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Riapertura dei Navigli: un’occasione da non perdere

Nello scorso weekend il sindaco di Milano Giuseppe Sala si è recato a Chicago per partecipare a un convegno sulle “Urban Waterways”. Invitato ad intervenire dal sindaco di Chicago Emanuel Rahm, Sala ha parlato delle grandi opportunità che la riapertura dei Navigli potrebbe portare a Milano nell’incremento del turismo e nel decisivo miglioramento della qualità della vita urbana grazie alla fruizione di più ampi spazi pubblici fatti di verde e di canali.

La riapertura di quasi otto chilometri di naviglio in via Melchiorre Gioia e in centro città, garantendo il collegamento della Martesana con la Darsena di Porta Ticinese, renderebbe possibile la realizzazione di un grande progetto di navigazione turistica su scala milanese, regionale e perfino europea: difatti, qualora fosse realizzata tale opera, uno svizzero di Locarno, un italiano che vive sul Lago di Como, un turista del Lago Maggiore potrebbero raggiungere il centro di Milano attraversando con un servizio di battelli i Navigli Grande, Pavese e Martesana resi completamente navigabili. Si capisce quindi come la riapertura dei questi otto chilometri di canale, in città e in centro città, sia vitale per la riattivazione dell’intero sistema dei navigli lombardi.

Nyhavn
Nyhavn, antico porto di Copenaghen in centro città

La città ambrosiana potrebbe disporre di un’altra risorsa importante per la promozione turistica del territorio in campo internazionale: Milano sarebbe non solo una città lavorativa che potrà contare su una invidiabile rete di trasporto pubblico (con la M4 sarà possibile raggiungere il centro da Linate in 15 minuti!); con la riapertura dei navigli la metropoli ambrosiana sarebbe  attraente sotto il profilo della vivibilità e dell’ambiente: la rete dei canali, riattivata da Pavia fino ai Laghi, consentirà di competere ad armi pari con metropoli quali Amsterdam, Copenaghen, Amburgo e San Pietroburgo. Assieme ai più ampi spazi di verde pubblico che saranno resi possibili grazie al recupero dei sette scali ferroviari, la disponibilità di una rete di canali navigabili metterà Milano nelle condizioni di essere non solo una metropoli del business, ma anche una città in grado di offrire una elevata qualità di vita urbana come città d’acque e del verde.

Perché questo si avveri tra qualche anno, è tuttavia importante che i milanesi partecipino in massa al referendum che l’amministrazione comunale ha indetto in autunno e votino Sì al progetto di riapertura dei navigli. Il costo del progetto, che era stato stimato inizialmente a 400 milioni di euro, è stato da alcuni esperti ridimensionato a poco più di 200 milioni per il risparmio che ad esempio l’utilizzo dei cantieri della M4 in centro città potrebbe recare all’opera di scavo e di apertura del nuovo canale. Il Sindaco Beppe Sala, che è uomo concreto e tutt’altro che sprovveduto, intende disporre però di una stima il più possibile attendibile dei costi. A tal fine ha formato una squadra di esperti che si esprimerà nei prossimi mesi consentendogli di porre i milanesi dinanzi a un progetto preciso ove saranno indicati i costi veri e propri e i mezzi per farvi fronte. La riapertura dei navigli, com’era prevedibile, ha diviso la città in favorevoli e contrari.

Piazza Vetra con il Naviglio
Come sarebbe il Parco delle Basiliche (dietro San Lorenzo e Sant’Eustorgio) con il Naviglio riaperto

Come Urbanfile ha già evidenziato in un post del 14 marzo scorso, la direttrice del Master turismo in Bocconi, Magda Antonioli, ha sottolineato i benefici della riapertura sotto il profilo del turismo e soprattutto dell’accresciuta valorizzazione di alcune zone periferiche: basti pensare al parco della Biblioteca degli Alberi, a piazza Gae Aulenti e al quartiere City Life in via Melchiorre Gioia; in centro città vi sarebbe invece un’ulteriore attrazione turistica grazie al nuovo canale (la cui larghezza media sarebbe di sette metri) in punti che ancora riflettono la struttura urbanistica dell’antico naviglio: via San Marco in zona Brera; piazza Cavour-via Senato vicino al viale alberato di via Marina a due passi dai giardini pubblici di via Palestro e dal parco della Villa Reale; via Francesco Sforza vicino al parco della Guastalla e dietro all’Università Statale; via Molino delle Armi lungo il parco delle Basiliche tra San Lorenzo e Sant’Eustorgio; via Conca del Naviglio e via De Amicis a pochi metri dal parco dell’Anfiteatro romano.

