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Riapre il Lirico sulle orme di un illustre passato

Il Comune di Milano ha affidato la gestione del Teatro Lirico alla società olandese Stage enterteinment Srl per un periodo di 12 anni. Il teatro, rimasto chiuso dal 1999, dovrebbe riaprire nei primi mesi del 2018. La società olandese ha messo a punto un nutrito piano di iniziative. La programmazione degli spettacoli sarà affidata a diversi direttori a seconda dei tipi di iniziative messe in campo: Renato Pozzetto si occuperà della parte relativa alla comicità e al cabaret, mentre J-Ax curerà gli eventi di musica leggera per giovani. Gli eventi di musica classica e di musica lirica saranno affidati a Roberto Favaro, vicedirettore di Brera. I concerti Jazz  ad Enrico Intra, mentre Chris Baldock si occuperà degli spettacoli legati alla danza.

Il Teatro Lirico risorgerà quindi a nuova vita dopo quasi vent’anni di chiusura al pubblico. Ci auguriamo che esso saprà restituire al quartiere di via Larga quell’anima culturale che si era venuta definendo nel corso dei secoli in modo del tutto originale.

Difatti, se ci soffermassimo su questo tema inforcando le lenti della storia, rimarremmo colpiti nel constatare che l’isolato compreso tra via Larga e via Rastrelli ebbe un ruolo di assoluto rilievo nella società milanese tra antico regime ed età moderna. Le istituzioni culturali e ricreative che vi operarono nel corso dei secoli diedero al quartiere tre anime: una prima di tipo educativo-formativo, una seconda di tipo melodrammatico operistico di livello quasi paragonabile al Teatro alla Scala, una terza infine legata a un sfera più circoscritta nei contenuti, spesso bando di prova per realizzazioni sceniche destinate in alcuni casi a far discutere, in altri ad incidere in profondità nel panorama culturale italiano.

Qui però occorre chiarirsi subito perché l’edificio che vediamo oggi non corrisponde a quello antico del Teatro della Cannobiana. A ben vedere, neppure via Rastrelli, che costeggia un lato dell’edificio, corrisponde a quella di un tempo: questa strada, che oggi collega via Larga con Piazza Diaz, aveva inizio anticamente da un piccolo incrocio con via Cappellari, a pochi metri dall’antica piazza del Duomo medievale che era assai più piccola dell’attuale. Da quell’incrocio era possibile avere una veduta assai suggestiva della cattedrale. Via Rastrelli costeggiava quindi il Palazzo Ducale – divenuto in epoca napoleonica il Palazzo Reale – e terminava all’incrocio tra le attuali vie Pecorari a sinistra e Paolo da Cannobio a destra, che in antico regime corrispondevano all’incirca alla contrada delle Ore e alla contrada del Pesce. Fu in una casa situata in fondo a questa via, in contrada delle Ore, che furono trasferite nella seconda metà del Cinquecento le Scuole Cannobiane.

Proposta seicentesca di riassetto delle Scuole Cannobiane

L’umanista Paolo da Cannobio (1513-1556) con testamento del 1553 (e codicillo del 1554) aveva assegnato all’Ospedale Maggiore un cospicuo lascito per la costruzione di due scuole di etica e di logica. Aperte nel 1557 in piazza Sant’Ambrogio, furono traslocate nel 1564 in via delle Ore. Quindici anni dopo, l’Ospedale Maggiore decise di installare in quello spazio anche le scuole – fondate da Tommaso Piatti nel 1503 – che si trovavano in via Soncino Merati (via oggi scomparsa, copriva all’incirca il primo tratto dell’attuale corso Matteotti, collegando via San Pietro all’Orto con via San Paolo nel sestiere di Porta Orientale). La gestione in capo alla Cà Granda durò fino al 1671, quando le spese dell’istituto, superando le rendite del lascito Cannobio, impedirono ai membri dell’amministrazione ospedaliera di proseguire nell’attività educativa. La gestione delle Scuole Cannobiane passò al Collegio dei Nobili dottori che finanziò la ricostruzione dell’edificio, ampliato fino ad incorporare una proprietà confinante con via Larga. Alle scuole si accedeva da un piccolo passaggio all’inizio di via delle Ore, passaggio che permetteva agli scolari di accedere alla sala principale, sormontata da una cupola a forma ottagonale-tonda. Le scuole continuarono a svolgere le loro funzioni fino alla fine degli anni Sessanta del Settecento quando il governo asburgico, messo a punto il piano di studi del 1769-70, decise di incorporarle nelle Scuole Palatine di Piazza dei Mercanti. Poco dopo, in seguito alla soppressione dei Gesuiti nel 1773, le scuole secolari milanesi furono concentrate nel Palazzo di Brera che, per volontà dell’imperatrice Maria Teresa, divenne il nuovo “campus” milanese gestito dallo Stato, con finanziamenti adeguati all’alta formazione culturale e scientifica. L’edificio delle Scuole Cannobiane, adibito a magazzino, era destinato a scomparire nel periodo napoleonico, quando gli isolati compresi tra quella parte di via delle Ore (oggi via Pecorari) e via Larga , furono demoliti per costruire l’ala meridionale del Palazzo Reale secondo i disegni dell’architetto Tazzini.

Veniamo alla seconda vita del quartiere. Agli ultimi anni del riformismo teresiano risale la fondazione del Teatro della Cannobiana e della via omonima che fu costruita in prosecuzione di via Rastrelli verso via Larga. Il teatro, costruito negli stessi anni del Teatro alla Scala, era più piccolo rispetto a quest’ultimo. L’edificio presentava tuttavia dimensioni notevoli nel panorama dei teatri cittadini. Nelle intenzioni delle autorità asburgiche, la Cannobiana avrebbe dovuto rivestire un ruolo importante nella vita culturale cittadina. Non a caso esso fu conosciuto dai milanesi come “picciol Teatro”, mentre il “Teatro grande” era ovviamente quello della Scala. I due teatri furono pensati entrambi quali poli d’eccellenza della vita culturale e artistica. Giuseppe Piermarini fu scelto per dirigere la costruzione di entrambi gli edifici. Inoltre, non diversamente da quanto era avvenuto nel giorno di apertura del Teatro alla Scala nell’agosto 1778, anche per l’inaugurazione del Teatro della Cannobiana, avvenuta nel luglio 1779, fu scelta un’opera di Antonio Salieri, La Fiera di Venezia su libretto di Boccherini. Quanto a dimensioni, se la Scala poteva contenere 3600 spettatori, la Cannobiana ne ospitava 2300. La platea era composta da 14 file di sedie (in tutto 450).

