Mainini: Milano sia sede di una corte Ue sui brevetti

Ieri pomeriggio, all’Urban Center di Milano, il Centro Studi Anticontraffazione ha presentato al pubblico le ultime novità sull’adesione dell’Italia all’istituto del brevetto unico europeo.

L'assessore Franco D'Alfonso, la presidente del Centro Studi Anticontraffazione Daniela Mainini, il professor Cesare Galli
L’assessore Franco D’Alfonso, la presidente del Centro Studi Anticontraffazione Daniela Mainini, il professor Cesare Galli

L’incontro, presieduto e moderato dalla presidente del Centro Studi Grande Milano Daniela Mainini, ha visto la partecipazione di molte personalità appartenenti al mondo imprenditoriale, accademico, politico. Tra gli intervenuti il professor Cesare Galli ordinario di diritto industrale all’Università di Parma, Pier Giovanni Giannesi direttore proprietà industriale in Pirelli, Francesco Macchetta direttore proprietà intellettuale Bracco, Aldo Buratti presidente di Confapi (Unione nazionale della piccola e media industria nel settore tessile, abbigliamento, calzaturiero, pelli, cuoio), Franco D’Alfonso assessore al commercio e alle attività produttive del Comune di Milano.

Il tema della lotta alla contraffazione è molto importante per l’economia italiana. Me ne sono già occupato in un articolo pubblicato a febbraio (clicca qui). Oggi le imprese devono spendere molte risorse per registrare i brevetti, la cui validità è ristretta ai confini nazionali e non consente una tutela efficace nella lotta alla contraffazione. Nel 2014 le aziende italiane hanno depositato 9.382 brevetti: di questi 2.708 – pari al 28,8% – provenivano da ditte lombarde.

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L’assessore al Comune di Milano Franco D’Alfonso

Elevato è anche il costo delle cause nella lotta contro il falso. Se restiamo a Milano, il fenomeno ha raggiunto soglie allarmanti nei campi più svariati: dai cosmetici all’alimentare, dai giocattoli al farmaceutico. Secondo i dati riportati dall’assessore D’Alfonso, tra il 2011 e il 2014 sono stati individuati più di 34 milioni di pezzi contraffatti, cui sono seguiti 54.175 sequestri (penali e amministrativi).

Di fronte a un problema di tali dimensioni i tribunali italiani non possono più condurre da soli la battaglia per la difesa delle aziende dai danni della contraffazione. La scelta di non aderire alla cooperazione rafforzata in tema di brevetti fu un errore clamoroso del governo italiano, che alcuni anni fa si oppose a una gestione europea della giurisdizione. Il risultato è che oggi un’azienda intenzionata a difendere il marchio a livello europeo deve recarsi all’Epo di Monaco per registrare i brevetti con costi non indifferenti. Se consideriamo che le piccole e medie imprese – che sono la spina dorsale dell’Italia – vivono soprattutto sulle esportazioni dei loro prodotti, non è difficile capire quanto sia importante tutelare i brevetti potendo contare su un’autorità sovranazionale che abbia sede in Italia.

Oggi l’ingresso del nostro paese nel sistema del brevetto unitario, annunciata dal sottosegretario agli affari europei Sandro Gozi, costituisce una tappa importante per consentire alle aziende di operare in questo campo alle stesse condizioni dei maggiori Paesi europei: Francia e Germania.

La prossima tappa sarà la scelta di una città ove aprire la sede locale europea per la giurisdizione sul brevetto unico. L’Italia ha due anni di tempo per decidere. Come ha sostenuto la presidente Mainini, l’apertura di una corte a Milano sarebbe un’ottima soluzione per il dopo Expo. Milano è la candidata naturale, se si considera che in questa città viene depositato ogni anno un quarto dei brevetti italiani.

E’ stato stimato che l’adesione del nostro Paese al brevetto unitario europeo e l’apertura della sede locale consentirà alle imprese di risparmiare 400 milioni di euro all’anno. Un riduzione dei costi che permetterà alle aziende di investire maggiormente nella ricerca e accrescere la competitività sul mercato mondiale.