Non sono mancati però i critici. Luca Beltrami Gadola, in un post del 15 marzo pubblicato sul sito Arcipelago Milano, ha ironizzato sul balletto di cifre in merito ai costi della riapertura. Inoltre, ha fatto osservare che le spese per la manutenzione dei canali sarebbero assai alte, come già è dimostrato – a suo giudizio – da quanto è avvenuto per la Darsena di Porta Ticinese.

“Alle proteste dei residenti e dei promotori del restauro della Darsena, spazio pubblico per eccellenza, il Comune pare abbia risposto che bisogna pur cavare qualche soldo per coprire le spese di gestione, pulizia e manutenzione della Darsena stessa spese che sembra assommino a quasi un milione di euro ogni anno. Il bando era con una base di 35.000 euro. Lungo il cammino da trentacinque al milione!”. Beltrami Gadola si chiede quanto costerà la manutenzione dei nuovi canali.

Amsterdam King's Day Boats
Quest’anno la tradizionale festa King’s Day Boats si terrà ad Amsterdam il 27 aprile!

La domanda è fondata. Sarà interessante nei prossimi mesi leggere la relazione della squadra di esperti messa in campo per volontà del Sindaco Sala. Una cosa però è certa: i canali costano come dappertutto. Lo sa bene chi abita ad Amburgo, a Copenaghen, a Venezia.  Della loro manutenzione se ne occupa il Comune mediante l’impiego delle risorse pubbliche ricavate dalle tasse locali. Può anche succedere tuttavia che il servizio sia gestito da un’azienda privata. E’ il caso di Amsterdam, dove gli interventi sulle fogne e sui canali sono gestiti non solo dal Comune mediante una tassa comunale (la gemeentebelasting), ma anche da una società privata, la Waternet, alla quale i cittadini pagano i servizi di pulizia delle acque (zuiveringsheffing), di pulitura dei canali e del mantenimento del livello d’acqua sufficiente alla navigazione. La Waternet garantisce peraltro a 1 milione e 200.000 olandesi l’accesso alla rete di acqua potabile e garantisce una rete di acque pulite nelle città, nei fiumi e nei laghi intervenendo costantemente alla loro manutenzione. I servizi costano e si pagano dunque, com’è ovvio che sia. I benefici però sono sotto gli occhi di tutti. Nessuno si sognerebbe di recarsi ad Amsterdam, a Copenaghen, a San Pietroburgo, a Venezia senza fare il giro dei canali lungo la città e i suoi dintorni. Milano può ambire a questo? Certamente sì: lo dimostra la sua storia, ove i navigli in centro città e in campagna, sono stati per secoli una infrastruttura fondamentale per l’economia del territorio e possono continuare ad esserlo per l’industria turistica. Non si capisce per quale motivo Milano non possa tornare ad essere il cuore dei Navigli lombardi.

Battelli sul canale di Amsterdam
Gite in pedalò e in battello in un canale di Amsterdam

Ma torniamo al caso di Amsterdam: nei canali sono in via di sperimentazione alcuni battelli-robot che, oltre a provvedere alla pulizia delle acque, fungono da ponti provvisori per il passaggio delle merci e delle persone in occasione di eventi speciali in cui la città è sovraffollata. Una soluzione che si potrebbe applicare anche a Milano in un futuro non troppo lontano: penso alla settimana della moda o del design. Insomma, nulla vieta che questo connubio tra acqua e tecnologia possa essere sperimentato anche da noi per la manutenzione dei canali.

Via Fatebenefratelli
Come potrebbe essere via Fatebenefratelli all’incrocio con via San Marco se venissero riaperti i Navigli

Questo tuttavia potrà avvenire solo se passerà il referendum sulla riapertura dei navigli, fissato in autunno. L’operazione, com’è ovvio, avrà i suoi costi ma consentirà alla città di tornare a disporre di una rete di canali invidiabile, i cui benefici sul piano dell’industria turistica, dell’ambiente e della qualità della vita saranno tali da ripagare ampiamente le risorse impiegate. I Navigli sono il cuore di Milano. Una Milano senza la sua cerchia interna è una Milano senza cuore. Rendiamoci conto di cosa ci giochiamo con il referendum sulla riapertura.

