Archivi categoria: fascismo

Riscoprirsi ebrei negli anni dell’esilio

Le peripezie dei Gerbi, in fuga dall’Europa a causa delle leggi razziali del 1938

Il libro di Sandro Gerbi (Ebrei riluttanti, Hoepli, Milano 2019, 158p) è un testo di notevole interesse storico per almeno due ragioni. L’autore, nel raccontare la storia della sua famiglia negli anni drammatici che precedettero la seconda guerra mondiale, è riuscito a mostrare come l’appartenenza dei suoi cari all’ebraismo fu vissuta in modi profondamente diversi: solo la violenza delle leggi razziali li costrinse a difendere quel patrimonio di valori e alcuni (come il padre Antonello) addirittura con stato d’animo distaccato, assai lontano da una pratica religiosa di rigida osservanza. Questo è il primo elemento distintivo del libro che sorprende il lettore comune: l’atteggiamento dei Gerbi verso la religione e le tradizioni ebraiche; un atteggiamento sofferto, quasi obbligato dagli eventi crudeli di quegli anni, descritto da un cugino del padre di Sandro, Paolo Treves, in una pagina illuminante della sua autobiografia: “L’autore di questo libro è anche ebreo (corsivo mio). Per la verità, solo quando cominciò la lotta antisemita in Italia questo fatto emerse dal complesso della sua personalità di uomo, e solo da allora se ne sentì particolarmente fiero. Prima non si era mai fermato col pensiero su questo fatto (S. GERBI, Ebrei riluttanti…cit., pag.19). 
Il libro di S. Gerbi, Ebrei riluttanti, Hoepli, Milano 2019.
I Gerbi erano giunti a Milano nel 1919 quando il nonno di Sandro, Edmo, aveva lasciato Roma per fissare la sua residenza nella città ambrosiana, ove lavorò per alcuni anni come agente di borsa. Si trattava di una famiglia della ricca borghesia italiana, composta, oltre che da Edmo (1874-1944), dalla moglie Iginia Levi (1878-1926) e dai tre figli Antonello (1904-1976), Giuliano (1905-1976) e Claudio (1907-1990). Da notare che la sorella di Iginia, Olga, aveva sposato il celebre politico socialista Claudio Treves e aveva avuto due figli, uno dei quali era il già citato Paolo (1908-1958). 
Il libro è scritto nello stile semplice ed elegante della migliore memorialistica, ricco di aneddoti, il che ne rende ancor più gradita la lettura. L’autore non racconta soltanto la storia della famiglia, ma si occupa in misura notevole di ricostruire il filo della sua esistenza dalla giovinezza fino agli anni più recenti. Alcune pagine sono dedicate al periodo della sua formazione nella Milano degli anni Cinquanta: colpisce il ricordo, velato da una certa nostalgia, della figura imponente e intellettualmente stimolante del professore di religione al liceo Manzoni, don Giovanni Barbareschi, le cui lezioni Gerbi aveva frequentato pur non essendovi costretto in forza della sua fede ebraica. 
Tra i ricordi – tutti rigorosamente documentati in una preziosa Nota al testo situata in fondo al libro alle pp.137-152  – spiccano gli incontri con persone illustri della cultura e della società italiana, dal filosofo ungherese Gyorgy Lukàcs all'antico direttore del “Corriere della Sera” Ugo Stille, dall’agente letterario Erich Linder al celebre giornalista Indro Montanelli: con quest'ultimo, che dirigeva sul "Corriere della Sera" la popolare rubrica "La Stanza di Montanelli", Gerbi ebbe nel 1999 una querelle sulle posizioni antiebraiche del leader neofascista Giorgio Almirante.
La seconda ragione per la quale il libro di Gerbi è un’opera di notevole interesse risiede a mio giudizio nell’aver mostrato efficacemente il dramma dell’esilio che colpì tante famiglie ebree alla fine degli anni Trenta:  uomini e donne costretti a lasciare la patria in seguito al clima di discriminazione e di isolamento culminato nell’introduzione delle famigerate leggi razziali.  Un dramma, questo dell’esilio, su cui l’autore si sofferma brevemente nella prima parte del volume, Exodus, ove ricostruisce con cura le sofferte vicende dei suoi cari. Mi limiterò a ricordare in questa sede i casi di Antonello, Claudio e Giuliano Gerbi.