Perché Milano sta risorgendo a nuovo splendore

In un articolo scritto a gennaio, intitolato Milano vetrina del Made in Italy, chiudevo con l’augurio che la città ambrosiana potesse divenire nel periodo di Expo 2015 il fiore all’occhiello della cultura e della creatività italiana. Oggi devo dire che siamo sulla buona strada. La metropoli sta diventando una città fervida d’iniziative in svariati ambiti, una metropoli in grado di affascinare tanti giovani. Milano è caratterizzata da un policentrismo che ne arricchisce sensibilmente l’offerta culturale. Ogni zona presenta tratti distintivi che si integrano nella trama cittadina come tessere di uno splendido mosaico.

Fondazione Prada
Fondazione Prada

La Fondazione Prada ha aperto al pubblico in zona Ripamonti, in quelli che erano un tempo i Corpi Santi di Porta Romana a due passi dal Vigentino: con le mostre di arte classica e arte contemporanea ha reso accessibili enormi spazi espositivi nella sede di una fabbrica di liquori risalente agli anni Dieci del secolo scorso. L’edificio è quello dell’antica distilleria SIS che produceva il famoso brandy Cavallino Rosso. Oggi il vasto stabile, con la sua torre industriale verniciata d’oro svettante in un panorama di aree dismesse, costituisce un punto di riferimento per tanti intellettuali e creativi: tutti desiderosi di aggiornarsi sulle sperimentazioni artistiche da cui trarre ispirazione nei campi del design, della fotografia, del marketing. Alla Fondazione Prada va il merito di aver consentito la riqualificazione di una vecchia area industriale, fino a pochi anni fa in stato di palese degrado.

garibaldi repubblicaPrendiamo un altro quartiere, nella parte opposta della città, zona Garibaldi-Repubblica: qui l’architettura dei grattacieli che svettano con soluzioni originali e avveniristiche, il ponte su via Melchiorre Gioia, il raffinato design delle piazza Gae Aulenti ed Alvar Aalto, i prati vicino alle vie Colombo e Galilei hanno completamente ridisegnato la zona corrispondente ai due quartieri situati fuori dai bastioni, negli antichi Corpi Santi di Porta Comasina e di Porta Nuova. Oggi il quartiere Garibaldi-Repubblica si pone tra le aree residenziali più esclusive della città, continuando – sia pure in modi profondamente diversi – quello stile aristocratico che il visitatore poteva toccare con mano nei secoli passati, in alcune contrade dei sestieri di Porta Nuova e di Porta Orientale. La torre del palazzo di Unicredit, la cui cuspide si eleva verso il cielo superando in altezza la Madonnina del Duomo, costituisce il simbolo della moderna city finanziaria, visibile a svariati chilometri di distanza.

Darsena1Spostiamoci ancora a sud, questa volta in direzione sud-ovest. Troviamo la nuova Darsena, resa finalmente accessibile grazie a un’opera di recupero che, seppur oggetto di contestazioni, è stata certamente positiva: la sapiente valorizzazione dei navigli ha consentito l’apertura di uno spazio urbano ove l’acqua ha assunto un peso decisivo nel favorire l’attrazione turistica del quartiere, divenuto in poco tempo una delle zone più frequentate della città, meta di tanti giovani attratti dalla storica bellezza del luogo.

Ho citato tre quartieri che riflettono anime diverse della città, uniti da un senso di appartenenza alla comunità ambrosiana. La riqualificazione di tanti isolati cittadini è spia del cambiamento profondo di Milano cui mi riferivo all’inizio. A quale filosofia è ispirato questo “rinascimento milanese”? E’ un nuovo sentire, un senso di comunità che rende milanesi nella moda, nell’etica del lavoro, nella vita quotidiana alternativa, negli stili di vita più originali e creativi. Una città che sa essere un grande laboratorio del Made in Italy, aperta alle nuove frontiere dell’arte, della tecnologia, del design.

Il segreto di questo successo, che si spiega a monte con un profondo cambiamento di mentalità e di stili di vita, risiede a mio parere nella capacità di inventare il futuro recuperando in chiave nuova elementi storici dell’identità urbana. Penso alla Darsena, ma anche allo stesso progetto di riapertura dei navigli in centro città: i navigli, elementi secolari del paesaggio urbano milanese, caduti nell’oblio per gran parte del Novecento, vengono ora recuperati, reinventati per abbellire il paesaggio urbano a fini turistico culturali. Milano torna ad essere finalmente una città vivibile, a misura d’uomo.

