Il “sindaco della micca”: Gaetano Negri

Il 31 luglio ricorre l’anniversario della tragica scomparsa di un grande sindaco e intellettuale: Gaetano Negri (1838-1902). Traccerò un breve profilo di questa importante personalità della vita pubblica milanese nel XIX secolo. Un uomo che acquisì notorietà per essere stato un esponente di punta della Destra moderata lombarda.

Gaetano Negri nell'uniforme di tenente del Regio esercito
Gaetano Negri nell’uniforme di tenente del Regio esercito

Laureato in legge all’Università di Pavia, il giovane Negri si arruolò nel regio esercito pochi mesi dopo l’annessione della Lombardia al Piemonte sabaudo: inviato nel Meridione per reprimere il brigantaggio, si guadagnò due medaglie d’argento al valore, nel 1861 e nel 1862 per la determinazione e il coraggio con cui represse alcune bande di malviventi in Campania.

Tornato a Milano, lavorò come giornalista per il quotidiano moderato La Perseveranza, ove  pubblicò alcuni interventi afferenti alla geologia, alla cartografia, alla geografia: interessi scientifici che aveva coltivato negli anni universitari grazie all’amicizia con il celebre patriota e scienziato Antonio Stoppani.

Consigliere comunale dal 1873 al 1898, Negri rivestì per alcuni anni l’ufficio di assessore all’istruzione nella giunta del sindaco Belinzaghi (1873-1884) mostrando ottime doti di amministratore. Si deve a lui la realizzazione della riforma scolastica prevista dalla legge Casati che portò al pieno funzionamento degli istituti educativi in città. Tale impegno gli guadagnò vasti consensi presso l’opinione pubblica. Negri raggiunse tuttavia la popolarità quando divenne sindaco di Milano nel 1884 in sostituzione di Belinzaghi, costretto a dimettersi per il suo coinvolgimento nella messa a punto di un piano urbanistico (fortunatamente rimasto sulla carta) che prevedeva la demolizione del Castello Sforzesco e la costruzione di nuovi edifici, due operazioni atte a favorire la nascente speculazione edilizia. Il nuovo sindaco seppe conciliare le ragioni di chi voleva tutelare l’integrità del patrimonio storico urbanistico con le richieste che provenivano dagli imprenditori dell’edilizia; richieste che partivano dalle esigenze di costruire case in periferia per gestire l’aumento significativo della popolazione cittadina. Ricordiamo che tra il 1884 e il 1911 Milano passò da 260.000 a quasi 600.000 abitanti.

Progetto del piano Beruto 1884
Il progetto originario del Piano Beruto (1884)

Il primo gennaio 1886 fu approvato il piano dell’ingegnere Cesare Beruto, la cui versione definitiva presentava notevoli modifiche rispetto al progetto originario, assai più radicale. Ad esempio, la prevista copertura del naviglio interno in centro città venne bocciata dalla giunta Negri, orientata alla conservazione di un’infrastruttura che costituiva un segno insopprimibile dell’identità cittadina. Inoltre, se nel progetto originario si proponeva la costruzione di una piazza centrale ad ovest rispetto a piazza del Duomo, collegata con nuove arterie stradali che avrebbero spianato molti isolati del centro, alla fine si decise per una piazza ellittica (il Cordusio) allargando le strade esistenti e costruendo la sola via Dante fino al Castello. Nella piazza d’Armi tra il Castello e l’arco del Sempione l’architetto Alemagna costruì quello che sarebbe poi diventato il parco Sempione. Si evitò poi di demolire l’antico fortilizio accogliendo le sagge indicazioni di Luca Beltrami, che propose di restaurarlo e farne la sede delle maggiori istituzioni storico culturali della città. Dobbiamo ringraziare Negri e Beltrami se il Castello Sforzesco è giunto fino a noi.

Tra i pregi del piano Beruto, varrà la pena ricordare che era prevista la divisione del Comune in zone per la costruzione di edifici appartenenti allo stesso genere: via XX settembre, vicino a Cadorna e a piazza Conciliazione, fu terreno per le ville, mentre la zona compresa tra piazzale Baracca e il Parco Sempione fu riservata ad eleganti abitazioni signorili. Il quartiere di Porta Tenaglia, le zone dell’antico Borgo degli Ortolani e dei Corpi Santi di Porta Comasina (oggi vie Canonica, Bramante, Paolo Sarpi) furono invece destinate all’edilizia popolare.

Il senatore Gaetano Negri
Il senatore Gaetano Negri

Il nome di Negri è poi legato alla riforma amministrativa che portò alla definitiva fusione del Comune dei Corpi Santi con la città di Milano. Come ho ricordato in un precedente articolo, i Corpi Santi erano stati annessi a Milano con decreto reale del 1873. La città restava tuttavia divisa in due zone separate, regolate da norme fiscali e politico-amministrative che finivano per privilegiare il centro cittadino. Una realtà che traspariva ad esempio nella materia elettorale: negli anni successivi all’annessione, la città antica poteva eleggere 61 consiglieri comunali mentre la città nuova (i vecchi Corpi Santi) poteva esprimerne solo 19 nonostante contasse una popolazione decisamente superiore rispetto al centro. Negri ebbe il merito di rimediare in parte a queste ingiustizie. Grazie al suo impegno fu compiuta la piena unificazione elettorale del Comune.