Antonello, storico assai stimato da Benedetto Croce e Luigi Einaudi, ricopriva dal 1932 l’ufficio di capo dell’ufficio studi della Banca Commerciale Italiana guidata dal banchiere Raffaele Mattioli. Inviato a Lima - ufficialmente per adempiere a un compito amministrativo presso un istituto controllato dalla Comit, il Banco Italiano Lima -  il giovane storico dovette rassegnarsi a vivere oltreoceano a causa delle normative antisemite emanate in Italia alla fine del 1938. L’assunzione in pianta stabile come responsabile dell’ufficio studi del Banco, avvenuta poco dopo, gli consentì di mantenere un tenore di vita dignitoso in Perù. La nostalgia per l’Italia e per gli amici lasciati a Milano rimase però vivissima: essa si acuì durante la guerra e negli anni immediatamente successivi. Un sentimento che ben traspariva nel suo motto “Non perire al Perù!”. Solo nel 1948 Antonello e la sua famiglia avrebbero fatto ritorno in Italia. 
Claudio Gerbi fotografato durante l’attesa per l’imbarco sul Conte di Savoia, nave diretta a New York, 14 settembre 1938,
Tornando alla sua partenza per l’America, avvenuta il 19 ottobre 1938, essa seguì di un mese quella del fratello Claudio, che a Milano esercitava onorevolmente la professione di medico internista. In questo caso l’esilio dovette essere più difficile da sopportare perché, se per Antonello – come si è appena ricordato - il viaggio in Perù era stato pensato inizialmente come una missione di lavoro, per Claudio lasciare l’Italia significò chiudere definitivamente con la sua professione milanese e tentare la fortuna oltreoceano senza alcuna certezza di trovare un’occupazione. Giunto a New York con 175 dollari, trovò una sistemazione dapprima a Cleveland come assistente di un patologo, poi a Boston; nel 1942 riuscì ad aprire uno studio a Manhattan, ove esercitò onorevolmente la sua professione medica fino all’età di ottant’anni. Memorabile il suo adagio per tranquillizzare i pazienti affetti da ipocondria: “Esistono le malattie lievi e quelle gravi: per le prime basta una spremuta d’arancio, per le seconde raccomando un paio di aspirine!” (S. Gerbi, Ebrei erranti…cit., pag.23). 
I tre fratelli Gerbi a New York nell’ottobre 1945, Da sinistra: Claudio, Giuliano, Antonello.
Il secondo fratello di Antonello, Giuliano, era invece un brillante giornalista sportivo; aveva lavorato per la testata “L’Ambrosiano” e alla fine degli anni Trenta era stato assunto all’EIAR, l’ente italiano per le audizioni radiofoniche; qui si era guadagnato una certa popolarità in occasione del Tour de France avvenuto nell’estate 1938, quando svolse alla radio un appassionato resoconto della gara vinta da Gino Bartali; una bravura che non bastò però a salvargli il posto. Anche lui dovette lasciare l’Italia nell’autunno di quell’anno a causa delle leggi antisemite. Giunto a Parigi, fu aiutato inizialmente dal corrispondente del “Corriere della Sera”, Paolo Monelli, che gli diede lavoro affidandogli la stesura di alcuni articoli. Un’occupazione destinata a finire ben presto: il direttore del quotidiano di via Solferino, Aldo Borelli, venuto a sapere che Monelli aveva alle sue dipendenze un giornalista ebreo, vietò al collega di servirsi ulteriormente della sua collaborazione. Grazie all’aiuto del liberale Giovanni Malagodi, che aveva incontrato proprio a Parigi, Giuliano Gerbi riuscì così a trasferirsi oltreoceano: ricoprì un modesto impiego di banca dapprima a Barranquilla, un malfamato porto colombiano, poi a Bogotà. Per Giuliano la nuova vita in America fu deprimente, confinato in un Paese cui si sentiva estraneo, costretto a svolgere un impiego che non corrispondeva certamente alle sue attese professionali. 