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I milanesi scesi in strada nella manifestazione “Milano non si tocca” promossa dal Sindaco di Milano Giuliano Pisapia il 3 maggio

Un tempo si diceva che a Milano non si passeggia ma si lavora. Questo è ancora vero ma non basta a descrivere la vita cittadina. Nella metropoli che si va costruendo passeggiare per le vie e le piazze della città non è più un privilegio di turisti e sfaccendati. I milanesi si stanno riappropriando di Milano perché sentono di amarla. Certo, la amano a modo loro, con stile dimesso, non ostentato, in linea con l’autentica anima ambrosiana. Basti pensare al successo dell’iniziativa (hashtag #Milanononsitocca), nella quale migliaia di milanesi – contro ogni aspettativa – sono scesi in strada a metà maggio, uniti dalla volontà di ripulire gli edifici e di manifestare contro i vandali che pochi giorni prima, durante una manifestazione, avevano devastato vetrine e macchine in una zona del centro.

Riapriamo i navigli
Progetto di riapertura del naviglio tra via San Marco e via Fatebenefratelli

Se questo è il clima che si respira oggi, non è difficile pensare che un giorno i milanesi, anziché fuggire dalla metropoli nel weekend per recarsi al lago o al mare, scelgano di passeggiare lungo i canali riaperti del centro cittadino, magari salendo su battelli turistici in tragitti panoramici che mettano in collegamento Milano e l’Adda, Milano e Pavia, Milano e il Ticino; oppure, come molti giovani stanno già facendo in Darsena, sedendo sulle rive dei canali o nei prati vicino ai moli per le imbarcazioni per trascorrere in compagnia alcune ore del fine settimana.

20 maggio 1930: apre il planetario di Porta Venezia

Chi arriva in corso Venezia da corso Buenos Aires, trova sulla destra i giardini pubblici. Costruiti negli anni Ottanta del Settecento dall’architetto Giuseppe Piermarini sui terreni dell’ex monastero di Santa Maria Addolorata  – chiamato monastero “delle Carcanine” dal nome del fondatore, Giovanni Pietro Carcano –  e della chiesa di San Dionigi, i giardini vennero ingranditi nel 1856 ad opera dell’ingegnere Giuseppe Balzaretto: questi procedette all’unione della proprietà Dugnani, facendo della vasta area un parco in stile inglese caratterizzato da cascate, dirupi, laghetti, grotte. A proposito della chiesa di San Dionigi, ove si trovava la pietra misteriosa di San Barnaba , clicca qui se vuoi saperne di più! 😉

Oggi i giardini pubblici sono uno dei principali parchi di Milano con una superficie di 177.000 metri quadrati: uno spazio considerevole in cui i milanesi possono trascorrere il tempo libero camminando tra gli alberi, i prati e gli ameni viottoli. E’ un luogo di relax e divertimento per molte famiglie. Nel weekend (e non solo…) il parco si popola di tanti amanti della corsa. Inoltre, durante la settimana, è frequentato nelle ore di punta dagli impiegati che lavorano nel quartiere (zona via Senato, via Marina, via Fatebenefratelli, via Manin, via Turati..): li trovi ai giardini mentre mangiano un panino in pausa pranzo.

Nel luogo ove era il chiostro delle Carcanine si trova il Museo civico di storia naturale. Oggi mi soffermerò però su un altro edificio situato all’interno del parco: il planetario. La scelta non è casuale perché il 20 maggio di ottantacinque anni fa, nel 1930, la palazzina veniva inaugurata alla presenza del Duce in persona.

Benito Mussolini inaugura il Planetario
Benito Mussolini inaugura il Planetario, 20 maggio 1930

Come fu resa possibile la costruzione del planetario? La presenza delle autorità fasciste non deve indurci a considerazioni semplicistiche. Gli uomini che resero possibile questo progetto furono eminenti personalità della classe dirigente milanese. Convissero con il fascismo come larga parte della popolazione italiana, costretta a rinunciare alle libertà politiche e civili pur di continuare a lavorare in patria.