Il sindaco non volle toccare invece il diverso regime fiscale esistente nelle due parti della città. Gli alimenti e le altre merci continuarono ad essere più costose dentro la cerchia dei bastioni. Lo sapevano bene i milanesi che, abitando in periferia, si recavano ogni giorno in centro per lavoro: quelli che, mossi dall’esigenza di risparmiare, si portavano il cibo da casa, erano costretti a pagare il dazio all’ingresso delle vecchie porte cittadine. Negri difese strenuamente questo regime fiscale, il che finì per alienargli il favore dei ceti popolari, oltre a suscitare numerose proteste. In questa circostanza il primo cittadino di Milano fu soprannominato ironicamente il “sindaco della micca”. Solo nel 1897-98 il Comune avrebbe realizzato finalmente la piena unificazione tributaria.

Costretto a dimettersi nel 1889 per le sue posizioni impopolari in merito alla citata questione daziaria, Negri fu nominato senatore l’anno seguente, carica che rivestì fino alla morte. Occorre tuttavia ricordare che il moderato lombardo nutrì nei confronti della politica nazionale una certa estraneità, non sentendosi portato alla vita parlamentare, agli equilibri tra i partiti, ai giochi di potere. Alla faziosità e ai proclami della politica preferiva l’impegno concreto nell’amministrazione locale, nella gestione del suo patrimonio immobiliare, nei suoi studi filosofici e letterari.

Lasciò la guida della Destra milanese all’industriale Giuseppe Colombo che in un commosso intervento tenuto nel 1908, a sei anni dalla morte, volle ricordare l’amico con queste parole:

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La tragica morte di Gaetano Negri da “Il Secolo Illustrato della Domenica”, 10 agosto 1902.

si ritrasse in disparte, come fanno ormai, in proporzione sempre più grande, molti spiriti eletti, disgustati dalla vita pubblica, dall’acerbità delle passioni di parte, dalla crescente insincerità della politica e dall’opportunismo invadente.

Ma il rifugio veramente caro al suo cuore era la sua casa; era il salotto in cui, attorno alla eletta famiglia che egli adorava e dalla quale era adorato, si riunivano periodicamente gli amici più intimi; era lo studiolo, lindo, semplice e chiaro, dove egli passava ore deliziose nei lavori a cui lo portava la natura del suo spirito geniale.

Gaetano Negri morì nel corso di un’escursione mentre si trovava in vacanza nella cittadina ligure di Varazze. 

“A comodo e ornamento” di Milano: la Galleria De Cristoforis

Nella prima metà dell’Ottocento le gallerie coperte, caratterizzate da eleganti soffitti in vetro, divennero frequenti in molte città europee. Erano passaggi che collegavano almeno due vie, al cui interno si affacciavano negozi, ristoranti, caffè, hotel. Milano, come ricorderò fra poco, non mancò di brillare con un’opera architettonica oggi purtroppo scomparsa.

Burlington Arcade
Burlington Arcade a Londra in una stampa ottocentesca

La prima galleria in vetro ad essere costruita fu la Burlington Arcade di Londra, opera dell’architetto Samuel Ware, tuttora esistente tra Piccadilly e Burlington Gardens, non molto distante da Buckingham Palace e Piccadilly Circus. Si tratta di un passaggio coperto che aprì al pubblico nel 1819 per iniziativa di Lord George Cavendish che aveva ereditato i terreni e le case della zona. Costruita per la vendita di gioielli e articoli esclusivi afferenti alla moda, la galleria è lunga 161 metri. In origine era costituita da 72 negozi distribuiti in due piani.

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Galierie Vivienne a Parigi

Pochi anni dopo, nel 1823, l’architetto Francois Jean Delannoy ricevette l’incarico di costruire una galleria vetrata nel centro di Parigi, a pochi passi dalla Borsa, dal Palazzo Reale e dai Grand Boulevards. Anche qui la finalità risiedeva essenzialmente nell’offrire alla nobiltà e alla ricca borghesia cittadina un punto esclusivo di ritrovo su cui si affacciassero negozi, ristoranti e i caffè più esclusivi. Anche questa galleria esiste ancora oggi. Gli ingressi sono da rue des Petit-Champs, rue de la Banque e rue Vivienne. La Galerie Marchoux, denominata poi Vivienne, è lunga 176 metri e larga appena tre.

La prima galleria coperta costruita a Milano, la Galleria De Cristoforis, presentava nella sua struttura alcune caratteristiche presenti nei casi appena richiamati; fu aperta nel 1832 su iniziativa dei fratelli Giovanni Battista e Vitaliano De Cristoforis che, acquistate le case poste tra gli isolati dell’ultimo tratto della corsia dei Servi (oggi corso Vittorio Emanuele II) e di via Monte Napoleone, intendevano donare alla città un monumento – come recitava l’iscrizione posta in uno dei tre ingressi – “a comodo ed ornamento della patria”. I lavori, affidati all’architetto Andrea Pizzala, furono condotti da 450 operai che li portarono a compimento entro l’anno. La galleria somigliava alla Galerie Vivienne di Parigi: lunga 110,67 metri, larga poco più di 4, aveva un ingresso da corsia dei Servi ove il passaggio si allungava in un lungo rettilineo fino a dividersi in due bracci: a sinistra verso via San Pietro all’Orto, a destra verso via Monte Napoleone. Come la londinese Burlington Arcade, anche la Galleria De Cristoforis ospitava una settantina di negozi.

