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Il caso Ruby mette a nudo le vergogne degli italiani

In rete sta circolando un breve scritto di Elsa Morante (1912-1985). 
Benito Mussolini è la persona su cui si concentrano le riflessioni della scrittrice. 
Lo riporto integralmente perché mi sembra attuale. 


A seguire, alcune mie considerazioni. 




“Il capo del Governo si macchiò ripetutamente durante la sua carriera di
delitti che, al cospetto di un popolo onesto, gli avrebbero meritato la
condanna, la vergogna e la privazione di ogni autorità di governo. Perché
il popolo tollerò e addirittura applaudì questi crimini? Una parte per
insensibilità morale, una parte per astuzia, una parte per interesse e
tornaconto personale. La maggioranza si rendeva naturalmente conto delle
sue attività criminali, ma preferiva dare il suo voto al forte piuttosto
che al giusto. Purtroppo il popolo italiano, se deve scegliere tra il
dovere e il tornaconto, pur conoscendo quale sarebbe il suo dovere, sceglie
sempre il tornaconto. 



Così un uomo mediocre, grossolano, di eloquenza volgare ma di facile
effetto, è un perfetto esemplare dei suoi contemporanei. Presso un popolo
onesto, sarebbe stato tutt’al più il leader di un partito di modesto
seguito, un personaggio un po’ ridicolo per le sue maniere, i suoi
atteggiamenti, le sue manie di grandezza, offensivo per il buon senso della
gente e causa del suo stile enfatico e impudico. In Italia è diventato il
capo del governo. Ed è difficile trovare un più completo esempio italiano.
Ammiratore della forza, venale, corruttibile e corrotto, cattolico senza
credere in Dio, presuntuoso, vanitoso, fintamente bonario, buon padre di
famiglia ma con numerose amanti, si serve di coloro che disprezza, si
circonda di disonesti, di bugiardi, di inetti, di profittatori; mimo abile,
e tale da fare effetto su un pubblico volgare, ma, come ogni mimo, senza un
proprio carattere, si immagina sempre di essere il personaggio che vuole
rappresentare.” 

Le indagini portate avanti dai pm di Milano nei confronti della vita privata del presidente del Consiglio hanno gettato il Paese in uno stato di turbamento e di profondo disagio. Mai come in questi giorni l’Italia ha dimostrato di essere alla deriva non solo in base ai valori etico morali, ma ancor più sul piano dei principi che stanno alla base dello Stato di diritto europeo liberal-democratico. Perché qui – bisogna esser chiari fino in fondo – a scandalizzare non è tanto la vita privata del presidente del consiglio. A suscitare indignazione è l’indifferenza, il disinteresse, la sostanziale apatia di noi italiani. 





Il popolo italiano non esiste. E’ sempre stata l’invenzione di una minoranza di poeti, intellettuali e politici spregiudicati. Gli italiani non sentono di appartenere a una comunità nazionale perché c’è sempre stata una classe politica  s e p a r a t a  dalla società che ha pensato per loro, che si è occupata di politica facendo – spesso male – quel che loro stessi avrebbero dovuto controllare che fosse fatto bene. Non c’è in Italia una cultura civica. Questo spiega l’apatia, l’indifferenza, il totale disinteresse di larga parte dei cittadini nei confronti della politica, buona o cattiva che sia.


Si può sostenere con relativa attendibilità che in 150 anni alcune minoranze hanno confezionato tre camice di forza per gli italiani: prima lo Stato monarchico (‘parlamentare’ e accentrato), poi lo Stato fascista (governativo e accentrato), infine la Repubblica italiana (parlamentare, decentrata e a tratti ‘autonomista’ ma in realtà partitocratica). Tre regimi imposti dall’alto, tre poteri pubblici nei quali gli italiani hanno recitato quasi sempre il ruolo di comparse: comparse buone in circostanze eccezionali per le manifestazioni in piazza o per le rivoluzioni  (pensiamo alle lotte partigiane combattute contro i nazi-fascisti al centro-nord), ma tenute  rigorosamente lontane dalle stanze del potere, chiamate a intervenire solo nel giorno delle elezioni.


E’ una storia che in fondo risale all’Unità. Prendiamo le leggi di unificazione amministrativa approvate dal governo il 20 marzo 1865 ed estese a tutta la penisola: la camicia, di taglia piemontese, venne fatta indossare ai popoli italiani senza coinvolgere le classi dirigenti, senza chieder loro se le misure fossero adatte alla costituzione naturale dei territori. Il risultato fu scontato: la classe politica ‘italiana’, nel timore di attentare all’Unità nazionale (eterno spauracchio agitato dalla classe politica contro qualunque riforma minacci di intaccare il suo potere), bocciò i timidi progetti regionalisti avanzati da Luigi Carlo Farini e da Marco Minghetti, ingabbiando il paese nel vestito di un nano (il piccolo Piemonte).


