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Milano torni ad essere culla del riformismo

Questo articolo è stato pubblicato in versione ridotta su “Il Giorno” del 17 luglio 2021.

Uno dei tratti caratteristici di Milano è la vocazione al riformismo, la capacità delle sue classi dirigenti e politiche di ripensare le istituzioni lavorando per migliorarle con pragmatismo e coraggio. Tale fenomeno è un dato di lungo periodo nella storia della città.

Si potrebbero citare numerosi esempi in proposito. Mi limito a portarne tre emblematici. Nel corso del Settecento in Lombardia i monarchi assoluti realizzarono incisive riforme nel campo dell’economia, del fisco, dell’amministrazione locale, dell’istruzione, della giustizia: furono rese possibili grazie all’impegno di funzionari austriaci, trentini, istriani, toscani, napoletani che operarono a Milano al servizio di sovrani come Maria Teresa e Giuseppe II che li impiegarono nei loro governi esclusivamente per la competenza ed esperienza che avevano dimostrato nei campi in cui si intendeva operare. Un contributo non trascurabile fu reso anche da giovani patrizi milanesi come Pietro Verri e Cesare Beccaria, che nutrivano simpatie per il governo riformatore degli Asburgo e condividevano l’esigenza di svecchiare le istituzioni dei loro padri giudicate inadeguate e barbare. I sovrani absburgici capirono che per reggere il confronto con gli Stati europei più potenti occorreva cambiare il vecchio sistema giuridico-amministrativo, risanare i bilanci pubblici, fare in modo che l’amministrazione fosse meno imbrigliata nella lentezza di procedure di cui non si capiva più il senso. Bisognava puntare unicamente al conseguimento degli obiettivi della monarchia, tra i quali vi era la cura della felicità dei sudditi mediante il buongoverno. Una lezione quanto mai attuale nell’Italia di oggi: mai come in questi anni si sente la necessità di riformare seriamente le istituzioni della repubblica perché possano reggere il confronto con quelle dei migliori Stati europei. Il fine ultimo è sempre lo stesso: per i sovrani illuminati dell’Europa germanica si chiamava Wohlfahrtsstaat (Stato del benessere) per la cura della felicità dei sudditi, oggi è il Welfare State, quel complesso di apparati pubblici tesi a garantire la salute e il bene comune.

Il secondo esempio di riformismo si lega al periodo tra il 1796 e il 1814, agli anni in cui Milano fu capitale di uno Stato cisalpino esteso a una parte rilevante del Nord Italia. A pochi mesi di distanza dall’ingresso del generale Bonaparte nella città del Duomo, l’Amministrazione generale della Lombardia organizzò una delle iniziative più importanti per il tema che qui interessa: si trattava di un concorso in cui decine di intellettuali, provenienti da ogni parte d’Italia, presentarono progetti per la formazione di un Stato italiano esteso a tutta la penisola nella soluzione federale o unitaria a seconda delle varie proposte. Il concorso era intitolato: “Quale dei governi liberi meglio convenga alla libertà d’Italia”. Quel concorso, vinto – com’è noto – dallo statistico ed intellettuale Melchiorre Gioia, si rivelò una delusione per i patrioti perché ben presto Bonaparte rivelò i suoi piani di dominio che cozzavano contro il progetto italiano di unire la penisola facendone una nazione in grado di reggere il confronto con la Francia. 

Il culmine di questa attività riformatrice si ebbe tuttavia nel periodo in cui Milano fu capitale della repubblica e del regno d’Italia napoleonico (1802-1814). Fu in quella stagione che tanti patrioti provenienti da ogni parte della penisola, che avevano combattuto generosamente per la libertà negli anni 1796-1800, vennero a Milano, abbandonarono l’impegno politico, lavorarono come probi funzionari negli uffici della macchina amministrativa voluta da Napoleone: Milano seppe assumere il ruolo di capitale di uno Stato moderno in cui operava una burocrazia efficiente, veloce nell’andamento delle operazioni, attenta al conseguimento dei risultati fissati dal governo, in dialogo costante con i suoi terminali periferici – prefetti e viceprefetti – allo scopo di migliorare l’efficacia dei suoi interventi.

Il terzo caso ci porta a un periodo più vicino a noi, agli anni Sessanta-Novanta del secolo scorso, quando Milano fu una delle città che più si distinsero nel campo del riformismo. Tra i vari centri di ricerca che allora operarono in tale ambito desidero ricordare in particolare modo la fondazione dell’Isap (Istituto per la Scienza dell’Amministrazione Pubblica), avvenuta grazie al sostegno del Comune e della Provincia di Milano nel 1959. Questo diede al Paese uno dei più avanzati centri di ricerca nel campo delle istituzioni politiche, i cui progetti di riforma erano in grado di competere con quelli elaborati dagli uffici legislativi del parlamento e dei ministeri. L’istituto, che ebbe quale primo direttore Feliciano Benvenuti e vicedirettore Gianfranco Miglio, si segnalò fin dall’inizio per l’originalità delle sue pubblicazioni afferenti alla storia dei poteri pubblici, alla loro tipologia, alla scienza dell’amministrazione. L’Isap è stata una fucina di studi in cui hanno lavorato storici e giuristi chiamati a collaborare esclusivamente per la loro professionalità. Si è operato con rigore, seguendo in molti casi il metodo avalutativo che il professor Miglio, riprendendo la memorabile lezione di Max Weber, non cessava di raccomandare agli allievi: la Wertfreiheit, il fermo distacco dello scienziato e dello storico dalle ideologie di qualsiasi colore. Purtroppo l’istituto ha interrotto da alcuni anni la sua attività per mancanza di fondi pubblici.

E’ importante che la prossima amministrazione torni a finanziare questo prestigioso ente di ricerca scientifica: la capitale morale potrà tornare a competere con Roma quale laboratorio di riforme politiche e amministrative. La Milano del futuro deve avere non solo le idee, ma anche gli strumenti per realizzare concretamente il buongoverno al servizio del Paese.