L’importanza delle autonomie

E’ di grande interesse il nuovo numero dell’Annale Isap “Storia Amministrazione Costituzione” 2016. L’Isap, Istituto per la Scienza dell’Amministrazione Pubblica, venne fondato nel 1959 per impulso di Feliciano Benvenuti e Gianfranco Miglio: è un ente, con sede a Milano in Piazza Castello 3, specializzato nell’analisi storica e comparata delle istituzioni pubbliche. Tra le varie pubblicazioni, l’Annale “Storia Amministrazione Costituzione” contiene saggi afferenti alla storia delle istituzioni politiche e amministrative.

L’Annale 2016 presenta in apertura due documenti, redatti a Milano, su cui vorrei soffermarmi. Risalgono entrambi agli anni della Resistenza armata nel Nord Italia contro il nazifascismo. Sono per lo più sconosciuti al pubblico: il primo è la lettera aperta della Segreteria del Partito d’Azione dell’Alta Italia al comitato esecutivo del partito dell’Italia Centro Meridionale, risalente alla fine di ottobre del 1944; il secondo è un’altra lettera aperta del Partito d’Azione, rivolta questa volta a tutti i partiti aderenti al Comitato di Liberazione Nazionale, pubblicata su “Italia libera” il 30 novembre 1944. Segue un saggio del Direttore dell’Isap, il professor Ettore Rotelli, dal titolo Resistenza non costituente (pp.25-83), in cui viene svolta un’analisi del contesto politico e sociale in cui maturò la stesura delle due lettere.

La parte a mio avviso più importante di questo saggio è quella in cui il professor Rotelli esamina le ragioni che portarono all’insuccesso del programma di riforma del Partito d’Azione dell’Alta Italia: un programma, illustrato nel dettaglio nella seconda lettera del 30 novembre, che poggiava sulla convinzione che una repubblica democratica non potesse prescindere da un ordinamento fortemente autonomistico, federale nel metodo, che seppellisse definitivamente le istituzioni centraliste di ascendenza napoleonica che erano state proprie non solo dello Stato italiano fascista, ma anche di quello pre-fascista.

Quale utilità può rivestire oggi la lettura di questi documenti? Almeno due. In primo luogo aiutano a capire quale alternativa vi fosse alla restaurazione dello Stato italiano accentrato decisa dai partiti politici negli anni del dopoguerra. La Costituzione italiana del ’48 e la riforma costituzionale del 2001 fanno dell’Italia una repubblica democratica unitaria informata ai principi del decentramento e dell’autonomia. Però le autonomie territoriali non sono state coerentemente sviluppate; gli apparati burocratici centrali e periferici dello Stato sono ancora in funzione, in molti casi con poca utilità per i cittadini. Se abbiamo a che fare con un’amministrazione pubblica e una burocrazia professionale lenta e inefficiente, troppo spesso non al servizio della collettività, rinchiusa in un formalismo giuridico che mette fatalmente in secondo piano il conseguimento del risultato; se il calo di consensi nei confronti dei partiti politici nazionali ha raggiunto livelli altissimi perché troppo spesso estranei ai bisogni dei cittadini; se l’Italia è uno dei paesi a più basso tasso di senso civico e di cura per la cosa pubblica, questo è dovuto al fatto che alle origini della Repubblica, in quegli anni drammatici eppur così ricchi di proposte di riforma politica, non si volle costruire lo Stato dal basso, partendo dalle istituzioni rivoluzionarie che avevano saputo reggersi responsabilmente in piena autonomia e libertà negli anni della guerra. Si scelse di restaurare l’ordinamento dello Stato prefascista.

Queste lettere mostrano che il Partito d’Azione – unico partito ad essersi sciolto dopo la fine della guerra – credeva nella necessità di fondare una Repubblica fortemente autonomista che mandasse al macero tutte le istituzioni burocratiche e accentrate dello Stato fascista e pre-fascista.

Questi documenti aiutano a capire quanto fosse importante per i maggiori esponenti del Partito d’Azione dell’Alta Italia (da Leo Valiani ad Altiero Spinelli, da Riccardo Lombardi a Vittorio Foa) che nella penisola venisse costituita una repubblica autonomistica che abituasse gli italiani a prendersi cura della cosa pubblica mediante una diretta partecipazione dei cittadini a forti istituzioni territoriali democratiche.