Ottantatrè anni dopo: stesso copione. Caduto il fascismo dopo vent’anni di dittatura, i nostri “padri costituenti” emanarono nel 1948 la Costituzione repubblicana guardandosi bene dal sottoporla a referendum. I francesi e gli spagnoli, riottenuta la libertà, agirono in modo diverso e chiesero al popolo di esprimersi con plebiscito sulle Costituzioni repubblicane. Da noi, nisba. Il popolo, chiamato due anni prima ad eleggere l’assemblea costituente, decise soltanto tra monarchia e repubblica. Scrisse a fine ottobre 1944 la Segreteria del Partito d’Azione dell’Alta Italia: “Che importa avere un presidente anziché un re se tutto l’apparato statale è fondato sul principio monarchico dell’autorità che scende dall’alto?” (Lettera aperta della Segreteria del Partito d’Azione dell’Alta Italia al comitato esecutivo del partito dell’Italia centro-meridionale, pubblicata in E. ROTELLI, L’avvento della Regione in Italia, Milano, Giuffré, 1967, pp.45-46). Sagge parole. Quel che avvenne è noto a tutti. Anziché rifondare l’ordinamento repubblicano su basi autonomiste e rendere democratici i Cln regionali, i partiti antifascisti scelsero di conservare l’apparato amministrativo dello Stato unitario. Un apparato amministrativo unitario e centralizzato che i fascisti avevano ricevuto in eredità dallo Stato liberale e avevano perfezionato in base alla logica autoritaria di Mussolini.


Anche negli anni della Repubblica lo Stato italiano continuò ad essere fondato sulla struttura unitaria e centralizzata della sua burocrazia, né valse l’introduzione delle Regioni (avvenuta negli anni Settanta del secolo scorso) a migliorare una situazione che divenne sempre più ingessata, pietrificata, irriformabile. Anzi. Le Regioni, lungi dall’esercitare le funzioni prima detenute da alcuni ministeri dello Stato centrale, finirono con il produrre nuova burocrazia e una congerie di uffici che appesantirono ulteriormente l’andamento dell’amministrazione pubblica.       


I difetti fondamentali che avevano segnato la fine dello Stato italiano nato dal Risorgimento finirono ben presto con il riformarsi inesorabilmente nella Repubblica Italiana. Ancora oggi, tutto viene imposto dall’alto. I cittadini sono concepiti alla stregua di minorenni eternamente immaturi. Basta guardare all’impianto della nostra Costituzione: una Carta fondata sulla centralità del Parlamento (quindi dei politici di professione) e sul ruolo marginale riservato ai cittadini e agli enti territoriali, nonostante la falsa riforma federale. Finché rimarrà questa tara, continueremo ad essere governati da una minoranza legale inevitabilmente staccata dal paese reale. Diciamolo chiaramente e una volta per tutte. Finché sarà in vigore questa Costituzione, l’Italia continuerà ad essere un Paese ove i professionisti della politica detengono il sostanziale monopolio del potere; dove i cittadini, concepiti come pupilli inadatti ad assumersi la responsabilità di decidere sui problemi più importanti, son tenuti lontano dalla politica attiva, condannati ad esprimersi nel giorno delle elezioni, nei casi alquanto rari in cui un referendum abrogativo raggiunga il quorum o nei casi in cui  i parlamentari votino una riforma della costituzione con una maggioranza inferiore ai due terzi.


La Costituzione vigente  concentra gran parte delle funzioni pubbliche negli istituti della democrazia rappresentativa, prerogativa di una classe politica normalmente mediocre. L’intellettuale meridionale Gaetano Salvemini, uno dei grandi interpreti del federalismo,  quando lesse la Costituzione del ’48, intuì con grande lucidità quel che sarebbe avvenuto e non esitò a sostenere che “il presente regime politico può essere definito il fascismo meno  Mussolini più le Regioni” (passo citato in E. ROTELLI, Regionalismo, in «Amministrare», a.XXXIV, n.3, dicembre 2004, pag.349). Non poteva dir meglio e il giudizio resta in larga parte valido nonostante il federalismo all’acqua di rose approvato dal centrosinistra nel 2000 e confermato dagli italiani con referendum.     