Il finanziatore del planetario fu l’editore e libraio di origine svizzera Ulrico Hoepli (1847-1935). Superati gli ottant’anni, giunto a un’età in cui si è soliti tirare i remi in barca, l’editore si dedicò ad iniziative filantropiche che fossero utili al progresso della società. Con quest’opera volle rendere omaggio a quella che era divenuta la sua “patria di adozione”, la “generosa Milano” come definì la città ambrosiana in un intervento letto il giorno dell’inaugurazione.

Hoepli si dimostrò un infaticabile promotore della vita culturale cittadina. Amava Milano perché le doveva molto: qui tentò la sorte come emigrato, qui fece fortuna lavorando sodo come libraio ed editore, qui allargò i suoi orizzonti entrando in contatto con i maggiori uomini di cultura. Del tutto indicativo, a tal proposito, il rapporto di Hoepli con il noto astronomo Giovanni Virginio Schiaparelli (1835-1910), le cui opere furono pubblicate dalla sua casa editrice a partire dal 1929. Per inciso gli Schiaparelli, un’importante famiglia della borghesia italiana tra Otto e Novecento, diedero al Paese noti scienziati e uomini di cultura: dal professor Ernesto Schiaparelli (1856-1928), cugino di Giovanni Virginio, egittologo, studioso di formazione cattolico liberale, a Luigi Schiaparelli (1871-1934), insigne paleografo e medioevalista.

La costruzione del planetario si poneva quindi in un progetto teso non solo ad abbellire la città, ma anche a favorire presso la cittadinanza la diffusione delle scoperte scientifiche in campo astronomico. Milano non era certo nuova all’astronomia. L’Osservatorio astronomico di Brera, costruito dal matematico Ruggero Boscovich nel 1764, negli anni in cui la Lombardia si trovò sotto il governo dell’imperatrice Maria Teresa d’Austria, continuava ad essere un’istituzione prestigiosa. Nell’Italia del primo Novecento si faceva sentire tuttavia la mancanza di uno strumento d’avanguardia che fosse in grado di proiettare su un muro circolare le figure dei pianeti e delle stelle. Varrà la pena ricordare che nella Germania di Weimar, il paese più progredito nel campo delle scienze sperimentali, tra il 1926 e il 1928 furono costruiti planetari a Lipsia, Dusseldorf, Jena, Dresda, Hannover, Mannheim.

L’Italia non poteva essere da meno. I lavori per la costruzione del planetario milanese furono affidati a Piero Portaluppi (1888-1967). Questi scelse i giardini di Porta Venezia perché i cittadini, entrando nel parco, lasciando per un attimo gli affanni del lavoro, potessero riposare la mente nell’assistere alla proiezione dei pianeti.

Così Portaluppi spiegava le ragioni che lo avevano spinto a costruire il planetario all’interno dei giardini pubblici:

Planetario in costruzione
Il Planetario in costruzione

Non era troppo facile cosa trovare in Milano la località adatta per costruirvi un planetario, una località che fosse inclusa nell’organismo della metropoli e in pari tempo appartata; scoprire quasi una zona di raccoglimento ai margini stessi della vita cittadina che mettesse in grado chiunque, non importa di quale classe sociale, di dimenticare per poco la febbre che spinge ciascuno di noi alla rincorsa folle di un suo particolare tormento e di lanciare il proprio pensiero…in scorribande incommensurabili dietro il pellegrinare delle stelle.

E il problema sembra risolto con la scelta di quel tratto di pubblico giardino folto di alberi posto verso Corso Venezia tra papà Stoppani [si riferisce al vicino Museo di Storia Naturale] e l’erma [statua] di Mosé Bianchi [pittore]; nel centro stesso di Milano, a due passi da un’arteria ampia e rumorosa in mezzo alla folla, e pur solitaria sotto la volta verdeggiante degli ippocastani antichi, si eleva la volta ridotta dei cieli.

I lavori, iniziati nel luglio 1929, durarono quasi un anno. All’interno del planetario fu posizionato uno strumento ottico di marca rigorosamente germanica: Zeiss modello II.