Il Teatro alla Cannobiana (o Canobbiana) da “I Teatri di Milano”, particolare da L. Cherbuin dis. ed inc., prima metà XIX secolo

Nei primi anni di attività, la Cannobiana rivestì quindi un’importanza quasi pari a quella del Teatro alla Scala nell’allestimento degli spettacoli. D’altra parte, quanto al pubblico, essa fu frequentata non solo dalla ricca borghesia ma anche dalle più importanti famiglie del patriziato milanese. Avveniva spesso che i nobili disponessero di due palchi: uno al Grande Teatro, l’altro al Picciol Teatro. Del tutto indicativo, in proposito, il caso dei Visconti Ajmi che ho preso in esame nel mio libro Via Filodrammatici prima di Mediobanca (Milano, Scalpendi Editore 2015): questo casato risultava proprietario a fine ‘700 del palchetto N.17 in terza fila alla sinistra nel Teatro alla Scala e del palchetto n.1 in terza fila alla destra nel Teatro della Cannobiana. Nel periodo rivoluzionario, il “Picciol Teatro” divenne un punto di ritrovo per i patrioti lombardi. Vi si tennero tragedie di Alfieri e di Salfi che inneggiavano alla virtù repubblicana. Nel 1798 i patrioti cisalpini lo scelsero per rogare solennemente (presente il notaio Zamperini) l’atto di sovranità del popolo, verosimilmente in opposizione alle ingerenze francesi che avvenivano in quei mesi negli affari di politica interna della Repubblica Cisalpina. Sotto il Regno d’Italia napoleonico e il Regno Lombardo Veneto austriaco, la Cannobiana ritornò al suo antico splendore. Varrà la pena ricordare a tal proposito che Gaetano Donizetti scrisse le scene dell’Elisir d’amore affinché fossero tenute in questo teatro, il che avvenne nella “prima” del 12 maggio 1832. Il calendario era diviso in due stagioni: nel carnevale venivano allestite le commedie, mentre in estate le opere in musica e i balli.

Come avveniva alla Scala, anche qui gli spettacoli non erano certo l’unica attività del teatro: il gioco d’azzardo nei ridotti, la preparazione di piatti e pietanze che potessero soddisfare il palato degli avventori, finivano con il distrarre il pubblico dalla rappresentazione dell’opera. Celebri le lamentele di Berlioz in occasione di una serata trascorsa alla Cannobiana, ove i pasti rumorosi a base di costolette e minestroni lo avevano distratto per il rumore delle stoviglie.

Restaurato nel 1844, il “picciol Teatro” declinò in modo irreversibile nella seconda metà dell’Ottocento, quando passò in gestione dallo Stato al Comune di Milano. La progressiva carenza di fondi segnò la fine di quella stagione memorabile che era iniziata assieme al Teatro alla Scala. L’introduzione dell’illuminazione elettrica non aiutò a risollevare una situazione che restava precaria; parve al contrario portare sfortuna: il prefetto Basile, richiamandosi all’incendio del Ring-Theater di Vienna avvenuto l’8 dicembre 1881 che aveva causato numerosi morti, ebbe buon gioco nel decretare la chiusura della Cannobiana alcuni anni dopo. Nel 1889, a pochi mesi dalla cessazione dell’attività, il poeta Ferdinando Fontana scrisse questi versi malinconici in dialetto milanese:

In via Larga sul canton

Che va dent in del volton

Gh’è ona veggia carampana

Che se ciamma Cannobiana,

Ma che l’è de quj veggett

Fa d’on stamp tanto perfett

Che conserva l’allegria

Anca a vess in agonia…

 

Interno del Teatro Lirico dopo i lavori di ristrutturazione compiuti da Antonio Cassi Ramelli nel 1938.

La seconda vita dell’isolato tra via Larga e via Rastrelli si era chiusa definitivamente ma un’altra se ne aprì in breve tempo. L’editore Sonzogno, le cui pubblicazioni erano in concorrenza con quelle della casa editrice Ricordi, acquistò dal Comune l’edificio ormai in rovina: la sua idea era di formare un nuovo polo teatrale che potesse favorire la sua attività di editore in campo musicale come i Ricordi avevano saputo fare rispondendo abilmente alle richieste di compositori, maestri e impresari del Teatro alla Scala. L’immobile fu ristrutturato in via radicale su disegno dell’architetto Sfondrini. Il 24 settembre 1894 l’edificio fu aperto al pubblico come nuovo Teatro Lirico Internazionale.

Benito Mussolini al Teatro Lirico il 16 dicembre 1944

Diversamente dal Teatro alla Scala, che rimase il tempio dell’opera, il Lirico non raggiunse i livelli di eccellenza cui mirava Sonzogno. Esso si segnalò tuttavia per l’originalità degli spettacoli e assurse ben presto a una certa fama nel panorama della vita artistica milanese. Tra le prime più importanti, si ricordano la Fedora di Umberto Giordano tenuta nel 1898 che lanciò la carriera del celebre tenore Enrico Caruso, nonché La figlia di Iorio di Gabriele d’Annunzio (1904). Un’altra serata memorabile fu quella che si svolse al Lirico il 15 febbraio 1910, quando i Futuristi presentarono al pubblico il loro celebre Manifesto destinato a suscitare scalpore nella società del tempo. L’interno fu devastato da due incendi: un primo nel 1938, un secondo nel 1943. Nonostante tali incidenti, il teatro, ricostruito e ampliato dall’architetto Cassi Ramelli (1905-1980), seppe svolgere una certa attività anche sotto il regime fascista e perfino in tempo di guerra: il 16 dicembre 1944 Mussolini scelse il Lirico per tenere il suo ultimo discorso ai milanesi.