Nella primavera del 1942 si trasferì a Boston, ove risiedeva a quei tempi il fratello Claudio, nella speranza di trovare migliori opportunità di lavoro. Dopo aver esercitato per qualche tempo la modesta professione di contabile in una ditta che vendeva abiti a rate, la svolta arrivò quando fu assunto da una radio italiana con sede a New York: qui poté riprendere finalmente il lavoro del giornalista radiofonico che era la sua autentica passione. 

Durante la guerra le sue trasmissioni furono seguite in Europa non solo dai soldati americani, ma anche da tanti italiani che, sintonizzandosi sulle onde della “Voice of America”, ritrovarono la voce inconfondibile del giornalista sportivo. Al termine del conflitto Giuliano continuò a lavorare per diverse emittenti americane. Una di queste, la WOV, gli affidò la conduzione di un originale programma finanziato da una ditta alimentare, la “Progresso”: l’idea era di incrementare le vendite presso la comunità italo americana di New York realizzando la seguente offerta commerciale: “mandateci dieci etichette dei nostri pomodori pelati e in cambio noi vi faremo ascoltare alla radio le voci dei vostri cari rimasti in Italia”. 

Giuliano si dedicò a questa impresa nel corso degli anni Cinquanta, un incarico che gli consentì finalmente di far ritorno in Italia.  Come ricorda Sandro Gerbi, i viaggi dello zio furono innumerevoli, tutti alla ricerca delle famiglie da intervistare: egli registrava scrupolosamente le conversazioni su bobine che venivano poi spedite negli Stati Uniti corredate dai suoi commenti in impeccabile inglese. Il successo della trasmissione fu di tale entità che nel 1953 si giunse a trasmettere diciotto puntate alla settimana. 

Il caso Ruby mette a nudo le vergogne degli italiani

In rete sta circolando un breve scritto di Elsa Morante (1912-1985). 
Benito Mussolini è la persona su cui si concentrano le riflessioni della scrittrice. 
Lo riporto integralmente perché mi sembra attuale. 


A seguire, alcune mie considerazioni. 




“Il capo del Governo si macchiò ripetutamente durante la sua carriera di
delitti che, al cospetto di un popolo onesto, gli avrebbero meritato la
condanna, la vergogna e la privazione di ogni autorità di governo. Perché
il popolo tollerò e addirittura applaudì questi crimini? Una parte per
insensibilità morale, una parte per astuzia, una parte per interesse e
tornaconto personale. La maggioranza si rendeva naturalmente conto delle
sue attività criminali, ma preferiva dare il suo voto al forte piuttosto
che al giusto. Purtroppo il popolo italiano, se deve scegliere tra il
dovere e il tornaconto, pur conoscendo quale sarebbe il suo dovere, sceglie
sempre il tornaconto. 



Così un uomo mediocre, grossolano, di eloquenza volgare ma di facile
effetto, è un perfetto esemplare dei suoi contemporanei. Presso un popolo
onesto, sarebbe stato tutt’al più il leader di un partito di modesto
seguito, un personaggio un po’ ridicolo per le sue maniere, i suoi
atteggiamenti, le sue manie di grandezza, offensivo per il buon senso della
gente e causa del suo stile enfatico e impudico. In Italia è diventato il
capo del governo. Ed è difficile trovare un più completo esempio italiano.
Ammiratore della forza, venale, corruttibile e corrotto, cattolico senza
credere in Dio, presuntuoso, vanitoso, fintamente bonario, buon padre di
famiglia ma con numerose amanti, si serve di coloro che disprezza, si
circonda di disonesti, di bugiardi, di inetti, di profittatori; mimo abile,
e tale da fare effetto su un pubblico volgare, ma, come ogni mimo, senza un
proprio carattere, si immagina sempre di essere il personaggio che vuole
rappresentare.” 

Le indagini portate avanti dai pm di Milano nei confronti della vita privata del presidente del Consiglio hanno gettato il Paese in uno stato di turbamento e di profondo disagio. Mai come in questi giorni l’Italia ha dimostrato di essere alla deriva non solo in base ai valori etico morali, ma ancor più sul piano dei principi che stanno alla base dello Stato di diritto europeo liberal-democratico. Perché qui – bisogna esser chiari fino in fondo – a scandalizzare non è tanto la vita privata del presidente del consiglio. A suscitare indignazione è l’indifferenza, il disinteresse, la sostanziale apatia di noi italiani. 





Il popolo italiano non esiste. E’ sempre stata l’invenzione di una minoranza di poeti, intellettuali e politici spregiudicati. Gli italiani non sentono di appartenere a una comunità nazionale perché c’è sempre stata una classe politica  s e p a r a t a  dalla società che ha pensato per loro, che si è occupata di politica facendo – spesso male – quel che loro stessi avrebbero dovuto controllare che fosse fatto bene. Non c’è in Italia una cultura civica. Questo spiega l’apatia, l’indifferenza, il totale disinteresse di larga parte dei cittadini nei confronti della politica, buona o cattiva che sia.