Planetario 1929L’edificio disegnato da Portaluppi è tuttora visitabile. Si caratterizza per la classicità delle forme architettoniche. La facciata, costituita da un colonnato con timpano triangolare sul modello dei templi antichi, è preceduta da un’ampia scalinata. La cupola è inglobata in uno stabile a pianta ottagonale le cui brevi facciate, come spiegò lo stesso Portaluppi in un suo intervento pubblicato nel 1930, “sembrano sgattaiolare tra i vecchi tronchi [dei giardini]  sfiorandoli senza urtare uno solo”.

La città metropolitana: così la grande Milano guarda all’Europa

Il ruolo di Milano come centro di una vasta area metropolitana è stato oggetto di innumerevoli studi da almeno trent’anni. L’interesse per questo tema si è accresciuto negli ultimi tempi in seguito all’approvazione della legge 56/2014, la cosiddetta “Legge Del Rio” che, nel riformare l’ente provincia, ha istituito le città metropolitane di Milano, Torino, Venezia, Genova, Bologna, Firenze, Bari, Napoli e Reggio Calabria, dando seguito al disposto del titolo V della Costituzione.

Probabilmente ti starai già facendo questa domanda.

Va bene Gabriele. A me cosa importa della città metropolitana? Cosa cambierà nella mia vita?

Una domanda elementare e sensata. Anzi. Spesso mi vien fatto di pensare che se il legislatore e la pubblica amministrazione dessero risposte elementari ai bisogni dei cittadini – come ad esempio leggi e regolamenti di poche pagine, servizi veloci e puntuali – avremmo guadagnato in efficienza amministrativa quel ritardo che il nostro Paese sconta nelle classifiche internazionali di fronte a Stati europei simili al nostro per dimensioni e popolamento: penso a Germania, Francia, Inghilterra.

Ma torniamo alla Città metropolitana. In effetti, chi leggesse per la prima volta il lungo testo della legge Del Rio scoprirebbe che la normativa obbedisce al fine primario di snellire l’ente provincia, trasformandola in sostanza in una federazione di comuni. Eppure, a un’attenta disamina, le novità sono molte. Compaiono appunto le città metropolitane. Nel caso di Milano tale ente intermedio coincide nella sua estensione con la vecchia provincia. Qui ci sarebbe già motivo di criticare questa legge per due ragioni. Anzitutto perché Monza e i Comuni limitrofi continuano a formare una provincia a sé stante. Negli anni passati – com’è noto – furono staccati da Milano per una decisione politica che nulla aveva da spartire con le ragioni della storia e della buona amministrazione. Nei prossimi anni sarà importante insistere perché Monza e la parte di Brianza attualmente compresa nel suo circondario tornino ad essere comprese nell’area metropolitana milanese.

In secondo luogo, la scelta di limitare il nuovo ente metropolitano al territorio della provincia è a dir poco discutibile perché gli studi di scienza amministrativa hanno dimostrato da anni che l’area metropolitana milanese si estende ben oltre quei confini, fino a comprendere innumerevoli comuni situati nelle province di Novara, Varese, Como, Lecco, Lodi, Pavia, Bergamo, Brescia, Cremona, Mantova. Insomma, una maggiore creatività istituzionale sulla base dei risultati delle scienze economiche avrebbe consentito di configurare meglio il nuovo ente.

metropolitana_area.jpg_1413728627Nonostante tali mancanze, la legge ha però il merito di aver introdotto finalmente la città metropolitana che, limitatamente ai Comuni della vecchia provincia di Milano, è un’area a economia avanzata i cui abitanti hanno in comune alcune caratteristiche che si fanno via via più evidenti all’avvicinarsi al comune capoluogo. La città metropolitana di Milano comprende oggi 134 Comuni con una popolazione superiore ai 3 milioni di abitanti e una densità pari a 1924,39 abitanti per kmq. Quali sono queste caratteristiche che differenziano i comuni metropolitani dagli altri municipi italiani? Anzitutto il fenomeno del pendolarismo, il Daily Urban System, in base al quale un numero considerevole di cittadini metropolitani si reca a Milano per ragioni di lavoro. In secondo luogo, l’alto valore del dato sull’occupazione di tipo medio-alto e i livelli contenuti degli indici relativi all’attività agricola e all’istruzione bassa.