Veniamo infine agli anni del Dopoguerra e del boom economico, durante i quali il Lirico svolse un ruolo importante quale centro culturale milanese, anche se non tornò certamente ai fasti dei primi anni del secolo. Wanda Osiris vi tenne i suoi spettacoli eccentrici e piumati. Verso la metà degli anni Sessanta il Lirico presentava al pubblico un calendario di spettacoli del tutto avvicinabili a quelli del Piccolo Teatro di Giorgio Strehler. Negli anni di piombo, in una Milano immersa nel dramma del terrorismo e della contestazione, suscitò grande impressione la presentazione al Lirico in prima mondiale, il 4 aprile 1975, dello spettacolo Al gran sole carico d’amore, opera di Luigi Nono con la regia di Jurij Ljubimov: vi furono rappresentate le grandi rivoluzioni operaie – dalla Comune parigina alle rivolte nell’Italia del 1943 – alle quali si aggiungeva un richiamo alla guerra in Vietnam.

Gli uomini prima delle pietre: la lezione di Gnecchi Ruscone

Di recente ho avuto l’onore di incontrare Francesco Gnecchi Ruscone nella sua casa milanese vicino all’Università degli Studi. Abbiamo preso un aperitivo a base di gin e tonic, un rito conviviale che fa parte della sua ospitalità. Dall’alto dei suoi novant’anni Gnecchi mostra ancora la classe ineguagliata dell’architetto e dell’antico partigiano. Una vita, la sua, spesa al servizio dei valori della libertà e della democrazia. Chiamato alle armi dal governo nazifascista della Repubblica di Salò, Gnecchi mi racconta che disertò arruolandosi tra i partigiani, per i quali svolse attività di spionaggio. Il 25 aprile entrò a Milano. “Non feci in tempo a vedere il cadavere di Mussolini appeso a piazzale Loreto. Lo vidi quando era sul marciapiede”, mi dice impassibile. Non è però sullo Gnecchi combattente partigiano che intendo soffermarmi in questa sede. Desidero invece dedicare alcune riflessioni sulla feconda professione di architetto che lo ha impegnato per quasi mezzo secolo.

FullSizeRender (3)Il suo libro Storie di architettura, in cui Gnecchi ripercorre gli anni della sua professione ricordando esperienze e lezioni di vita apprese da grandi personalità del Novecento, è un bel volume che anche un lettore non specialista, estraneo alla storia dell’architettura, può leggere con piacere.

Nel corso del nostro aperitivo, gli chiedo se le case da lui progettate siano riconducibili a uno stile architettonico. Mi risponde di no. Il suo stile è assolutamente originale. Mi dice: “Ho sempre progettato un edificio perché servisse in primo luogo alle esigenze dei miei committenti. Gli uomini sono più importanti delle pietre”.

Allievo di Ernesto Rogers, nel 1949, poco dopo la laurea, Gnecchi fu incaricato da Franco Albini e Lodovico Belgiojoso di collaborare all’allestimento del Congresso Internazionale di Architettura Moderna nella città di Bergamo. Un compito che seppe assolvere degnamente e che gli offrì la straordinaria opportunità di conoscere alcuni tra i più importanti architetti del Novecento: ricordo qui Le Corbusier (1887-1965) e Wells Coats (1895-1958). Con quest’ultimo, strinse un vero e proprio rapporto di amicizia che influenzò notevolmente il suo modo di lavorare. Scrive Gnecchi a proposito delle lezioni di vita apprese alla scuola di Wells:

Da lui ho imparato molto, non tanto sull’architettura o sulla navigazione a vela quanto sullo spirito e sul modo di progettare: sempre guardando in avanti senza pregiudizi, senza schemi precostituiti, sempre pronti a cestinare senza rimpianti un’ipotesi che non ha retto alla prova sul campo; certo più una lezione di vita che di scienza applicata, ma una lezione che consiglio a tutti.

[FRANCESCO GNECCHI RUSCONE, Storie di architettura, Milano, Brioschi 2015, pag.50.]

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Francesco Gnecchi Ruscone e Giogiò Pericoli in “missione lavorativa” a Matera

Negli anni Cinquanta Gnecchi aprì uno studio di architettura con Giovanna Pericoli, detta “Giogiò” dedicandosi ai primi lavori come libero professionista. Risale a quel periodo la sistemazione e l’arredamento di un’agenzia della Banca Commerciale Italiana in via Farini e la sala riunioni del Senato Accademico nell’Università Cattolica del Sacro Cuore. Immagino che i docenti dell’ateneo di Largo Gemelli abbiano ben presenti le “poltroncine in noce massiccio e panno rosso, pesanti ma solide”, così le definisce Gnecchi Ruscone nel suo libro.

Nel 1956 l’architetto milanese aprì un suo studio in via Passione 4, ove esercitò la professione di architetto fino al 1999. In quell’ambiente, coadiuvato da una squadra di fedeli dipendenti e colleghi, lavorò con passione elaborando progetti la cui realizzazione ha segnato la storia dell’architettura milanese ed europea.

Tra i progetti che mi preme ricordare per la loro attualità è ad esempio quello, risalente al 1960, riguardante il quartiere storico delle Cinque Vie in centro città: al restauro urbanistico avrebbe dovuto accompagnarsi l’introduzione dell’area pedonale nel quartiere per togliere alla zona il traffico automobilistico.