Ma, a ben vedere, questa situazione risale alla nostra ‘nascita’ come “Stato-Nazione”: lungi dal costruire una Confederazione di Stati nel rispetto delle piccole patrie facendo dialogare fra loro i popoli italiani (come chiedevano i federalisti cattolici e democratici), si volle cancellare d’un tratto e con violenza inaudita il patrimonio storico giuridico degli Stati preunitari, fondando sullo Stato piemontese il nuovo regime italiano. Si dirà che tale esito era inevitabile vista l’opposizione delle classi dirigenti preunitarie alla politica del Piemonte (Austria in primis). E’ vero. Questo tuttavia non basta a giustificare quanto avvenne in seguito all’unificazione, soprattutto nell’ex Regno delle Due Sicilie. Lo scollamento dei cittadini dalle istituzioni, la cesura tra paese reale e paese legale già presente in parte negli Stati preunitari, si acuì maggiormente con la fondazione dello Stato italiano.


In Svizzera avvenne il fenomeno inverso: la costruzione di un nuovo soggetto politico unitario (la Confederazione elvetica), quantunque fosse avvenuta  in modi e tempi diversi, non portò all’annientamento radicale delle radici statuali preunitarie. In Svizzera i Cantoni tendono ancora oggi ad essere i Cantoni preunitari. Possiamo dire lo stesso per le nostre Regioni? La risposta è evidentemente negativa.


Sempre in terra elvetica, nel 1874, venne introdotto il referendum legislativo per garantire piena voce al popolo allontanando il rischio che la concentrazione di alcune funzioni nella Confederazione rischiasse di produrre il dispotismo partitocratico. Oggi l’autentico federalismo a base cantonale e i referendum (propositivo deliberativi in campo legislativo e costituzionale) garantiscono alla Svizzera una vera democrazia. Beati loro. Noi dobbiamo fare i conti con lo strapotere dei partiti e con uno Stato nazionale inevitabilmente fittizio perché imposto dall’alto.


A voler essere paradossali, Berlusconi ha avuto il merito di mettere finalmente a nudo le vergogne degli italiani. Altro che 150 anni di Unità d’Italia! Il caso Berlusconi dimostra che l’Italia non esiste.


Se l’Italia esistesse e, come vanno dicendo, fosse uno Stato europeo di diritto liberal-democratico, sarebbe stato  impossibile al Cavaliere salire al potere e rimanerci così a lungo. Ma gli italiani, come scriveva bene la Morante, pensano al loro tornaconto, al loro particulare.


Il bene della comunità nazionale non esiste. E’ una sovrastruttura imposta da una minoranza che pensa “amorevolmente” per gli italiani. Il risultato? Una televisione di Stato gestita dai partiti, una stampa in larga parte asservita e due milioni di miliardi di debito pubblico.

I finiani e la tela di alleanze per neutralizzare la Lega

La conferenza stampa che Silvio Berlusconi ha tenuto venerdì scorso al termine del vertice a palazzo Grazioli voleva essere probabilmente, nelle intenzioni del premier, un atto teso a rassicurare gli elettori del Pdl. I finiani dovevano esser messi con “le spalle al muro”, costretti ad approvare o a respingere in toto il programma votato a larghissima maggioranza dai membri del partito. Ma l’obiettivo del premier è stato raggiunto solo a metà. Berlusconi si prepara a confrontarsi con un Parlamento che vedrà i finiani svolgere un ruolo ambiguo, di certo poco fedele alle sue direttive politiche.
Il terreno del confronto a Montecitorio si annuncia assai insidioso. Futuro e Libertà, il gruppo parlamentare che fa capo al presidente della Camera, ha già fatto sapere che non approverà leggi ad personam o normative – come quella sul processo breve – che rischiano di ostacolare il corretto funzionamento della magistratura. E’ inoltre probabile che i finiani respingeranno il Lodo Alfano costituzionale con cui il premier intende porsi definitivamente al riparo dalle inchieste giudiziarie.
In realtà, il lento logoramento che i finiani vanno operando nei confronti del governo Berlusconi risponde a un obiettivo assai più concreto. Il presidente della Camera ha ragione nel sostenere che l’approvazione di leggi ad personam non è ammissibile in uno Stato di diritto legislativo parlamentare. C’è da chiedersi tuttavia per quale motivo i finiani si siano svegliati proprio ora dopo essersi accucciati per tanti anni ai piedi del trono di Arcore.
Occorre ricercare altrove le ragioni del mutamento di rotta politica compiuto dai finiani. La sorgente della discordia risiede nel ruolo giocato dalla Lega in questa legislatura, ruolo dovuto al clamoroso successo elettorale riscosso dal partito di Bossi nelle ultime elezioni politiche. L’asse tra Tremonti e Bossi, ma soprattutto la posizione decisiva rivestita dalla Lega all’interno della maggioranza viene osteggiata da quanti temono che i leghisti vogliano far saltare per sempre i principi di solidarietà e di coesione nazionale su cui si fonda la Costituzione del ’48. L’emanazione dei primi decreti sul federalismo fiscale vien vista dai conservatori come un primo, inaccettabile colpo di piccone all’edificio dello Stato italiano. Non a caso il finiano Italo Bocchino ha proposto a Berlusconi di formare un nuovo governo che possa contare sull’appoggio del Pdl, di Futuro e Libertà, di Casini, di Rutelli e di tutti i delusi del Partito democratico. Insomma il presidente della Camera, giocando di sponda con l’Udc e con una parte del centro sinistra, intende ridimensionare il ruolo della Lega lavorando per la conservazione del regime esistente, dei principi di solidarietà e di unità nazionale su cui si regge la Costituzione del 1948.
Umberto Bossi ha fatto sapere di non essere disposto ad appoggiare governi sostenuti da chi ha perso le elezioni. Non si vede come dargli torto. Il consenso elettorale della Lega è dovuto precisamente al programma di riforma federale della repubblica italiana. Ma Berlusconi sembra disposto a far entrare nella maggioranza il partito di Casini pur di vedere approvati i disegni di legge che più gli stanno a cuore. Se un tale piano dovesse avverarsi, la Lega vedrebbe considerevolmente ridimensionata la sua influenza sugli equilibri della maggioranza, il che porterà inevitabilmente alla fine della stagione costituente che si era aperta con le elezioni del 2008. Sarebbe anche la fine di ogni ipotesi di riforma costituzionale in senso federale e presidenziale. Per Bossi mai come in questo momento sembra appropriato il motto borrelliano: resistere, resistere, resistere…