L’estensore di una guida di Milano pubblicata nel 1838 informava i turisti che nella Galleria si trovavano un caffè, un lussuoso albergo, trenta appartamenti, alcuni spazi espositivi di porcellane e bronzi dorati:

DeCristoforis4Fu di recente eretta la Galleria e Cristoforis e porta il nome di una benemerita famiglia milanese, che distinta già nelle lettere e nelle scienze aggiunse con questo edificio nuovo lustro a Milano…settanta botteghe ed altrettanti magazzini superiori compongono la galleria oltre una spaziosa bottega da caffè al punto centrico dei bracci. Rimarchevoli sono i depositi delle porcellane lombarde del nobile Tinelli, e dei bronzi dorati di Aubry e Ronchi. Il fabbricato interno unito alla galleria comprende circa trenta appartamenti oltre il nuovo albergo Elvetico che gareggia nel lusso cogli altri primari, ma di fresca data, non ha ancora quella rinomanza che giustamente merita. [Guida di Milano in otto passeggiate, 1838. Nuova edizione Milano, Il Polifilo, 2005, pp.27-28].

La “spaziosa bottega” menzionata nella guida era il caffè del signor Teodoro Gottardi, la cui proprietà sarebbe passata alla metà dell’Ottocento a Baldassarre Gnocchi. In un album dal titolo Milano illustrata, risalente al 1850, il caffè Gnocchi era così descritto:

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Il Caffé Gnocchi in Galleria De Cristoforis in una stampa ottocentesca

Taluni siedono su gli scranni dell’elegante caffè che si affaccia di prospetto alla Galleria ed abbraccia tutte le sale dell’ala che mette alla contrada del Monte. Un tempo questo caffè era quasi deserto; ma ora mercé l’ottimo e decoroso servigio che somministra il Gnocchi, fa sì che da alcuni anni vedesi assai frequentato…le sale del caffè sono bene addobbate…qui crocchi di vecchi che parlano d’affari e d’antiche reminiscenze, là giovani che discorrono di novità, di avventure galanti, di matrimoni,di teatri, di cantanti, di ballerine…

Al Caffè Gnocchi si ritrovarono, negli anni immediatamente successivi all’Unità d’Italia, i poeti del celebre sodalizio letterario della Scapigliatura: Emilio Praga, Eugenio Bermani, Luigi Conconi, Iginio Ugo Tarchetti.

Nei cento anni della sua esistenza (la galleria venne demolita negli anni Trenta del XIX secolo), molti negozi aprirono in questo elegante e riservato salottino milanese. Varrà la pena ricordare la profumeria Dunant, che attirava i visitatori con un’abile disposizione di specchi tesi a produrre riflessi bizzarri. Inoltre, tra la fine dell’Ottocento e il primo Novecento, nella galleria aprì la famosa libreria fondata da Ulrico Hoepli. A quell’epoca c’era anche un cinematografo, il Volta.

Cesare Cantù
Cesare Cantù (1804-1895)

Tornando alle origini della galleria De Cristoforis, occorre tener presente che la sua posizione, vicino a piazza San Babila, suscitò alcune perplessità nei contemporanei. Alcuni ritenevano opportuno costruire una galleria in posizione più centrale. Nei volumi Milano e il suo territorio pubblicati nel 1844 in occasione del congresso degli scienziati italiani, il celebre storico Cesare Cantù riteneva ad esempio che un passaggio coperto tra piazza del Duomo, via Santa Margherita e piazza San Fedele avrebbe attirato un maggior numero di visitatori rispetto alla galleria De Cristoforis, che appariva troppo defilata. Cantù espresse comunque i suoi apprezzamenti verso la nuova opera, simbolo di una Milano ricca e intraprendente:

Capitali, industria, coraggio sono tre elementi della prosperità materiale di un paese: e tutt’e tre potrebbero dirsi simboleggiati nella Galleria De Cristoforis, primo di tal genere in Italia, che una privata famiglia osò intraprendere a comodo ed ornamento della patria…

Avrebbe incontrato miglior fortuna se si fosse potuto collocare allato al Duomo, sicché mettesse in Santa Margherita con un braccio, coll’altro a San Fedele; ma la scelta dei luoghi non è sempre in arbitrio deg’intraprenditori, come la destinazione delle fabbriche fa dagli architetti sagrificar parte del bello.

Esternamente presentasi come un’ampia casa a tre piani, colla facciata adorna di stipiti marmorei, e di ferro fuso sì i fregi che il parapetto dei terrazzini, tre porte introducono ad un vestibolo quadrilungo, adornato dalle statue di Marco Polo, Flavio Gioia, Colombo e Vespucci, lavoro di Puttinati. Ne parte la via vetriata…che all’estremo dilatasi in un atrio ottagono, di fronte al quale s’apre un ben inteso caffè.