Si può sostenere con relativa attendibilità che in 150 anni alcune minoranze hanno confezionato tre camice di forza per gli italiani: prima lo Stato monarchico (‘parlamentare’ e accentrato), poi lo Stato fascista (governativo e accentrato), infine la Repubblica italiana (parlamentare, decentrata e a tratti ‘autonomista’ ma in realtà partitocratica). Tre regimi imposti dall’alto, tre poteri pubblici nei quali gli italiani hanno recitato quasi sempre il ruolo di comparse: comparse buone in circostanze eccezionali per le manifestazioni in piazza o per le rivoluzioni  (pensiamo alle lotte partigiane combattute contro i nazi-fascisti al centro-nord), ma tenute  rigorosamente lontane dalle stanze del potere, chiamate a intervenire solo nel giorno delle elezioni.


E’ una storia che in fondo risale all’Unità. Prendiamo le leggi di unificazione amministrativa approvate dal governo il 20 marzo 1865 ed estese a tutta la penisola: la camicia, di taglia piemontese, venne fatta indossare ai popoli italiani senza coinvolgere le classi dirigenti, senza chieder loro se le misure fossero adatte alla costituzione naturale dei territori. Il risultato fu scontato: la classe politica ‘italiana’, nel timore di attentare all’Unità nazionale (eterno spauracchio agitato dalla classe politica contro qualunque riforma minacci di intaccare il suo potere), bocciò i timidi progetti regionalisti avanzati da Luigi Carlo Farini e da Marco Minghetti, ingabbiando il paese nel vestito di un nano (il piccolo Piemonte).


Ottantatrè anni dopo: stesso copione. Caduto il fascismo dopo vent’anni di dittatura, i nostri “padri costituenti” emanarono nel 1948 la Costituzione repubblicana guardandosi bene dal sottoporla a referendum. I francesi e gli spagnoli, riottenuta la libertà, agirono in modo diverso e chiesero al popolo di esprimersi con plebiscito sulle Costituzioni repubblicane. Da noi, nisba. Il popolo, chiamato due anni prima ad eleggere l’assemblea costituente, decise soltanto tra monarchia e repubblica. Scrisse a fine ottobre 1944 la Segreteria del Partito d’Azione dell’Alta Italia: “Che importa avere un presidente anziché un re se tutto l’apparato statale è fondato sul principio monarchico dell’autorità che scende dall’alto?” (Lettera aperta della Segreteria del Partito d’Azione dell’Alta Italia al comitato esecutivo del partito dell’Italia centro-meridionale, pubblicata in E. ROTELLI, L’avvento della Regione in Italia, Milano, Giuffré, 1967, pp.45-46). Sagge parole. Quel che avvenne è noto a tutti. Anziché rifondare l’ordinamento repubblicano su basi autonomiste e rendere democratici i Cln regionali, i partiti antifascisti scelsero di conservare l’apparato amministrativo dello Stato unitario. Un apparato amministrativo unitario e centralizzato che i fascisti avevano ricevuto in eredità dallo Stato liberale e avevano perfezionato in base alla logica autoritaria di Mussolini.


Anche negli anni della Repubblica lo Stato italiano continuò ad essere fondato sulla struttura unitaria e centralizzata della sua burocrazia, né valse l’introduzione delle Regioni (avvenuta negli anni Settanta del secolo scorso) a migliorare una situazione che divenne sempre più ingessata, pietrificata, irriformabile. Anzi. Le Regioni, lungi dall’esercitare le funzioni prima detenute da alcuni ministeri dello Stato centrale, finirono con il produrre nuova burocrazia e una congerie di uffici che appesantirono ulteriormente l’andamento dell’amministrazione pubblica.       