Il progetto, al quale Gnecchi lavorò con alcuni colleghi del Politecnico, fu esposto alla Triennale: l’idea in realtà era di bloccare la “Racchetta”, uno stradone – proposto da architetti tanto spregiudicati quanto ostili alla tutela dell’antico patrimonio urbanistico di Milano – che avrebbe collegato corso Venezia con corso Magenta sventrando il centro storico com’era già avvenuto con la realizzazione di corso Europa e via Albricci fino a piazza Missori. Fortunatamente lo stradone non fu mai realizzato. In fondo, a quel pugno di architetti coraggiosi (di cui Gnecchi fu magna pars) ostili alla Racchetta, dobbiamo la conservazione di quartieri storici quali piazza Sant’Alessandro, via Zebedia, via San Maurilio o via Borromei. Il quartiere delle Cinque Vie attende però un restauro complessivo ed è tuttora attraversato da un eccessivo traffico automobilistico. Forse quel progetto del 1960 può essere ancora utile alla prossima giunta comunale per un restauro del quartiere 5Vie tornato in questi anni ad essere luogo centrale degli eventi culturali nel campo della moda e del design.

Tra gli edifici milanesi costruiti da Francesco Gnecchi Ruscone desidero ricordare infine il bel palazzo in viale Elvezia, all’angolo tra l’Arena Civica e via Canonica. I lavori, condotti tra il 1958-72 assieme all’architetto Eugenio Gentili Tedeschi, hanno portato all’edificazione di un edificio alto otto piani, che mostra tuttora la sua eleganza allo sguardo degli appassionati di architettura.

La Mela conquista Milano e Apollo se ne va…

La notizia è rimbalzata sui siti d’informazione come una pallina impazzita. Apple ha acquistato i sotterranei del cinema Apollo in piazza Liberty. Aprirà un grande Store sul modello di quello newyorkese e lo farà a due passi dal Duomo. Gli ingressi saranno due. Uno dalla piazza, ove i visitatori entreranno in un parallelepipedo di cristallo al cui interno ampie scalinate porteranno agli spazi inferiori. L’altro accesso sarà da Galleria De Cristoforis. Il nome non tragga in inganno. Non si tratta affatto della memorabile galleria ottocentesca, demolita negli anni Trenta del secolo scorso. E’ un piccolo passaggio coperto che collega piazza Liberty con corso Vittorio Emanuele. Un passaggio che tutti gli amanti del cinema Apollo conoscono fin troppo bene.

Tra un anno sorgerà il grande Store della Apple; il cinema chiuderà nei prossimi mesi. Possiamo dire che un altro pezzettino di storia milanese se ne va. Il cinema aprì alla fine degli anni Cinquanta del Novecento, nei sotterranei della piazza. Disponeva di 1230 posti, il biglietto costava 800 lire. Bei tempi dell’altro mondo – direte voi – quando andare al cinema era consentito a (quasi) tutti.

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L’ingresso del cinema Apollo in Galleria De Cristoforis 2

Anche a me è capitato di fermarmi all’Apollo per vedere qualche film. Vi confesso però che non riesco a ricordare nulla di particolarmente attraente in quello spazio sotterraneo. Sarà perché l’ultima volta che ci andai – due o tre anni fa  – vidi un mediocre film storico. Ricordo che era ambientato ai tempi della Repubblica Democratica Tedesca: il regista tentò, con scarso successo, di ispirarsi al capolavoro di Florian Henckel von Donnersmarck, Le Vite degli Altri (2007).

Ma torniamo alla zona di piazza Liberty. Alla notizia dell’acquisto di Apple ci sono stati alcuni milanesi che hanno espresso preoccupazione per la chiusura di uno spazio storico della città. Non condivido i lamenti di chi rimpiange i tempi andati. In fondo, nella storia di Milano il cinema ha contato poco. Bene ha fatto Apple ad acquistarne gli spazi.

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Addobbi floreali in Corso Vittorio Emanuele in occasione di una festa nel maggio 1889. In fondo, sulla destra vicino al Duomo, il palazzo Tarsis

Fino a pochi anni fa questa zona presentava due anime. Da una parte alcuni edifici storici assicuravano e assicurano tuttora un certo decoro pubblico. Palazzo Tarsis all’incrocio di via San Paolo con corso Vittorio Emanuele, costruito dall’architetto Luigi Clerichetti tra il 1836 e il 1838, costituisce una delle ultime manifestazioni del neoclassico milanese. Se passate per il corso all’altezza di via San Paolo, alzate la testa: vedrete dieci statue deliziose appoggiate all’attico del palazzo. L’altro immobile che da secoli ha rivestito un ruolo importante nel contrassegnare l’identità della via è palazzo Spinola al civico 10: costruito tra il 1580 e il 1597 dalla famiglia genovese degli Spinola, fu acquistato nel 1818 dalla Società del Giardino che vi ha tuttora sede. Questo antico sodalizio fu costituito alla fine del Settecento dalla borghesia milanese. Se vuoi saperne di più, clicca qui.

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Piazza Liberty in una foto degli anni Cinquanta del Novecento. Nell’edificio sulla sinistra al civico 8 ha sede il consolato austriaco.

L’altra anima dell’isolato, che a mio giudizio non meritava particolare attenzione fino a poco tempo fa, è quella di piazza Liberty ove sorgerà il Mega Store della Apple. Vi si affacciano alcuni edifici risalenti agli anni Cinquanta del secolo scorso, le cui forme costituiscono un vago ricordo dello stile floreale. E’ il caso dello stabile al civico 8, attualmente sede del consolato austriaco, costruito dagli architetti Giovanni e Lorenzo Muzio tra il 1956 e il 1963. Al pianterreno, all’angolo con via San Paolo, vi si aprono le eleganti vetrine della Nespresso. Sull’altro lato si trovano alcuni negozi di abbigliamento sotto una serie di portici che continuano in corso Vittorio Emanuele.

La zona aveva per converso un aspetto radicalmente diverso ai primi anni del Novecento, quando gli architetti Angelo Cattaneo e Angelo Santamaria costruirono di fronte a palazzo Tarsis un edificio in stile Art Nouveau che ospitava un caffè, un teatro e un albergo denominati Trianon. Si trattava di un luogo particolarmente amato dai milanesi, che frequentavano assidui il teatro e il caffé. Tra i clienti più famosi ricordiamo Filippo Tommaso Marinetti e un giovane Benito Mussolini. I bombardamenti della seconda guerra mondiale non risparmiarono lo stabile. Nacque così piazza Liberty in ricordo di quel che era stato il Trianon. La nuova piazza non fu in grado tuttavia di richiamare l’attenzione del pubblico come un tempo aveva saputo fare il celebre caffè.