Se poi vogliamo scendere ancor più in profondità nell’analisi socio-economica, occorre ricordare che in alcuni comuni della Città metropolitana gli studiosi hanno individuato caratteristiche ulteriori. Sono municipi che costituiscono assieme a Milano il nocciolo duro dell’area metropolitana. Immediatamente confinanti con il comune di Milano, che domina nettamente con una popolazione superiore al milione di abitanti e una densità pari a 6.822,23 abitanti per chilometro quadrato – a proposito, se vuoi saperne di più su questa Grande Milano costituita tra Otto e Novecento, clicca qui 😉 – ci sono nove comuni: Bresso, Cinisello Balsamo, Cologno Monzese, Cormano, Corsico, Cusano Milanino, Novate Milanese, Pero, Sesto San Giovanni. Gli specialisti hanno definito questa corona immediatamente esterna a Milano con il termine di urban core. La struttura urbanistica di tali municipi quasi si confonde con la città capoluogo. Alcuni vi riconoscono addirittura una “Milano funzionale” che è quasi tutt’uno con la Milano amministrativa. Questi comuni condividono con la metropoli una soglia elevata di valori che sono tipici di aree ad economia avanzata: mi riferisco al tasso di occupazione medio alta, all’indice di istruzione alta e al reddito pro-capite.  Quest’area ha un territorio complessivo pari a un terzo del Comune di Milano, una popolazione di 334.990 abitanti, e una densità per abitante seconda solo a Milano, pari in media a 5279 kmq. Monza, esclusa per ora dalla Città metropolitana, rientra nell’urban core.

Torniamo alla Città metropolitana nel suo complesso. Le opportunità per una migliore gestione del territorio giocano tutte a favore di questa nuova istituzione, il cui obiettivo primario sarà quello di garantire una qualità di servizi analoga a quello garantita ai milanesi nei trasporti, nelle comunicazioni, nella viabilità, nelle infrastrutture, nella mobilità, nella connessione a banda larga e nella tutela dell’ambiente.

milano metropolitana infrastruttureIl divario tra Milano città e la sua antica provincia è sotto gli occhi di tutti. Oggi un abitante di Pantigliate, Carpiano, Rosate, Sedriano, Garbagnate, Grezzago – per citare alcuni comuni situati nelle zone metropolitane verso le quali guardano le sei porte cardine di Milano (Orientale, Romana, Ticinese, Vercellina, Comasina, Nuova) – può raggiungere il centro con una rete di trasporto inefficiente: una rete concepita per servire gli abitanti di un piccolo comune o di piccoli municipi, non può rispondere ai bisogni di una popolazione i cui spostamenti sono quelli di un’area a economia avanzata equiparabile a Londra, Parigi e Chicago. Lo stesso vale per gli spostamenti dei cittadini da un comune all’altro dell’area metropolitana, spostamenti dettati in primo luogo da ragioni di lavoro. Occorre poi aggiungere un terzo flusso: quello dei milanesi che vanno a lavorare fuori città, in comuni situati nella vecchia provincia. Non occorre essere degli specialisti in geografia economica per capire che oggi, rebus sic stantibus, manca una gestione metropolitana dei mezzi pubblici; mi riferisco a un servizio che possa consentire di spostarsi su linee di trasporto pensate non solo per servire il flusso periferia-centro e centro-periferia, ma anche gli spostamenti tra i comuni metropolitani. Pesa soprattutto l’assenza di un servizio di trasporto pubblico regolato da una tariffa valida per il territorio metropolitano.

Oggi la distanza tra Milano e i cittadini dell’area metropolitana è lampante per quanto concerne un altro tema cruciale: l’utilizzo dell’auto privata. In questi anni il Comune di Milano è riuscito a disincentivare l’utilizzo dell’automobile, un mezzo di trasporto utilizzato dal 54% dei milanesi. Nei prossimi anni l’obiettivo sarà di ridurre ulteriormente tale fenomeno portandolo alla soglia del 44%, al livello delle maggiori città europee. Ebbene, se ci volgiamo ai comuni dell’area metropolitana, ci accorgiamo che la percentuale dei cittadini che si servono dell’automobile supera invece l’80%. Un divario enorme, che si spiega con la già citata assenza di un servizio efficiente di trasporti pubblici su scala metropolitana: uno dei campi cruciali su cui si giocherà l’avvenire della nuova istituzione.

