiano, i cui insediamenti nel nucleo della città antica (oggi coincidenti con il centro storico, zona 1) erano individuati in tre zone. Nel 1881 le umili classi lavoratrici non avevano mutato la loro esistenza secolare nei quartieri di Porta Tosa (inclusa nel sestiere di Porta Orientale), di Porta Garibaldi (ex Porta Comasina) e Porta Ticinese. A colpire era la specializzazione di queste fasce di popolazione. Sacchi tralasciava di prendere in esame il quartiere di Porta Garibaldi ove sappiamo che vivevano, almeno fin dal XVIII secolo, tante famiglie di muratori e manovali. Nel suo intervento egli descrisse invece il popolino di Porta Tosa (oggi Porta Vittoria) e Porta Ticinese. A Porta Tosa abitavano tanti commercianti attivi nel mercato delle verdure:

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Il Verziere in un dipinto di Angelo Inganni risalente al primo Ottocento

La popolazione di Porta Tosa che ha per centro il Verziere (l’antico viridarium vescovile) è tutta dedita alla vita del comprare e del rivendere le cose mangerecce. Essa attende al mercato omnigeno di ogni grazia di Dio, e vive tutto il dì sulle piazze, si ciba alle taverne, e solo di notte si ritira ai suoi abitacoli che li chiama essa stessa i suoi pollai.

Seguivano alcune preziose riflessioni sul popolino di Porta Ticinese. Qui però il Sacchi mostrava di riferirsi a uno spazio esteso, includendo rioni del centro che erano compresi per converso nei sestieri di Porta Vercellina e di Porta Romana. Basandosi sul tracciato secolare del Naviglio Interno, l’anziano studioso prendeva in esame una zona che andava dal ponte di San Vittore (ove oggi si trova la pusterla di Sant’Ambrogio) al ponte di Porta Romana.

La vita intima del popolo è di preferenza concentrata nel vecchio quartiere di Porta Ticinese. Tutta questa parte della città che si distende dal sud al sud ovest, e si allarga a modo di un ventaglio dal Ponte di Sant’Ambrogio per San Vittore sino al Ponte di Porta Romana e fa centro a San Giorgio in Palazzo, raccoglie quasi un terzo della popolazione di Milano.

Ai lavoratori di Porta Ticinese erano riservate le analisi del Sacchi. Stando alle sue considerazioni, nel 1881 ancora esistevano due delle tre anime popolari del quartiere. La prima era costituita dai falegnami, dai lavoratori di marmi e di ferro le cui officine si trovavano nei quartieri di Cittadella e Viarenna: il Naviglio Interno sembrava delimitare e caratterizzare questo insediamento di lavoratori, le cui officine confinanti con il canale si estendevano dal ponte delle Pioppette a quello dei Fabbri.

Al di là del Naviglio Interno, ove oggi si trovano le vie Vettabbia e Santa Croce, c’era l’altra anima del quartiere: si trattava dei lavoratori specializzati nella tessitura e nella tintura della seta. Il Sacchi individuava 500 famiglie chiamate, con un’espressione che lasciava trapelare un certo affetto, “il nostro piccolo Lione: un popolo di operai onesti, educati e gentili, che sentono più che mai la loro morale dignità”.

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Piazza della Vetra in un dipinto del primo Ottocento

Il terzo insediamento di operai era scomparso da tempo quando scriveva il Sacchi. Egli tuttavia volle ricordarlo perché la città non dimenticasse la sua storia. Si trattava del quartiere della Vetra, dietro la chiesa di San Lorenzo, ove nel primo Ottocento erano attive sedici concerie che, servendosi delle acque della Vettabbia, “lavoravano più di settecentocinquantamila pelli fornite da 94 macellerie”: un quartiere malfamato ove imperversava la delinquenza. La zona aveva tuttavia un suo fascino singolare. Le numerose abitazioni, formate al loro interno da loggiati di legno, erano abitate da tante famiglie povere. Credo sia opportuno riportare integralmente le parole con le quali il Sacchi ripercorreva la storia della Vetra, luogo di miserie e atrocità. Qui fu operante per secoli, nella Milano d’antico regime, il patibolo ove venivano eseguite le condanne a morte per impiccagione riservate ai criminali delle classi popolari:

Il terzo alveare, ormai disfatto, è posto nel centro di questa civica regione alla piazza della Vetra. Su questa piazza, che sorge a tergo del Tempio di San Lorenzo, si alzava una volta l’infame patibolo, ed era il campo scellerato della città. Fra quallidi strati di macerie spuntavano qua e là poveri steli di erbacce che porgevano di primavera un magro pascolo a branchi di capre che ci davano un latte medicinale. In mezzo a quegli sterpi sorgeva un misero tronco di pietra, ove su una lastra metallica vedevansi dipinte fra le fiamme immagini umane col capestro al collo o colla testa sanguinolenta e recisa, coll’iscrizione espiatoria: pregate per i poveri giustiziati. Il popolo ambrosiano a canto alla Giustizia ha sempre voluto porre la Misericordia.

Quella località rassomigliava di notte alla famosa Corte dei miracoli stupendamente descritta da Victor Hugo nel suo romanzo Notre Dame. In certe luride taverne poste lungo questa piazza si ritraevano ai loro serali bagordi più di mille accattoni che qui noleggiavano all’incanto i veri ed i finti ciechi per condurli di giorno a limosinare.

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Il mercato dei latticini in piazza Vetra in un’incisione di fine Ottocento

Nel 1881 tutto era scomparso. Non rimaneva più nulla di questi tristi bassifondi. Come ricordava Giuseppe Sacchi, la copertura della Vettabbia dietro San Lorenzo e la costruzione di alcuni edifici avevano contribuito a migliorare notevolmente la vita del quartiere. Al posto delle sozze concerie sorgevano due case ove si teneva un affollato mercato di latticini, erbe e frutta.