Negli ultimi tempi il Comune ha saputo risistemare la zona innalzando il decoro urbano: alcuni dehors in vetro conferiscono una certa veste di eleganza all’ambiente circostante. Nei prossimi mesi Apple costruirà la sua porta di cristallo conferendo a piazza Liberty una veste certamente più esclusiva ed attraente rispetto a quella odierna.

Perché l’Europa non sa rinnovarsi

A Milano sono sorti i maggiori movimenti politici e culturali, alcuni destinati a rivoluzionare i costumi e gli stili di vita degli italiani, altri ad incidere in profondità nelle strutture politiche e amministrative dello Stato. Gli uni e gli altri tesi a cambiare la società per fondarne una diversa, nel bene e nel male. Milano vide la nascita del socialismo moderato di Filippo Turati, riunito nella Lega Socialista Milanese fondata nel 1889; Milano fu la culla del fascismo di Benito Mussolini, i cui fasci di combattimento vennero fondati in piazza San Sepolcro nel 1919. Ho citato due esempi tra i tanti per mostrare la vocazione riformista e rivoluzionaria di Milano.

Se allarghiamo la visuale alla società del Vecchio Continente, ci accorgiamo che la rivoluzione è stata una costante della storia europea. Molti però si pongono questa domanda: nonostante il progresso tecnologico ci abbia messo a disposizione strumenti che vent’anni fa erano impensabili, perché la rivoluzione è divenuta oggi il grande assente della storia occidentale? Perché al giorno d’oggi sembra non esistere più in Europa la capacità di pensare e operare per un cambiamento delle istituzioni teso a migliorare la condizione di vita dei cittadini per un futuro migliore? Una domanda, se ci pensiamo bene, nient’affatto peregrina in tempi difficili come quelli attuali, caratterizzata da diseguaglianze e ingiustizie ancor più marcate rispetto al passato.

IMG_6249L’interessante libro dello storico Paolo Prodi, Il tramonto della rivoluzione (Il Mulino, Bologna 2015, 119p) cerca di capire le ragioni di questo dilemma. L’autore, riprendendo il pensiero dell’intellettuale tedesco Eugen Rosenstock Huessy, collega il concetto di rivoluzione alla storia dell’Occidente medievale e moderno. Fino ad alcuni anni fa l’Europa si è caratterizzata rispetto alle altre civiltà del pianeta per la presenza nella sua storia di rotture, di movimenti rivoluzionari che, mettendo in discussione le istituzioni esistenti, cercarono di combattere le ingiustizie. Il progresso occidentale – ci dice il professor Prodi – è stato in buona parte il risultato di queste rivoluzioni che ne hanno alterato di volta in volta la struttura sociale e istituzionale.

Questa Europa, segnata dal graduale mutamento delle sue istituzioni, ha un’origine ben precisa. La riforma gregoriana dell’XI secolo aprì agli europei il tortuoso sentiero della libertà politica; spezzò il monopolio del potere in capo all’imperatore o al papa segnando la graduale formazione di un equilibrio pluricentrico: da un lato i poteri secolari (imperatore, principi, città), che governarono i sudditi nella sfera dei rapporti civili in via sempre più autonoma dalla chiesa, dall’altro il potere ecclesiastico, ristretto progressivamente all’esercizio dei sacramenti e alla giurisdizione del foro interiore, della vita religiosa degli europei.

Da questa frattura originaria ebbe origine il pluralismo istituzionale che fece dell’Europa un territorio in continua evoluzione politica e religiosa. Il diritto di resistenza diffuso nell’Occcidente medievale e moderno, in base al quale i sudditi/cittadini avevano il diritto/dovere di ribellarsi ai governanti ove questi avessero violato le leggi e le tradizioni della comunità, sarebbe stato inconcepibile senza la “desacralizzazione” del potere politico, vale a dire la sua separazione dal potere religioso/sacrale.

Nel XVI secolo ci fu la seconda ondata di rivoluzioni, quella delle riforme protestanti che segnò l’avvento di una molteplicità di chiese territoriali, in relazione diversa con i poteri secolari: principi e repubbliche.

Nel corso del Settecento gli Stati europei, ormai distinti dalla persona del monarca, furono interessati dalla terza ondata di rivoluzioni che portò alla separazione dei poteri (legislativo, esecutivo e giudiziario) compiutamente teorizzata, sia pure in forme diverse, nelle carte rivoluzionarie americane e francesi.

Muovendo da un’ottica di lungo periodo, Prodi fa notare tuttavia che la libertà politica in Occidente può esser fatta risalire alla rivoluzione gregoriana: da lì si arrivò poi alla graduale separazione tra sfera del sacro e sfera del profano, tra giustizia di Dio e giustizia degli uomini, tra coscienza personale e diritto positivo, tra peccato e reato.

Questa capacità dell’Occidente di riformarsi continuamente per migliorare l’assetto politico non sarebbe spiegabile senza il contributo fondamentale delle tradizione ebraico-cristiana. Dai tempi di Agostino, dal IV secolo dopo Cristo, “rivoluzione” non indicò soltanto il moto di rotazione degli astri ma venne usato in riferimento al cammino dell’umanità verso la salvezza. Questo segnò il passaggio da una concezione statica, ciclica, immutabile della storia a una dinamica, progressiva, soggetta a mutamento.

Il termine “rivoluzione” in Europa divenne in un certo senso la secolarizzazione della “profezia” ebraico-cristiana, che concepisce la storia come un cammino di salvezza dell’umanità contro i mali del presente in vista di una redenzione che avverrà alla fine dei tempi. Riprendendo una felice espressione del giurista Carl Schmitt, potremmo dire che le rivoluzioni avvenute in Europa nel Sette, Otto e Novecento furono “principi teologici secolarizzati” che portarono al mutamento dei poteri pubblici contro quelle che erano ritenute ingiustizie cui porre fine.