In secondo luogo, se pensiamo alla riforma costituzionale bocciata il 4 dicembre scorso ove le autonomie regionali erano fortemente limitate a vantaggio dello Stato centrale – uno dei difetti più vistosi in una riforma che per il resto presentava molti elementi positivi – diventa ancor più importante capire le ragioni delle autonomie e del federalismo.

Adriano_Olivetti_fotoritratto
Adriano Olivetti (1901-1960)

Il Partito d’Azione dell’Alta Italia riteneva che il vecchio Stato centralistico, ove l’amministrazione degli enti locali era soggetta ai controlli di merito e di legittimità dei prefetti (funzionari dell’amministrazione periferica del governo centrale), fosse uno dei maggiori responsabili del malgoverno: questo tipo di Stato aveva abituato gli italiani a non prendersi cura della cosa pubblica, a rinchiudersi nella cura dei loro interessi particolari lasciando a una classe politica, spesso non all’altezza del suo ruolo, la libertà di governare e di spadroneggiare senza alcun freno. Pochi mesi prima che fosse scritta la prima lettera aperta, il 17 luglio, Luigi Einaudi aveva pubblicato su “L’Italia e il Secondo Risorgimento”, supplemento settimanale della “Gazzetta Ticinese”, il celebre articolo Via il Prefetto! Nel Partito d’Azione dell’Alta Italia e in molti intellettuali e imprenditori vicini a quel partito, come ad esempio l’ingegnere Adriano Olivetti, si riteneva prioritaria una riforma costituzionale che si ponesse in netta discontinuità con l’ordinamento unitario dello Stato fascista e prefascista.

Olivetti, nello Schema preliminare di trasformazione dello Stato unitario in Stato federale, inviato ad Altiero Spinelli, risalente all’incirca alla metà di dicembre 1944, proponeva di costituire grandi enti comunali realmente dotati di autonomia finanziaria e amministrativa, le Comunità, la cui popolazione avrebbe dovuto attestarsi sui 90.000 abitanti. Scomparse le Province, occorreva però costituire, oltre alle Comunità, “Stati regionali” governati da Consigli di Stato che – un po’ come avveniva nella Svizzera articolata in Cantoni autonomi – avrebbero gestito quelle funzioni pubbliche che le Comunità non avrebbero potuto assolvere in modo efficace: proseguendo con metodo federale, a loro volta i governatori degli “Stati regionali” Piemonte, Liguria, Lombardia, Veneto, Emilia Romagna, avrebbero partecipato al governo centrale di Roma ricoprendo la carica di ministri senza portafoglio.

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Leo Valiani (1909-1999)

Leo Valiani, autore di entrambe le lettere aperte, svolgeva l’ufficio di Segretario del Partito d’Azione dell’Alta Italia. In questi documenti, svolgendo argomentazioni che si ponevano su alcuni punti in sintonia con il pensiero di Einaudi e di Olivetti, riteneva che un autentico ordinamento autonomistico avrebbe salvaguardato la libertà e la democrazia spazzando via i “vecchi rottami” dello Stato fascista e pre-fascista. La proposta era di partire dai Comitati di Liberazione Nazionale (CLN) facendone la pietra di base delle autonomie per la futura vita democratica: formati da esponenti dei cinque partiti antifascisti (comunista, socialista, azionista, liberale, democratico cristiano), i CLN si erano costituiti in ogni Comune, Provincia e Regione agendo in clandestinità e operando, nei territori liberati, come autonome amministrazioni territoriali. Valiani intendeva aprire i CLN alla partecipazione degli organismi di massa della società civile per fondare le basi del nuovo Stato autonomistico.

La situazione tuttavia era completamente diversa nell’Italia centro-meridionale. Qui, ove la liberazione dal dominio nazifascista era avvenuta già nel 1943-44, il governo Bonomi, formato dai partiti antifascisti, si era servito degli apparati burocratico amministrativi del vecchio Stato centralizzato, limitandosi a sostituire i vecchi prefetti fascisti con personale di carriera. Nulla era stato fatto per cambiare la natura unitaria e centralizzata dello Stato.