Ventitre anni dopo, il 15 settembre 1867, veniva inaugurata la Galleria Vittorio Emanuele II tra piazza Duomo e piazza della Scala: non era propriamente l’idea del Cantù ma l’opera architettonica, a pochi passi dalle vie che  aveva suggerito, sarebbe stata destinata a miglior fortuna. In breve tempo i negozi più esclusivi fecero a gara per stabilirsi nella nuova galleria mentre la vecchia decadeva lentamente ma inesorabilmente. E’ significativo che la guida in francese del 1906, pubblicata dal Comune per i turisti stranieri che accorrevano a Milano per l’Esposizione internazionale di quell’anno, dedicasse largo spazio alla nuova opera architettonica mentre era assente qualsiasi riferimento alla galleria De Cristoforis.

La nuova Galleria si discostava sensibilmente dalla sua “progenitrice” per le dimensioni imponenti della struttura, il cui stile obbediva a una finalità educativa tesa ad esaltare gli ideali politici dello Stato nazionale monarchico costituito nel 1861.  Questo sarà argomento per un altro articolo del Monitore.

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Il Freyung Passage a Vienna

Più semplice e dimesso, legato ai fini commerciali di una borghesia lombarda sensibile al decoro pubblico, era stato per converso lo spirito informatore con cui i fratelli De Cristoforis avevano costruito la loro galleria trent’anni prima. Un’opera che divenne in breve tempo uno degli esempi più significativi di passaggi coperti. Essa continuò ad influenzare in modi diversi l’architettura europea del XIX secolo: dalle Galeries Royales Saint Hubert di Bruxelles (1846) al Passage sulla Nevsky Prospekt di San Pietroburgo (1848). Occorre ricordare infine il Freyung Passage di Vienna, costruito nel 1860.

Una grande istituzione milanese: il Teatro alla Scala

Il 15 luglio 1776 l’imperatrice Maria Teresa d’Asburgo approvò il progetto dell’architetto Giuseppe Piermarini per la costruzione di un teatro di corte nel luogo in cui si trovava l’antica chiesa di Santa Maria della Scala.

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Marc’Antonio Dal Re, Festa in Teatro Ducale del Governatore Pallavicini per la nascita dell’arciduca Pietro Leopoldo nel 1747

Da cinque mesi Milano era sprovvista di un luogo in cui potesse riconoscersi la colta società cittadina. Il vecchio teatro ducale, un suntuoso edificio comprendente 800 posti che si trovava in un’ala del palazzo del governatore (oggi Palazzo Reale) era stato distrutto da un incendio il 26 febbraio. Incendio che, oltre a rendere inagibili per alcuni anni le stanze della residenza di corte costringendo gli arciduchi a traslocare nel palazzo Clerici, aveva privato la città di un teatro importante, che era stato costruito nel 1725 con i fondi del patriziato milanese.

L’imperatrice Maria Teresa ordinò la pronta costruzione del nuovo edificio: i lavori, iniziati il 5 agosto 1776 con la demolizione della chiesa scaligera, terminarono due anni dopo. Il 3 agosto 1778 il Teatro alla Scala apriva al pubblico con l’opera in due atti l’Europa riconosciuta di Antonio Salieri. Furono inoltre eseguiti due balletti, uno a metà dell’opera, l’altro al termine.

Qual era il normale allestimento dello spettacolo in un teatro del Settecento? Anzitutto non dobbiamo pensare che vi fosse un direttore e che l’orchestra fosse nascosta, al di sotto del palco, come avviene oggi. Queste furono invenzioni del compositore, poeta e musicista tedesco Richard Wagner (1813-1883) che vennero introdotte progressivamente nei teatri europei verso la fine dell’Ottocento.

Nel XVIII secolo l’orchestra era situata sul palco ove si svolgeva la scena principale. Allo spettacolo principale (commedia o melodramma) era affiancata l’esecuzione di scene mute nei palchi situati ai lati. Il melodramma poteva essere intervallato da balletti.

Scrisse Montesquieu in un passo delle Lettere persiane (pubblicate nel 1721) ove descriveva una rappresentazione  teatrale all’Opera di Parigi:

Montesquieu
Charles Louis Secondat barone di Montesquieu

La gente verso la fine del pomeriggio si raduna per fare una specie di recita che ho sentito chiamare commedia. L’azione principale si svolge su una scena che si chiama teatro. Ai due lati, in certi piccoli ridotti, che si chiamano palchi, si vedono degli uomini e delle donne che rappresentano insieme delle scene mute… Qui c’è un’amante afflitta che esprime il suo abbattimento; un’altra con occhi vivaci e aspetto appassionato, divora con gli occhi il suo amante, che la guarda allo stesso modo; tutte le passioni sono dipinte sui visi ed espresse con un’eloquenza che, essendo muta, è ancora più viva.

Gli spettacoli teatrali nella Milano settecentesca non dovevano essere molto diversi da quelli descritti da Montesquieu.