Oggi il problema dell’Europa risiede nella scomparsa di questa sua anima rivoluzionaria, di questa capacità di cambiare la società, di progettare il futuro.

Scrive Prodi:

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Il professor Paolo Prodi

Il mito della rivoluzione è finito. Ma l’Europa, l’Occidente, sono nati e cresciuti come ‘rivoluzione permanente’, cioè come capacità nel corso dei secoli di progettare una società alternativa rispetto a quella presente: ora questa capacità di progettare un futuro diverso sembra esser venuta meno”.

Secondo l’autore questo è dovuto a una serie di cause. In Occidente il progressivo venir meno dei valori delle religioni della salvezza personale (ebraismo e cristianesimo) basate sul principio che l’individuo è un uomo che può salvarsi o dannarsi per le sue azioni terrene ed è quindi sottoposto a un giudizio personale; l’affermarsi di un ordine mondiale fondato unicamente sulla civiltà dei consumi imperniata su un’etica confuciana tesa a cristallizzare gli assetti di potere esistenti mediante una concezione ciclica, immutabile della storia, ove l’ordine politico coincide con l’ordine cosmico. Qui l’influsso della cultura cinese sull’Occidente è stato negli ultimi anni assai più profondo di quanto si possa immaginare.

Il risultato, secondo Prodi, è l’unione del potere politico e del potere economico in una nuova forma di dominio globalizzato, “senza fissa dimora, in Oriente come in Occidente, con sue capitali ma al di sopra dei confini: un nuovo monopolio del potere economico-politico che tende ad affermarsi ovunque, nella nuova configurazione dei mercati finanziari e del consumo”. Il palazzo (del potere) si fonde con il mercato (finanziario) e con il tempio (pagano) in un nuovo ordine in cui l’uomo, privato della possibilità di incidere nella politica degli Stati ormai soggetti alle logiche finanziarie del mercato globale, non ha più alcuna possibilità di agire sulla politica per difendere i suoi diritti civili e sociali.

La terza causa per Prodi si lega alla tecnologia che, sottratta al controllo delle Chiese e degli Stati, tende sempre meno ad elevare la persona e sempre più a costituire un fine in sé stessa, asservita agli interessi dei grandi gruppi finanziari che se ne servono per le applicazioni richieste dal mercato. I social network, costringendo i cittadini alla brevità e all’immediatezza delle forme di comunicazione, rendono più difficile l’elaborazione di quel pensiero argomentato e meditato che era stata propria della civiltà del libro. Difficile avere il tempo di elaborare progetti di riforma delle istituzioni pubbliche in una community dominata dagli spazi di Twitter e Snapchat.

Insomma il quadro dipinto da Prodi è a tinte fosche. Esso vede l’Europa in un declino da cui molto difficilmente potrà uscire. Se la classe politica e le classi dirigenti del Vecchio Continente sapranno recuperare lo spirito di “rivoluzione permanente” per difendere con nuove istituzioni le grandi conquiste della civiltà occidentale (dallo Stato di diritto allo Stato sociale, dai diritti fondamentali dei cittadini al federalismo, dalla separazione dei poteri alla laicità dei poteri pubblici), l’Europa potrà avere un futuro.

20 maggio 1930: apre il planetario di Porta Venezia

Chi arriva in corso Venezia da corso Buenos Aires, trova sulla destra i giardini pubblici. Costruiti negli anni Ottanta del Settecento dall’architetto Giuseppe Piermarini sui terreni dell’ex monastero di Santa Maria Addolorata  – chiamato monastero “delle Carcanine” dal nome del fondatore, Giovanni Pietro Carcano –  e della chiesa di San Dionigi, i giardini vennero ingranditi nel 1856 ad opera dell’ingegnere Giuseppe Balzaretto: questi procedette all’unione della proprietà Dugnani, facendo della vasta area un parco in stile inglese caratterizzato da cascate, dirupi, laghetti, grotte. A proposito della chiesa di San Dionigi, ove si trovava la pietra misteriosa di San Barnaba , clicca qui se vuoi saperne di più! 😉

Oggi i giardini pubblici sono uno dei principali parchi di Milano con una superficie di 177.000 metri quadrati: uno spazio considerevole in cui i milanesi possono trascorrere il tempo libero camminando tra gli alberi, i prati e gli ameni viottoli. E’ un luogo di relax e divertimento per molte famiglie. Nel weekend (e non solo…) il parco si popola di tanti amanti della corsa. Inoltre, durante la settimana, è frequentato nelle ore di punta dagli impiegati che lavorano nel quartiere (zona via Senato, via Marina, via Fatebenefratelli, via Manin, via Turati..): li trovi ai giardini mentre mangiano un panino in pausa pranzo.

Nel luogo ove era il chiostro delle Carcanine si trova il Museo civico di storia naturale. Oggi mi soffermerò però su un altro edificio situato all’interno del parco: il planetario. La scelta non è casuale perché il 20 maggio di ottantacinque anni fa, nel 1930, la palazzina veniva inaugurata alla presenza del Duce in persona.

Benito Mussolini inaugura il Planetario
Benito Mussolini inaugura il Planetario, 20 maggio 1930

Come fu resa possibile la costruzione del planetario? La presenza delle autorità fasciste non deve indurci a considerazioni semplicistiche. Gli uomini che resero possibile questo progetto furono eminenti personalità della classe dirigente milanese. Convissero con il fascismo come larga parte della popolazione italiana, costretta a rinunciare alle libertà politiche e civili pur di continuare a lavorare in patria.

Il finanziatore del planetario fu l’editore e libraio di origine svizzera Ulrico Hoepli (1847-1935). Superati gli ottant’anni, giunto a un’età in cui si è soliti tirare i remi in barca, l’editore si dedicò ad iniziative filantropiche che fossero utili al progresso della società. Con quest’opera volle rendere omaggio a quella che era divenuta la sua “patria di adozione”, la “generosa Milano” come definì la città ambrosiana in un intervento letto il giorno dell’inaugurazione.