Scriveva Valiani nella prima lettera aperta risalente alla fine di ottobre 1944 commentando i provvedimenti presi dal governo di Roma nell’Italia del Centro-Sud:  

Noi disapproviamo completamente il modo con cui si è proceduto alla ricostruzione dello Stato italiano. E’ stato il peggiore cui si potesse ricorrere. Si è proceduto con un metodo autoritario alla ricostruzione di un partito autoritario. Il governo, formato dalla coalizione di partiti, genera dall’alto tutti gli organi amministrativi; nomina prefetti e sindaci ed è privo di qualsiasi legame organico con il popolo. Quali che siano le intenzioni dei ministri, un tale procedimento non può [che] riprodurre il tipo malsano di stato centralizzato e centralizzatore, che il fascismo aveva potenziato, e che preesisteva al fascismo, e che non è certo un modello a cui tornare.

[Lettera della Segreteria del Partito d’Azione dell’Alta Italia al comitato esecutivo del partito dell’Italia centro-meridionale, fine ottobre 1944, in «Annale ISAP», 2016, pag.7].

Queste lettere ci mostrano in altri termini quanto fosse profonda la frattura politico istituzionale tra le due Italie: nel Centro-Sud, liberato dagli anglo-americani, si era conservato lo Stato monarchico con i suoi apparati amministrativi di ascendenza napoleonica risalenti a prima del fascismo e che il fascismo aveva potenziato: in primis le prefetture; al Nord invece, ove, in seguito all’armistizio dell’8 settembre 1943, era stata costituita per volere di Hitler la Repubblica di Salò sotto controllo nazi-fascista, i partigiani operavano in brigate e riuscirono in molti casi ad occupare porzioni del territorio amministrandole in modo autonomo mediante i CLN; in alcuni casi, riuscirono a costituire vere e proprie Repubbliche Partigiane come nel Friuli, nella Val d’Ossola, nella Carnia, in Valsesia o nel Monferrato; in altri, come in Toscana, il CTLN (Comitato Toscano di Liberazione Nazionale), aveva esercitato poteri di governo provvisorio dal 2 al 16 agosto 1944, in particolar modo dopo la liberazione di Firenze avvenuta l’11 agosto. Qui il CTLN, ove grande influenza ebbe lo storico e critico d’arte Carlo Ludovico Ragghianti, aveva espresso il netto rifiuto del prefetto come istituzione autoritaria e si era identificato come “Regione e autonomia regionale” in opposizione all’ordinamento centralistico dello Stato unitario.

Come il professor Rotelli lascia intendere nel titolo del suo contributo, Resistenza non costituente, il programma autonomista del Partito d’Azione non fu accolto né dal Comitato centrale del Partito a Roma né dagli altri partiti antifascisti cui era diretta la seconda lettera del 30 novembre 1944. L’elezione dell’Assemblea Costituente nel 1946, la stesura della nuova Carta costituzionale entrata in vigore nel 1948, segnarono senza dubbio uno spartiacque rompendo con il vecchio ordinamento monarchico centralizzato. La struttura burocratica dello Stato italiano rimase però intatta. Non solo alcune istituzioni previste dalla Costituzione del ’48 dovettero attendere molto tempo per essere realizzate: pensiamo ad esempio alle Regioni, istituite solo nei primi anni Settanta con competenze e funzioni assai limitate. Non solo l’ordinamento comunale e provinciale continuò ad essere disciplinato fino al 1990 da una legge di epoca fascista che ereditava quella centralistica del 1865 (testo unico del 1934). La struttura burocratica dello Stato è restata in piedi fino ad oggi, come si vede dal numero spropositato dei ministeri a Roma che si occupano di materie che le Regioni (o le Macroregioni) potrebbero disimpegnare in modo più efficace: dall’agricoltura ai trasporti, dall’istruzione primaria e secondaria all’ambiente. Il conferimento di tali competenze amministrative a grandi enti territoriali era già presente nei progetti liberali elaborati da Cavour, Farini e Minghetti.

Aver rifiutato fin dall’inizio il programma del Partito d’Azione dell’Alta Italia – il solo partito rivoluzionario, come ricordava Altiero Spinelli, che non teorizzi la conquista del potere centrale come mezzo per la realizzazione del suo programma – significò produrre una Repubblica unitaria parlamentare ove al centro, a Roma, nel Parlamento e nel Governo, i partiti nazionali, lontani dall’avere un rapporto diretto con i bisogni dei cittadini, si perdono spesso nelle inutili polemiche della lotta politica: partiti troppo sensibili alla conquista di un potere che la forma unitaria (non federale) dello Stato realizza in dimensioni troppo vaste. Si tratta di un tema, come si può facilmente constatare, di enorme importanza per la società di oggi.