Ma torniamo a quel 3 agosto 1778, giorno dell’inaugurazione del teatro alla Scala. La Gazzetta di Milano, nel descrivere l’entusiasmo con cui i presenti avevano assistito allo spettacolo, non mancò di accennare alla grandiosa architettura del teatro, soffermandosi in particolar modo sull’impegno con cui le famiglie milanesi, proprietarie dei palchi, avevano contribuito a rendere memorabile quella serata addobbando gli ambienti con mobili e oggetti lussuosi. Anche l’impresa teatrale aveva arredato sontuosamente i ridotti, le stanze ove si praticava il gioco d’azzardo. A quell’epoca l’impresa teatrale era stata appaltata dallo Stato ad alcuni nobili milanesi. Dal 1776 vi facevano parte il conte Carlo Ercole Castelbarco Visconti, il marchese Antonino Menafoglio, il marchese Bartolomeo Calderara amico intimo di Cesare Beccaria, il marchese Giacomo Fagnani. L’impresa curava l’amministrazione del teatro vendendo i posti accessibili al pubblico, curando lo smercio delle bevande, allestendo i tavoli per il gioco d’azzardo.

Sulla Gazzetta di Milano si leggeva questo resoconto pochi giorni dopo l’inaugurazione:

Nella sera di Lunedì scorso giorno 3 del corrente, giusta quanto erasi già da due mesi annunciato, si fece l’apertura di questo nuovo Regio Ducal Teatro colla prima rappresentazione intitolata L’Europa riconosciuta in due Atti…

Non potevasi con pompa maggiore solennizzare un’Epoca di simile pubblica allegria in questa Città. E ben lo meritava la grandiosità, e magnificenza dell’Edificio disegnato ed eretto dal Regio Professore ed Architetto Signor Don Giuseppe Piermarini, il quale mediante il favore di Sua Altezza Reale il Serenissimo nostro Arciduca [l’arciduca Ferdinando di Asburgo Lorena, figlio di Maria Teresa, governatore della Lombardia] e la splendidezza de’ Proprietari de’ Palchetti, lo seppe rendere in questo genere il migliore forse d’Europa.

Frontispizio, solidità, forma, compartimento, grandezza, comodi, ornamenti, proporzione, risonanza, visuale, tutto in esso è ammirabile, tutto grandioso, tutto il meglio all’uso adattato. Corrispondente a sì bella fabbrica è pure il lusso ed il buon gusto, con cui, e ciascun Particolare adornò il proprio Palchetto e la nobile Associazione della teatrale impresa sfoggiò negli ornati e ne’ mobili delle vaste Sale de’ Ridotti; onde senza esagerazione potrebbe assicurarsi non ritrovarsi altrove un pubblico luogo da potersi a questo in ricchezza e beltade uguagliare.

L’apertura di un tal Teatro: il Dramma di composizione nuovo, di genere inusitato: la prima rappresentazione, che da’ nobili Associati dopo l’impegno da loro assunto si esponeva: la notorietà del dispendioso apparecchio, che da lungo tempo questi facevano, erano motivi, che tanto avevano l’universale aspettazione ingrandito, che credevasi difficile il poterla bastantemente appagare. Con tutto ciò lo Spettacolo ebbe un felicissimo incontro, ed il Pubblico restò soddisfatto…

In realtà, l’architettura del teatro sollevò alcune perplessità nei contemporanei. Pietro Verri, in una lettera al fratello Alessandro scritta nel luglio 1778, ammise la sua delusione per la mole dell’edificio il cui loggiato, distaccandosi dalla facciata per consentire il passaggio delle carrozze, spezzava a suo giudizio l’armonia complessiva della fabbrica. Bisogna tener presente che allora non esisteva piazza della Scala, che fu costruita nel 1858 mediante l’abbattimento delle case tra palazzo Marino e il teatro. Verri, passeggiando in via Santa Margherita, non disponeva quindi di spazio sufficiente per ammirare la facciata nella sua interezza, il che finiva per rendergli sproporzionata la mole dell’edificio rispetto all’asse della strada. Verso la fine della lettera, l’illuminista lombardo accennava curiosamente  a “un casotto”, termine con cui si riferiva al tetto, eccessivamente alto.

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Un particolare del quadro di Angelo Inganni, La facciata del Teatro alla Scala, 1852

La facciata del nuovo teatro è bellissima in carta, e mi ha pure sorpreso quando la vidi prima che si mettesse mano alla fabbrica; ma ora quasi mi dispiace. Nel disegno tu vedi la facciata come una sola superficie, nella esecuzione sono tre pezzi. Il portico di bugne si avanza molto, e servendo al passaggio delle carrozze che vanno al teatro ti copre e offusca parte dell’edificio. Se ti scosti poi per vedere scemata la deformità, ti spunta un casotto in cima alla facciata che è poi il tetto assai alto.

Mi chiedo cosa direbbe oggi Pietro Verri se vedesse la colossale torre scenica a forma di cubo o l’edificio a pianta ellittica: due recenti costruzioni che troneggiano sopra il vecchio tetto del teatro.

Alle origini del trasporto pubblico milanese

Oggi ricorre un anniversario importante. L’8 luglio 1876 veniva costituita la prima linea extraurbana di tram a cavalli che collegava Milano con Monza: la società che gestiva il servizio, la SAO (Società Anonima degli Ombibus), operava da alcuni anni nel trasporto cittadino. In quell’estate di 139 anni fa, la società puntava verso traguardi più ambiziosi, attivando linee di collegamento tra Milano e i Comuni circostanti.