Hoepli si dimostrò un infaticabile promotore della vita culturale cittadina. Amava Milano perché le doveva molto: qui tentò la sorte come emigrato, qui fece fortuna lavorando sodo come libraio ed editore, qui allargò i suoi orizzonti entrando in contatto con i maggiori uomini di cultura. Del tutto indicativo, a tal proposito, il rapporto di Hoepli con il noto astronomo Giovanni Virginio Schiaparelli (1835-1910), le cui opere furono pubblicate dalla sua casa editrice a partire dal 1929. Per inciso gli Schiaparelli, un’importante famiglia della borghesia italiana tra Otto e Novecento, diedero al Paese noti scienziati e uomini di cultura: dal professor Ernesto Schiaparelli (1856-1928), cugino di Giovanni Virginio, egittologo, studioso di formazione cattolico liberale, a Luigi Schiaparelli (1871-1934), insigne paleografo e medioevalista.

La costruzione del planetario si poneva quindi in un progetto teso non solo ad abbellire la città, ma anche a favorire presso la cittadinanza la diffusione delle scoperte scientifiche in campo astronomico. Milano non era certo nuova all’astronomia. L’Osservatorio astronomico di Brera, costruito dal matematico Ruggero Boscovich nel 1764, negli anni in cui la Lombardia si trovò sotto il governo dell’imperatrice Maria Teresa d’Austria, continuava ad essere un’istituzione prestigiosa. Nell’Italia del primo Novecento si faceva sentire tuttavia la mancanza di uno strumento d’avanguardia che fosse in grado di proiettare su un muro circolare le figure dei pianeti e delle stelle. Varrà la pena ricordare che nella Germania di Weimar, il paese più progredito nel campo delle scienze sperimentali, tra il 1926 e il 1928 furono costruiti planetari a Lipsia, Dusseldorf, Jena, Dresda, Hannover, Mannheim.

L’Italia non poteva essere da meno. I lavori per la costruzione del planetario milanese furono affidati a Piero Portaluppi (1888-1967). Questi scelse i giardini di Porta Venezia perché i cittadini, entrando nel parco, lasciando per un attimo gli affanni del lavoro, potessero riposare la mente nell’assistere alla proiezione dei pianeti.

Così Portaluppi spiegava le ragioni che lo avevano spinto a costruire il planetario all’interno dei giardini pubblici:

Planetario in costruzione
Il Planetario in costruzione

Non era troppo facile cosa trovare in Milano la località adatta per costruirvi un planetario, una località che fosse inclusa nell’organismo della metropoli e in pari tempo appartata; scoprire quasi una zona di raccoglimento ai margini stessi della vita cittadina che mettesse in grado chiunque, non importa di quale classe sociale, di dimenticare per poco la febbre che spinge ciascuno di noi alla rincorsa folle di un suo particolare tormento e di lanciare il proprio pensiero…in scorribande incommensurabili dietro il pellegrinare delle stelle.

E il problema sembra risolto con la scelta di quel tratto di pubblico giardino folto di alberi posto verso Corso Venezia tra papà Stoppani [si riferisce al vicino Museo di Storia Naturale] e l’erma [statua] di Mosé Bianchi [pittore]; nel centro stesso di Milano, a due passi da un’arteria ampia e rumorosa in mezzo alla folla, e pur solitaria sotto la volta verdeggiante degli ippocastani antichi, si eleva la volta ridotta dei cieli.

I lavori, iniziati nel luglio 1929, durarono quasi un anno. All’interno del planetario fu posizionato uno strumento ottico di marca rigorosamente germanica: Zeiss modello II.

Planetario 1929L’edificio disegnato da Portaluppi è tuttora visitabile. Si caratterizza per la classicità delle forme architettoniche. La facciata, costituita da un colonnato con timpano triangolare sul modello dei templi antichi, è preceduta da un’ampia scalinata. La cupola è inglobata in uno stabile a pianta ottagonale le cui brevi facciate, come spiegò lo stesso Portaluppi in un suo intervento pubblicato nel 1930, “sembrano sgattaiolare tra i vecchi tronchi [dei giardini]  sfiorandoli senza urtare uno solo”.

Le origini della Grande Milano

Milano è al centro di una vasta area metropolitana in cui vivono e si muovono milioni di persone. La Città metropolitana, costituita il primo gennaio 2015 in sostituzione dell’attuale provincia, può essere un’occasione per migliorare il governo del territorio: si tratta di un ente intermedio che, subentrando alla Provincia di Milano (soppressa), è formato dall’unione dei municipi dell’area urbana milanese allo scopo di fornire ai cittadini standard omogenei di servizi nel campo dei trasporti, dell’urbanistica e dell’ambiente.

In realtà, quando pensiamo a Milano, noi oggi non prestiamo la dovuta attenzione al fatto che la città è già un grande Comune in base alla sua evoluzione storica. Nel comune ambrosiano, la cui superficie è pari a 18.176 ettari, risiede una popolazione superiore al milione e trecentomila abitanti. Quando è nato il comune di Milano nella sua attuale estensione territoriale?

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Milano con l’annessione del comune dei Corpi Santi. Mappa del 1873

Come ho ricordato in un post di qualche settimana fa, la città si era ingrandita notevolmente in seguito all’annessione dei Corpi Santi avvenuta nel 1873. Nel 1921 il territorio era pari a 7.600 ettari. Gli abitanti erano più di 700.000.

Vediamo nel dettaglio l’estensione del Comune nel primo ventennio del Novecento: il territorio compreso entro i bastioni era pari a 832 ettari; i Corpi Santi occupavano una superficie di 6.643 ettari. L’ingrandimento di Milano proseguì nel 1918, quando venne decisa l’annessione di Turro, il cui territorio misurava un’estensione di 125 ettari.

