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L’anomalia italiana: quando il buongoverno non si concilia con la democrazia

Michele Salvati, in un articolo apparso sulla rivista “Il Mulino” (anno LXI, 1/12, n.459, pp.22-32), si è chiesto per quale motivo l’Italia, in larga parte della storia repubblicana, non abbia avuto governi responsabili, in grado di realizzare politiche lungimiranti. Perché in Italia non c’è stato il buongoverno? In realtà – sostiene Salvati – il buongoverno c’è stato. Il guaio è che la sua durata è stata breve. Si è verificato quasi sempre in circostanze eccezionali.
Nel dopoguerra, durante la stagione del centrismo (dal 1948 al 1963), il Paese fu governato da una classe politica autorevole, responsabile, alla quale dobbiamo la messa a punto di quelle riforme che portarono al poderoso boom economico dell’Italia padana e dell’Italia centrale negli anni Sessanta del secolo scorso. Meno significativo, come noto, lo sviluppo economico nel Mezzogiorno. Ma, a parte la lunga stagione del centrismo, altre belle pagine non si vedono. Bisogna attendere – fa notare Salvati – la seconda Repubblica, in particolar modo i pochi anni che intercorsero tra la formazione del primo governo Amato (1992) e la fine del primo governo Prodi (1998) per vedere qualcosa che somigli al buongoverno; sei anni nel corso dei quali il Paese, reduce da una crisi finanziaria che aveva messo a repentaglio la tenuta del sistema politico-costituzionale, poté contare su governi in grado di condurre politiche impopolari pur di scongiurare la bancarotta dello Stato. In circostanze eccezionali, essi ebbero il merito di tenere sotto controllo la spesa e il debito pubblico salvando l’Italia da un default le cui conseguenze sarebbero state imprevedibili.  
La tesi centrale del saggio di Salvati risiede nella constatazione che l’Italia, messa a confronto con le altre democrazie europee, presenta una vistosa anomalia caratterizzata dalla non coincidenza tra democrazia e buongoverno. “La mia tesi è che quel contrasto (tra democrazia e buongoverno) è stato mediamente più forte, e ha dato luogo a un governo peggiore, in Italia rispetto ad altri Paesi con i quali è ragionevole confrontarci in questo dopoguerra: Regno Unito, Francia, Germania, Spagna post-franchista”.
Una tesi difficile da confutare. Difatti, se prendiamo in esame le condizioni della penisola italiana nella seconda parte della “Prima Repubblica” (1963-1992) e nella seconda parte della “Seconda Repubblica” (1998-2011) – sembra che quei governi furono incapaci di adottare politiche lungimiranti e questo nonostante fossero composti da partiti che riscuotevano il consenso di larga parte dell’elettorato. Non è un caso se l’immane debito pubblico italiano fu cumulato nei periodi di malgoverno che si sono appena accennati. Certo, ci troviamo di fronte a due sistemi politici diversi ma entrambi furono in qualche modo responsabili.
A mio parere, se prendiamo in esame la storia repubblicana, ci accorgiamo che i punti deboli del nostro vivere in comunità sono sostanzialmente due: la scarsa fiducia dei cittadini nelle istituzioni politiche, considerate estranee quando non rechino vantaggio ai loro interessi particolari; l’assenza di una cultura di governo in larga parte della classe politica. Questo ha prodotto esecutivi irresponsabili, poco autorevoli e per nulla stabili. Nella “Prima Repubblica” ci sono stati cinquanta governi in 47 anni – dal 1946 al 1993 con una media di quasi 1 governo all’anno – con una legge elettorale proporzionale in regime politico parlamentare. Nella “Seconda Repubblica” – che per comodità facciamo durare fino al 2011 includendo il governo Monti – gli esecutivi sono stati dieci in soli 17 anni con una media ancor più bassa rispetto alla precedente. In questo secondo caso, la forma di governo parlamentare è stata regolata da due leggi elettorali (il Mattarellum dal 1993 al 2005, il Porcellum dal 2006 ad oggi) che hanno tentato di risolvere il problema della governabilità: la prima con la prevalenza di un sistema a collegi uninominali sul modello inglese, la seconda con un sistema proporzionale corretto dal premio di maggioranza alla coalizione vincente. Secondo Salvati tali leggi non sono bastate a scongiurare l’instabilità del sistema politico. Gli esecutivi hanno continuato a traballare anche in questi anni, posti perennemente sotto il ricatto dei parlamentari i quali, nel sistema vigente, rivestono il monopolio della legislazione nazionale. Solo in un caso l’esecutivo ha potuto operare per quasi l’intero arco della legislatura: il secondo governo Berlusconi (2001-2005) che per Salvati non può essere considerato esempio di buongoverno. La realtà è che nella “Seconda Repubblica”, quantunque le leggi elettorali abbiano consentito di eleggere direttamente il presidente del consiglio, il buongoverno non è stato assicurato.
Oggi, esattamente come vent’anni fa, siamo alle prese con un governo “tecnico” il cui mandato dovrebbe consistere nel realizzare le riforme che nessun partito ha avuto il coraggio di fare. Salvati ha ragione nel sostenere che in Italia il buon governo non è coinciso quasi mai con la politica democratica. A mio giudizio il problema risiede nel tipo di Stato che ci ha governato finora. Lo Stato nazionale unitario – per il modo in cui si è formato, per la sua stessa costituzione interna – ci ha impedito di identificarci totalmente in un ordinamento saldamente ancorato alle radici della storia preunitaria della penisola. Non ci ha consentito di essere cittadini sensibili al bene comune. Il problema non investe solo la classe politica. Riguarda le classi dirigenti e i cittadini: le une e gli altri più sensibili all’interesse corporativo ed individuale che a quello generale.
Questa situazione è dovuta al fatto che lo Stato viene s e n t i t o  dai cittadini come qualcosa di imposto, di artificiale, di innaturale.

Se non risolveremo questo problema con una serie di riforme coraggiose tese a ridisegnare nel suo complesso l’ordinamento costituzionale, il Paese finirà nei prossimi anni per essere dilaniato dalle sue interne contraddizioni.