La cucina milanese nel Medioevo: tempo del cibo e tempo dei pasti

Limitare la fame nel mondo è obiettivo centrale di Expo, ben sintetizzato dallo slogan “nutrire il pianeta, energia per la vita”.

Nella storia europea la fame è sempre stata un terribile spettro da cui fuggire ricorrendo ad ogni mezzo. Uno sguardo al Medioevo milanese ci consente alcune riflessioni significative in tema di cucina e alimentazione.

fame carestieNel Medioevo il mangiare era influenzato sostanzialmente da due tempi. Il primo è il tempo della natura. Alcuni cibi erano ricavati da materie prime che si potevano ottenere solo in alcuni mesi dell’anno: sappiamo bene che ogni stagione ha i suoi frutti tipici. Eppure, a ben guardare, c’inganneremmo se pensassimo che gli uomini medievali vivessero unicamente in base ai ritmi della natura, come certa vulgata vorrebbe farci credere. Dobbiamo considerare un secondo tempo, il tempo artificiale dell’uomo garantito dalle tecniche di conservazione dei cibi. Certo, anche gli antichi avevano imparato qualcosa al riguardo. Aristotele raccomandava ad esempio di coprire le mele con l’argilla per farle durare più a lungo. Tuttavia, mai come nel Medioevo l’uomo europeo riuscì ad ingegnarsi per sconfiggere il duro ritmo delle stagioni che costringeva molte famiglie a morire di fame. “O tu che reggi ogni cosa, perché succede che le stagioni non siano sempre uguali a se stesse, distinte solo da quattro numeri?” implora Merlino in un testo di Goffredo di Monmouth risalente al XII secolo. Segno che davvero il mutare delle stagioni costituiva una grande incognita per l’uomo medievale, esposto in tutta la sua fragilità all’incertezza del futuro.

L’uomo riuscì a vincere questa battaglia grazie alla capacità di prevedere il mutamento del tempo. Di qui la necessità di conservare i cibi perché la carestia era dietro l’angolo e, come recitava un antico proverbio milanese: Calastria preveduda, l’è mezza preveduda: carestia prevista, è per metà evitata.

Se riprendiamo due termini citati in un documento toscano del IX secolo dopo Cristo, possiamo quindi concludere che il Medioevo era articolato in un tempus de glande (tempo di ghiande) – in cui si raccoglievano i frutti della vegetazione arborea – e un tempus de laride (tempo di lardo) che non era collegato solo all’allevamento del maiale e alla consumazione della carne, ma anche al tempo in cui si metteva da parte tutto quel che si poteva conservare.

Quali furono le tecniche di conservazione più usate? Anzitutto il ricorso al sale, che non solo rendeva più gustosi i cibi ma, prosciugandoli, li rendeva secchi, più durevoli nel tempo. Ad essere messi sotto sale furono cibi quali la carne, il pesce, le verdure. Era poi diffusa l’essiccazione del pesce al sole o mediante il fumo. Altre tecniche si affermarono ricorrendo all’olio, all’aceto, al miele e allo zucchero. Quest’ultimo fece tuttavia la sua comparsa alla fine del Medioevo e solo nelle mense signorili europee.  Per restare ancora alla conservazione degli alimenti, un’altra tecnica era la fermentazione, che rese possibile sfruttare a vantaggio dell’uomo un processo tutto naturale come la putrefazione. La fermentazione, assieme alla salatura, venne impiegata in prodotti quali salami, formaggi, prosciutti.  Un caso emblematico era costituito a tal proposito da un genere di verdure, i crauti, tuttora diffusi nell’Europa germanica: erano ottenuti mediante un processo di fermentazione acida.

cucinaUn altro strumento per “addomesticare” il tempo consisteva nel diversificare la coltivazione delle piante. Carlo Magno, nel capitolare De villis, invitava a piantare nelle aziende regie “meli di diverso genere, peri di diverso genere, prugni di diverso genere…” affinché si potesse procedere a una raccolta differenziata nel tempo. Dei sette tipi di mele citate nel documento, sei erano definiti “serbevoli”, conservabili, mentre le “primitiva” potevano essere mangiate subito.