Da chi era diretta la SAO e quale fu l’origine del trasporto pubblico milanese? Oggi i trasporti cittadini sono gestiti da Atm, l’azienda municipalizzata del Comune di Milano di cui si servono ogni giorno milioni di cittadini dell’area metropolitana. A quei tempi le cose stavano diversamente.

Omnibus1In una città il cui territorio era limitato alla cerchia dei bastioni, il Comune decise inizialmente di autorizzare servizi di Omnibus, anziché di Tramways. Difatti gli Omnibus, formati da cavalli che trainavano vagoni su ruota, consentivano una maggiore facilità di spostamento all’interno della città ambrosiana, il cui impianto urbanistico medievale era caratterizzato, entro la cerchia del naviglio interno, da una fitta rete di vie strette e tortuose. La SAO, fondata dal cavaliere Emilio Osculati, gestiva dal 1861 il trasporto pubblico cittadino.

Tra i capolinea più frequentati occorre ricordare la piazza antistante alla stazione di Porta Nuova, aperta nel 1864 ove oggi si trova piazza della Repubblica. In piazza Duomo, al civico 23, venne costituita una sala d’aspetto per passeggeri. Le prime vetture erano assai contenute nelle dimensioni: basti pensare che i posti a sedere erano appena otto. Il costo di un biglietto era di 10 centesimi. Le linee urbane non superavano le undici unitò, mentre le vetture in funzione erano appena 35.

Con il passare degli anni furono fabbricati vagoni più spaziosi, il cui numero aumentò considerevolmente. L’annessione a Milano del Comune dei Corpi Santi, avvenuta nel 1873, rendeva necessaria l’attivazione di nuove linee verso i quartieri periferici. Furono così messe a disposizione della società vagoni da 14-16 posti, mentre quelli più piccoli erano riservati ai percorsi in centro.

Omnibus2Ma torniamo a quell’8 luglio 1876, quando il cavaliere Osculati inaugurò la prima linea extraurbana. Il traguardo, come si è detto, era ambizioso: assicurare il collegamento dell’ippovia tra Milano e Monza. La novità risiedeva nel trasporto su rotaia che la SAO intendeva sperimentare nei tragitti fuori Milano, ove le distese dei campi consentivano la posa delle rotaie senza grossi ostacoli. Non era certo la prima volta che si costruiva una linea per quella tratta; com’è noto, il tratto di ferrovia tra Milano e Monza era stato inaugurato nel 1840 sotto il dominio austriaco. Occorre però tener presente che questa ferrovia non era alla portata di tutti. Si capisce quindi come la nuova linea di Omnibus Milano/Monza avesse finito per attirare un notevole interesse nell’opinione pubblica milanese, rendendo possibile lo spostamento dei cittadini tra le due città a costi più contenuti rispetto al treno.

Alla festa d’inaugurazione era presente, oltre al prefetto e al sindaco, il principe Umberto di Savoia. In quell’occasione la SAO tirò fuori i suoi assi migliori: otto vetture di nuova fabbricazione a due piani che, trainate da cavalli, avrebbero percorso il tragitto in poco più di due ore. Le cose però andarono diversamente. Il giornale “La Lombardia”, quantunque avesse cura di descrivere l’evento in toni trionfalistici, informava i lettori di alcuni incidenti dovuti al deragliamento dei vagoni:

Sabato mattina, alle ore 9 partivano per Monza dalla sede della Società Anonima degli Omnibus, a Porta Venezia, otto eleganti carrozze ornate di bandiere, capaci ciascuna di quaranta o quarantacinque persone e pesanti in tutto, veicolo e viaggiatori, cinque tonnellate. Il primo, dove avevano preso posto il Principe Umberto, il Prefetto, il Sindaco e parecchi Assessori e che con gentile pensiero era guidato dall’egregio Direttore della Società, il cavaliere Emilio Osculati, corse in modo assai soddisfacente i tredici chilometri che passano dal punto di partenza alla stazione dei tramway a Monza, non essendovi stato che un leggero sviamento, tosto riparato, in vicinanza di quella città. A pochi minuti di distanza l’uno dall’altro, vi tenevano dietro gli altri sette veicoli, che qual più qual meno, ebbero a subire lo stesso momentaneo inconveniente”.

Il principe Umberto si complimentò con Osculati per l’impegno con cui aveva reso possibile l’attivazione del nuovo servizio extraurbano. In realtà, spente le luci della retorica tesa ad esaltare l’industria nazionale – quattro delle otto carrozze erano prodotte dalla ditta Felice Grondona – quella giornata fu una delusione. L’ippovia aveva impiegato più di tre ore a fare un tragitto su rotaia la cui lunghezza non superava i tredici chilometri. Se ne accorsero subito i milanesi, attenti come sempre a valutare concretamente costi e benefici di una innovazione. Basterà ricordare il sapido ritornello che il direttore dell’Osservatore Cattolico, Don Davide Albertario, scrisse a commento della nuova linea di Omnibus:

Morettina dove vai? Vado a Monza sul tramway…so e giò per i rutai che a Monza el riva mai.