I difetti fondamentali che avevano segnato la fine dello Stato italiano nato dal Risorgimento finirono ben presto con il riformarsi inesorabilmente nella Repubblica Italiana. Ancora oggi, tutto viene imposto dall’alto. I cittadini sono concepiti alla stregua di minorenni eternamente immaturi. Basta guardare all’impianto della nostra Costituzione: una Carta fondata sulla centralità del Parlamento (quindi dei politici di professione) e sul ruolo marginale riservato ai cittadini e agli enti territoriali, nonostante la falsa riforma federale. Finché rimarrà questa tara, continueremo ad essere governati da una minoranza legale inevitabilmente staccata dal paese reale. Diciamolo chiaramente e una volta per tutte. Finché sarà in vigore questa Costituzione, l’Italia continuerà ad essere un Paese ove i professionisti della politica detengono il sostanziale monopolio del potere; dove i cittadini, concepiti come pupilli inadatti ad assumersi la responsabilità di decidere sui problemi più importanti, son tenuti lontano dalla politica attiva, condannati ad esprimersi nel giorno delle elezioni, nei casi alquanto rari in cui un referendum abrogativo raggiunga il quorum o nei casi in cui  i parlamentari votino una riforma della costituzione con una maggioranza inferiore ai due terzi.


La Costituzione vigente  concentra gran parte delle funzioni pubbliche negli istituti della democrazia rappresentativa, prerogativa di una classe politica normalmente mediocre. L’intellettuale meridionale Gaetano Salvemini, uno dei grandi interpreti del federalismo,  quando lesse la Costituzione del ’48, intuì con grande lucidità quel che sarebbe avvenuto e non esitò a sostenere che “il presente regime politico può essere definito il fascismo meno  Mussolini più le Regioni” (passo citato in E. ROTELLI, Regionalismo, in «Amministrare», a.XXXIV, n.3, dicembre 2004, pag.349). Non poteva dir meglio e il giudizio resta in larga parte valido nonostante il federalismo all’acqua di rose approvato dal centrosinistra nel 2000 e confermato dagli italiani con referendum.     


Ma, a ben vedere, questa situazione risale alla nostra ‘nascita’ come “Stato-Nazione”: lungi dal costruire una Confederazione di Stati nel rispetto delle piccole patrie facendo dialogare fra loro i popoli italiani (come chiedevano i federalisti cattolici e democratici), si volle cancellare d’un tratto e con violenza inaudita il patrimonio storico giuridico degli Stati preunitari, fondando sullo Stato piemontese il nuovo regime italiano. Si dirà che tale esito era inevitabile vista l’opposizione delle classi dirigenti preunitarie alla politica del Piemonte (Austria in primis). E’ vero. Questo tuttavia non basta a giustificare quanto avvenne in seguito all’unificazione, soprattutto nell’ex Regno delle Due Sicilie. Lo scollamento dei cittadini dalle istituzioni, la cesura tra paese reale e paese legale già presente in parte negli Stati preunitari, si acuì maggiormente con la fondazione dello Stato italiano.


In Svizzera avvenne il fenomeno inverso: la costruzione di un nuovo soggetto politico unitario (la Confederazione elvetica), quantunque fosse avvenuta  in modi e tempi diversi, non portò all’annientamento radicale delle radici statuali preunitarie. In Svizzera i Cantoni tendono ancora oggi ad essere i Cantoni preunitari. Possiamo dire lo stesso per le nostre Regioni? La risposta è evidentemente negativa.


Sempre in terra elvetica, nel 1874, venne introdotto il referendum legislativo per garantire piena voce al popolo allontanando il rischio che la concentrazione di alcune funzioni nella Confederazione rischiasse di produrre il dispotismo partitocratico. Oggi l’autentico federalismo a base cantonale e i referendum (propositivo deliberativi in campo legislativo e costituzionale) garantiscono alla Svizzera una vera democrazia. Beati loro. Noi dobbiamo fare i conti con lo strapotere dei partiti e con uno Stato nazionale inevitabilmente fittizio perché imposto dall’alto.


A voler essere paradossali, Berlusconi ha avuto il merito di mettere finalmente a nudo le vergogne degli italiani. Altro che 150 anni di Unità d’Italia! Il caso Berlusconi dimostra che l’Italia non esiste.


Se l’Italia esistesse e, come vanno dicendo, fosse uno Stato europeo di diritto liberal-democratico, sarebbe stato  impossibile al Cavaliere salire al potere e rimanerci così a lungo. Ma gli italiani, come scriveva bene la Morante, pensano al loro tornaconto, al loro particulare.


Il bene della comunità nazionale non esiste. E’ una sovrastruttura imposta da una minoranza che pensa “amorevolmente” per gli italiani. Il risultato? Una televisione di Stato gestita dai partiti, una stampa in larga parte asservita e due milioni di miliardi di debito pubblico.