Eppure, nonostante tali ingrandimenti, Milano misurava una superficie troppo angusta per una città considerata la capitale morale d’Italia, sede delle maggiori banche e industrie del paese. Secondo il censimento del 1921, la superficie del comune meneghino era tra le più ridotte in Italia: 76,29 kmq. Se si tolgono i casi di Genova, Firenze e Bari, le città con una popolazione superiore ai 100.000 abitanti presentavano un’estensione incomparabilmente maggiore: da Ferrara (405,25) a Taranto (411,80) per non parlare di Roma (2074,62).

Milano in una mappa del 1910.
Milano in una mappa del 1910.

L’ingrandimento della città era sentito come una priorità da molti esponenti della classe dirigente milanese, il che era comprensibile se si considera che molti servizi civici erano ancora localizzati al di fuori del territorio comunale: la ferrovia e gli impianti sportivi si trovavano a Lambrate, il collettore della fognatura nel Vigentino; a Trenno era stato costruito il celebre ippodromo; a Musocco il cimitero; a Baggio l’aerodromo; a Dergano l’ospedale dei contagiosi.

Nel 1923, quando il sindaco di Milano, il ginecologo Luigi Mangiagalli, si fece promotore del piano d’ingrandimento del comune, in Italia era in carica il primo governo Mussolini di cui facevano parte esponenti del partito fascista, del partito liberale e del partito popolare; un governo il cui operato sembrava porsi entro i confini della legalità. In realtà, come vedremo tra poco, il capo del governo mostrò già in questi anni una scarsa attenzione per le leggi dello Stato liberale.

Mussolini incoraggiò il progetto d’ingrandimento del comune di Milano. In una lettera del 7 luglio 1923 al sindaco Mangiagalli, il capo del governo si espresse in questi termini:

 

Benito Mussolini in una foto dei primi anni Venti.
Benito Mussolini in una foto del 1923.

Caro ed illustre Sindaco…ho la sensazione che Milano abbia il respiro della sua fatale espansione mozzato dalla fungaia di piccoli comunelli che sorgono alla sua periferia (Greco, Lambrate, Dergano, Gorla, Turro, Musocco, Affosi, Chiaravalle). Se Vostra Signoria crede di provocare un provvedimento di annessione che io stimo utile e forse necessario, io sono disposto a farlo approvare. Qualche intesa dovrebbe intervenire con i sindaci dei comuni. Io credo che la cosa piacerebbe anche a loro o prima o dopo. [Le sottolineature sono di Mussolini, NdR]

A ben vedere, il capo del governo mostrava di non avere buona memoria perché il comune di Turro era già stato annesso a Milano alcuni anni prima. Il governo sembrava favorevole a un ingrandimento della città mediante il coinvolgimento dei comuni secondo il dettato dell’articolo 118 della legge comunale e provinciale del 4 febbraio 1915 n.148: “Il governo del Re può decretare l’unione di più Comuni, qualunque sia la loro popolazione, quando i Consigli comunali ne facciano domanda e ne fissino di accordo le condizioni”.

Mussolini in realtà non esitò a violare la legge quando fosse risultata d’intralcio ai suoi interessi. Il governo seguì infatti una procedura che violò la normativa esistente. L’annessione dei Comuni limitrofi a Milano, avvenuta con decreti reali del 2 e del 30 settembre 1923, fu operata senza alcun coinvolgimento dei consigli comunali dei municipi interessati. L’ispiratore di tali atti autoritari fu lo stesso sindaco Mangiagalli, il quale caldeggiò l’unione immediata dei comuni suburbani “risparmiando le pratiche burocratiche”. Anziché attendere i pronunciamenti degli undici municipi limitrofi, si decise di convocare i sindaci in prefettura per informarli in merito al decreto di aggregazione deciso dal governo. Si stabilì inoltre che nel consiglio comunale di Milano, in carica dal 30 dicembre 1922, sarebbero entrati i rappresentanti dei municipi aggregati. Tuttavia, per rafforzare la componente fascista, Mussolini decretò lo scioglimento dei consigli comunali e nominò undici “amministratori o commissari straordinari” che sarebbero entrati a Palazzo Marino come rappresentanti dei municipi annessi alla città.

La grande Milano, nata per rispondere alle esigenze di una città in rapida espansione, venne realizzata quindi con metodi autoritari che erano la negazione delle autonomie locali. Questa è la storia del comune di Milano nella sua attuale estensione territoriale. In realtà, la città ingrandita fino a comprendere i confini attuali è storia risalente ancor più indietro nel tempo.

Beauharnais
Il viceré del regno italico Eugenio Beauharnais (1781-1824)

Negli anni del regno d’Italia napoleonico, con un decreto del viceré Eugenio Beauharnais risalente al 9 febbraio 1808, il territorio milanese – allora limitato ai bastioni spagnoli – venne accresciuto nel tentativo di farne una metropoli sul modello di Parigi. In quell’occasione vennero annessi alla grande Milano i Comuni che si trovavano a una distanza non superiore a 7 chilometri dalla torre della piazza dei Mercanti, il cuore di Milano ove convergevano gli assi viari dei sestieri milanesi. Ad essere compresi nella Grande Milano napoleonica furono i comuni di Affori, Bicocca, Boldinasco, Casanova, Chiaravalle, Corpi Santi, Crescenzago, Dergano, Garegnano, Gorla, Grancino, Lambrate, Lampugnano, Linate, Lorenteggio, Macconago, Morsenchio, Musocco, Niguarda, Nosedo, Poasco, Precentenaro, Precotto, Quarto Cagnino, Quintosole, Redecesio, Ronchetto, San Gregorio vecchio, Segnano, Sellanova, Trenno, Turro, Vajano, Vigentino e Villapizzone. La grande Milano napoleonica durò pochi anni. Gli austriaci, tornati in possesso della Lombardia nel maggio 1814, ricostituirono dopo pochi anni l’antico reticolo di piccoli comuni rinchiudendo Milano entro il perimetro secolare dei bastioni spagnoli.