Omnibus3Quando nel 1880 il Comune di Milano decise di costruire le rotaie all’interno della città aprendo finalmente il centro ai tramways, la SAO si aggiudicò il servizio con un contratto triennale che garantiva al Comune una percentuale del 6% sugli utili della società. In occasione della Esposizione Nazionale del 1881, furono attivate le prime linee su rotaia che collegavano piazza Duomo con la stazione di Porta Nuova e con le arterie cittadine più vicine al sito dell’evento: i giardini pubblici di Porta Venezia e via Marina.

Negli anni seguenti la ditta sostituì gran parte dei cavalli con piccole locomotive a vapore per limitare i costi di trasporto. Alla fine degli anni Settanta e nei primi anni Ottanta del secolo XIX la società toccò l’apice del successo.

La parabola discendente arrivò tuttavia inesorabile. Il cavaliere Osculati scomparve in breve tempo dall’industria dei trasporti pubblici. Nel 1883 l’ingegnere Giuseppe Colombo, fondatore della Edison, costruì in via Santa Radegonda, a pochi metri dal Duomo, la prima centrale elettrica europea destinata a cambiare in profondità la vita quotidiana dei milanesi. L’arrivo dell’elettricità fu un evento cruciale perché non portò soltanto all’illuminazione delle vie e delle piazze, ma finì per avere i suoi effetti nei sistemi di mobilità urbana. La Sao non comprese la forza rivoluzionaria dell’elettricità nel campo dei trasporti. La Edison fu invece rapida nello sfruttarne le potenzialità: nel 1892 si aggiudicò il primo servizio di tram a trazione elettrica nella linea piazza Duomo-Corso Sempione. L’anno seguente arrivò l’ondata del successo con 18 linee elettriche, molte delle quali con capolinea in piazza Duomo.

La SAO scompariva. Nel 1900 chiuse l’ippovia Milano-Monza che era stata inaugurata 24 anni prima. Il 5 dicembre 1901 veniva dismesso l’ultimo tram a cavalli.

Perché l’Europa non sa rinnovarsi

A Milano sono sorti i maggiori movimenti politici e culturali, alcuni destinati a rivoluzionare i costumi e gli stili di vita degli italiani, altri ad incidere in profondità nelle strutture politiche e amministrative dello Stato. Gli uni e gli altri tesi a cambiare la società per fondarne una diversa, nel bene e nel male. Milano vide la nascita del socialismo moderato di Filippo Turati, riunito nella Lega Socialista Milanese fondata nel 1889; Milano fu la culla del fascismo di Benito Mussolini, i cui fasci di combattimento vennero fondati in piazza San Sepolcro nel 1919. Ho citato due esempi tra i tanti per mostrare la vocazione riformista e rivoluzionaria di Milano.

Se allarghiamo la visuale alla società del Vecchio Continente, ci accorgiamo che la rivoluzione è stata una costante della storia europea. Molti però si pongono questa domanda: nonostante il progresso tecnologico ci abbia messo a disposizione strumenti che vent’anni fa erano impensabili, perché la rivoluzione è divenuta oggi il grande assente della storia occidentale? Perché al giorno d’oggi sembra non esistere più in Europa la capacità di pensare e operare per un cambiamento delle istituzioni teso a migliorare la condizione di vita dei cittadini per un futuro migliore? Una domanda, se ci pensiamo bene, nient’affatto peregrina in tempi difficili come quelli attuali, caratterizzata da diseguaglianze e ingiustizie ancor più marcate rispetto al passato.

IMG_6249L’interessante libro dello storico Paolo Prodi, Il tramonto della rivoluzione (Il Mulino, Bologna 2015, 119p) cerca di capire le ragioni di questo dilemma. L’autore, riprendendo il pensiero dell’intellettuale tedesco Eugen Rosenstock Huessy, collega il concetto di rivoluzione alla storia dell’Occidente medievale e moderno. Fino ad alcuni anni fa l’Europa si è caratterizzata rispetto alle altre civiltà del pianeta per la presenza nella sua storia di rotture, di movimenti rivoluzionari che, mettendo in discussione le istituzioni esistenti, cercarono di combattere le ingiustizie. Il progresso occidentale – ci dice il professor Prodi – è stato in buona parte il risultato di queste rivoluzioni che ne hanno alterato di volta in volta la struttura sociale e istituzionale.

Questa Europa, segnata dal graduale mutamento delle sue istituzioni, ha un’origine ben precisa. La riforma gregoriana dell’XI secolo aprì agli europei il tortuoso sentiero della libertà politica; spezzò il monopolio del potere in capo all’imperatore o al papa segnando la graduale formazione di un equilibrio pluricentrico: da un lato i poteri secolari (imperatore, principi, città), che governarono i sudditi nella sfera dei rapporti civili in via sempre più autonoma dalla chiesa, dall’altro il potere ecclesiastico, ristretto progressivamente all’esercizio dei sacramenti e alla giurisdizione del foro interiore, della vita religiosa degli europei.

Da questa frattura originaria ebbe origine il pluralismo istituzionale che fece dell’Europa un territorio in continua evoluzione politica e religiosa. Il diritto di resistenza diffuso nell’Occcidente medievale e moderno, in base al quale i sudditi/cittadini avevano il diritto/dovere di ribellarsi ai governanti ove questi avessero violato le leggi e le tradizioni della comunità, sarebbe stato inconcepibile senza la “desacralizzazione” del potere politico, vale a dire la sua separazione dal potere religioso/sacrale.