Berlusconi e i cattolici spaccati in due…

L’editorialista di Famiglia Cristiana, Beppe Del Colle, sostiene in un articolo dal titolo “Il cavaliere dimezzato” che l’ingresso in politica del Cavaliere avrebbe provocato una grave spaccatura tra gli elettori cattolici (ex democristiani): “La discesa in campo di Berlusconi ha avuto come risultato quello che nessun politico nel mezzo secolo precedente aveva mai sperato: di spaccare in due il voto cattolico (o, per meglio dire, il voto democristiano)”.

Non sono d’accordo. Negli anni immediatamente precedenti alla discesa in campo di Berlusconi, il mutamento di segno politico nell’elettorato cattolico si era già verificato in tutta la sua estensione. Basti ricordare che la Lega Nord, nelle elezioni politiche del 1992, raggiunse per la prima volta la soglia dell’8,6 per cento, guadagnando percentuali bulgare in province che per decenni erano state rigorosamente ‘bianche’.

La crisi del cattolicesimo politico, che negli anni della cosiddetta Prima Repubblica si sostanziò (a mio giudizio assai mediocremente) nella Democrazia Cristiana, fu dovuta quindi ad altre ragioni. Senza dubbio la modesta levatura della classe politica che fu a capo del partito negli anni Ottanta. Già nel 1981 Giuseppe Lazzati, uno dei maggiori uomini di cultura, rettore dell’Università Cattolica dal 1969 al 1983, avvertì i politici democristiani che occorreva recuperare il filo diretto con la gente. Non fu ascoltato. Il partito continuò a dilaniarsi in lotte di potere interne, in una politica di palazzo lontana dai bisogni della società. Quando arrivò la tempesta di Tangentopoli la Democrazia Cristiana, che già perdeva acqua da tutte le parti, naufragò miseramente tra l’indifferenza generale.

Non è quindi colpa di Berlusconi se i cattolici sono oggi divisi, privi di una guida politica che sia in grado di rappresentarli degnamente. E’ colpa invece dei democristiani, i quali mostrarono di non avere una cultura politica adeguata, che fosse realmente al servizio dei valori cattolici.

Diktat di Roma all’Alto Adige: no ai cartelli tedeschi

Il ministro Fitto vuol proibire ai Sud-Tirolesi di scrivere i nomi dei sentieri in lingua tedesca. “In Alto Adige i 36 mila cartelli in montagna scritti solo in lingua tedesca devono sparire”, ha detto il titolare del dicastero degli Affari regionali. Non basta. Se la Provincia autonoma di Bolzano non provvederà all’eliminazione dei cartelli, interverrà lo Stato.

Questa curiosa dichiarazione del ministro Fitto mostra che il governo Berlusconi ha un’idea alquanto fumosa del federalismo e lascia trasparire un certo spirito centralista che pensavamo di aver sepolto definitivamente sotto le macerie del Fascismo. Difatti, non v’è chi non veda come appartenga allo Stato centralista e nazionalista il metodo di imporre una lingua, una cultura, un sistema d’istruzione uniforme a tutte le popolazioni soggette al suo dominio.

Un vero ordinamento federale, come non si stancava di ripetere il professor Miglio, non impone l’omogeneità e l’unità. Esso è costituito al contrario per tutelare e gestire i diritti storici delle comunità e delle minoranze.