Alcuni frutti ricchi di calorie si mangiavano tutto l’anno e, nel duro inverno, servivano addirittura da ripieno. Era il caso delle noci, che a Milano erano mangiate alla fine di ogni pasto. Bonvesin de la Riva ci fornisce altre preziose informazioni al riguardo nel suo De Magnalibus urbis Mediolani, vero e proprio spot pubblicitario della città ambrosiana nel XIII secolo. Sappiamo così che i milanesi amavano triturare le noci, impastarle con uova, cacio e pepe “unde carnes inde iemali tempore impleantur” (tradotto: affinché potessero costituire un ripieno per le carni nella stagione invernale. Libro IV, paragrafo III).

Nel caso dei cereali – base dell’alimentazione contadina – la tecnica era sempre quella di differenziare le colture, un po’ come facciamo oggi quando investiamo in banca diversificando il nostro portafoglio per limitare il rischio e spalmare nel tempo i frutti dei capitali investiti. I contadini coltivavano segale, miglio, avena, spelta, orzo, frumento perché sapevano che i tempi di crescita propri di ciascuna pianta costituivano un altro mezzo efficace per far fronte all’incertezza del domani.

carniSe dal tempo dei cibi passiamo al tempo della cucina, ci accorgiamo che quest’ultimo era assai più lungo rispetto al nostro perché comprendeva fasi di lavoro oggi inesistenti: ad esempio la pestatura dei cereali, il taglio e la macellazione della carne. La lunghezza e la complessità nella preparazione dei cibi non era tipica soltanto delle cucine signorili. Era una costante della società contadina. Il bollito fu per secoli un tipo di alimentazione tipico dei ceti popolari, mentre l’arrosto – ottenuto con l’utilizzo di griglie o spiedi – era prerogativa delle mense signorili. In quest’ultimo caso ad essere cotte erano le carni giovani degli animali uccisi nelle battute di caccia: attività, quest’ultima, riservata alla nobiltà guerriera del Medioevo (i bellatores), prerogativa di questo ceto ancora nell’antico regime. La carne giovane costituiva la base dell’alimentazione del clero regolare in ricche abbazie come ad esempio, per restare a Milano, quella di Sant’Ambrogio. Da un documento del 1148 sappiamo ad esempio che, nel corso delle innumerevoli liti insorte tra i canonici e i monaci di Sant’Ambrogio, il prevosto pretese dall’abate un pranzo in occasione della festa di San Satiro (17 settembre) composto da svariati tipi di carne: polli freddi e carni di porco fredde, poi polli ripieni e carni di porco pepate, infine polli arrosto, lombetti e porcellini ripieni.

minestraGli animali vecchi, consunti dal tempo e dalla fatica del lavoro agreste, erano destinati invece alle mense popolari: le carni erano bollite in calderoni rimestati dalle donne; spesso venivano messe in pezzi nella minestra, La menestra l’è la biava de l’omm: la minestra è la biada dell’uomo, recitava un altro proverbio milanese. Segno che tale alimento era la base dell’alimentazione contadina.

Le cotture lunghe furono caratteristiche della cucina medievale. La pasta era cotta fin quasi a spappolarsi, un’usanza che si conserva tuttora nelle cucine dei paesi nordici ove è possibile rintracciare molti segni degli antichi usi culinari. La pasta al dente è un’invenzione tutta moderna e italiana.

Veniamo ora al tempo dei pasti. Quante volte si mangiava e quando? Anche qui gli usi erano diversi. Il pranzo cadeva in tarda mattinata, mentre la cena al tramonto del sole: tempi che erano in linea con i ritmi della civiltà contadina. E’ possibile che i nostri antenati mangiassero qualcosa di mattina ma è poco probabile che ricorressero a cibi dolci come pane e marmellata. Una chiave di lettura può esserci offerta dalla cucina germanica, che mantiene molte usanze medievali. La mattina si ricorreva probabilmente a piccole porzioni di cibi presenti nei pasti ordinari: salumi, formaggi, prosciutti, carni.

La durata dei pasti era senza dubbio un segno di status. I pranzi signorili potevano durare ore se non addirittura giorni interi. Se vuoi saperne di più sulla cucina medievale a Milano, clicca qui.