Nel XVI secolo ci fu la seconda ondata di rivoluzioni, quella delle riforme protestanti che segnò l’avvento di una molteplicità di chiese territoriali, in relazione diversa con i poteri secolari: principi e repubbliche.

Nel corso del Settecento gli Stati europei, ormai distinti dalla persona del monarca, furono interessati dalla terza ondata di rivoluzioni che portò alla separazione dei poteri (legislativo, esecutivo e giudiziario) compiutamente teorizzata, sia pure in forme diverse, nelle carte rivoluzionarie americane e francesi.

Muovendo da un’ottica di lungo periodo, Prodi fa notare tuttavia che la libertà politica in Occidente può esser fatta risalire alla rivoluzione gregoriana: da lì si arrivò poi alla graduale separazione tra sfera del sacro e sfera del profano, tra giustizia di Dio e giustizia degli uomini, tra coscienza personale e diritto positivo, tra peccato e reato.

Questa capacità dell’Occidente di riformarsi continuamente per migliorare l’assetto politico non sarebbe spiegabile senza il contributo fondamentale delle tradizione ebraico-cristiana. Dai tempi di Agostino, dal IV secolo dopo Cristo, “rivoluzione” non indicò soltanto il moto di rotazione degli astri ma venne usato in riferimento al cammino dell’umanità verso la salvezza. Questo segnò il passaggio da una concezione statica, ciclica, immutabile della storia a una dinamica, progressiva, soggetta a mutamento.

Il termine “rivoluzione” in Europa divenne in un certo senso la secolarizzazione della “profezia” ebraico-cristiana, che concepisce la storia come un cammino di salvezza dell’umanità contro i mali del presente in vista di una redenzione che avverrà alla fine dei tempi. Riprendendo una felice espressione del giurista Carl Schmitt, potremmo dire che le rivoluzioni avvenute in Europa nel Sette, Otto e Novecento furono “principi teologici secolarizzati” che portarono al mutamento dei poteri pubblici contro quelle che erano ritenute ingiustizie cui porre fine.

Oggi il problema dell’Europa risiede nella scomparsa di questa sua anima rivoluzionaria, di questa capacità di cambiare la società, di progettare il futuro.

Scrive Prodi:

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Il professor Paolo Prodi

Il mito della rivoluzione è finito. Ma l’Europa, l’Occidente, sono nati e cresciuti come ‘rivoluzione permanente’, cioè come capacità nel corso dei secoli di progettare una società alternativa rispetto a quella presente: ora questa capacità di progettare un futuro diverso sembra esser venuta meno”.

Secondo l’autore questo è dovuto a una serie di cause. In Occidente il progressivo venir meno dei valori delle religioni della salvezza personale (ebraismo e cristianesimo) basate sul principio che l’individuo è un uomo che può salvarsi o dannarsi per le sue azioni terrene ed è quindi sottoposto a un giudizio personale; l’affermarsi di un ordine mondiale fondato unicamente sulla civiltà dei consumi imperniata su un’etica confuciana tesa a cristallizzare gli assetti di potere esistenti mediante una concezione ciclica, immutabile della storia, ove l’ordine politico coincide con l’ordine cosmico. Qui l’influsso della cultura cinese sull’Occidente è stato negli ultimi anni assai più profondo di quanto si possa immaginare.

Il risultato, secondo Prodi, è l’unione del potere politico e del potere economico in una nuova forma di dominio globalizzato, “senza fissa dimora, in Oriente come in Occidente, con sue capitali ma al di sopra dei confini: un nuovo monopolio del potere economico-politico che tende ad affermarsi ovunque, nella nuova configurazione dei mercati finanziari e del consumo”. Il palazzo (del potere) si fonde con il mercato (finanziario) e con il tempio (pagano) in un nuovo ordine in cui l’uomo, privato della possibilità di incidere nella politica degli Stati ormai soggetti alle logiche finanziarie del mercato globale, non ha più alcuna possibilità di agire sulla politica per difendere i suoi diritti civili e sociali.

La terza causa per Prodi si lega alla tecnologia che, sottratta al controllo delle Chiese e degli Stati, tende sempre meno ad elevare la persona e sempre più a costituire un fine in sé stessa, asservita agli interessi dei grandi gruppi finanziari che se ne servono per le applicazioni richieste dal mercato. I social network, costringendo i cittadini alla brevità e all’immediatezza delle forme di comunicazione, rendono più difficile l’elaborazione di quel pensiero argomentato e meditato che era stata propria della civiltà del libro. Difficile avere il tempo di elaborare progetti di riforma delle istituzioni pubbliche in una community dominata dagli spazi di Twitter e Snapchat.

Insomma il quadro dipinto da Prodi è a tinte fosche. Esso vede l’Europa in un declino da cui molto difficilmente potrà uscire. Se la classe politica e le classi dirigenti del Vecchio Continente sapranno recuperare lo spirito di “rivoluzione permanente” per difendere con nuove istituzioni le grandi conquiste della civiltà occidentale (dallo Stato di diritto allo Stato sociale, dai diritti fondamentali dei cittadini al federalismo, dalla separazione dei poteri alla laicità dei poteri pubblici), l’Europa potrà avere un futuro.