La strana magia delle palme milanesi

In questi giorni l’attenzione dei milanesi sembra essersi focalizzata sulle palme in piazza del Duomo. La cosa è davvero strana perché il tema è letteralmente esploso sui social. L’opinione pubblica è spaccata: i favorevoli – che secondo i sondaggi di Corriere della Sera e Repubblica sarebbero in minoranza – fanno notare che le palme conferiscono alla piazza un’anima esotica e originale.

Lo spazio è stato affittato dal Comune a Starbucks, che ha vinto il bando di sponsorizzazione per i prossimi tre anni. All’azienda americana, che aprirà nel 2018 un megastore nel palazzo delle Poste di piazza Cordusio, si deve la scelta audace del piccolo giardino di palme di fronte alla cattedrale, opera dell’architetto Marco Bay.

Il Sindaco Beppe Sala si mantiene cauto. Lascia trasparire una certa simpatia per l’idea: “certo che Milano osa eh…” scrive sul suo profilo Instagram, ma aspetta di vedere quale sarà la reazione dei milanesi nei prossimi mesi.

Certo, contrariamente a quanto affermano gli oppositori al “progetto palme”, i precedenti storici di questa scelta esistono e sono numerosi. A fine Ottocento la piantumazione di alberi tropicali nelle vie e piazze cittadine era diffusa per quel gusto dei paesi esotici che allora, in piena epoca coloniale, non mancava di affascinare gli europei.

A Bergamo ad esempio le palme erano presenti in via Tasso. Occorre poi ricordare le splendide ville che si affacciavano sui laghi Maggiore e di Como, ove le famiglie della nobiltà e della ricca borghesia industriale lombarda fecero a gara per impreziosire i parchi con specie arboree ricercate e originali.

 Per la piazza del Duomo di Milano possiamo risalire addirittura alla fine dell’Ottocento, quando fecero la loro comparsa alcune palme basse attorno alla statua di Vittorio Emanuele II (vedi la foto in testa a questo articolo). 

Wladimiro, un assiduo e affezionato lettore del mio blog, ha chiesto un mio parere sull’argomento. Non sono un esperto di architettura e neppure di giardini. Devo dire però che a me non dispiacciono le palme. Non è vero che queste piante siano estranee alla storia di Milano, come vanno dicendo i numerosi contestatori.

Tra la fine dell’Ottocento e i primi decenni del Novecento le palme iniziarono a fare la loro comparsa nel panorama urbano: non solo arricchirono il verde cittadino, ma conferirono una veste inedita a spazi privati e pubblici. 

Dal momento che la missione del Monitore è di richiamare all’attenzione del pubblico aspetti poco noti della storia milanese, porto due esempi di palme esistenti a Milano tra  la fine dell’Ottocento e i primi del Novecento.

Il primo riguarda un giardino privato oggi scomparso. Si tratta del vasto parco della villa Melzi d’Eril che si estendeva tra via Manin e via Moscova fin quasi a confinare con la chiesa di Sant’Angelo dei Minori Osservanti. Una foto scattata alla fine dell’Ottocento mostra uno chalet nel parco in occasione del ricevimento organizzato dalla contessa Josèphine Melzi-Barbò alla presenza del re d’Italia Umberto I.

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Come si può facilmente constatare, davanti allo chalet c’erano diverse palme e piante esotiche. Paolo Mezzanotte e Giacomo Bascapé, nella loro monumentale opera Milano nell’arte e nella storia, ricordavano come il giardino di palazzo Melzi “si offriva generosamente all’ammirazione dell’osservatore…ridente di fiori e di piante ornamentali, esotiche e nostrali”. Nel 1928 questo spazio verde, un vero e proprio parco del tutto rapportabile per estensione ai giardini pubblici di Porta Venezia, venne distrutto. In gran parte dell’area fu costruito il palazzo della Montecatini, opera di Gio Ponti.

IMG_3186Il secondo esempio si lega invece alla Milano dei Navigli. In questa foto vediamo vicino al Naviglio interno, all’altezza dell’incrocio tra via Senato e corso Venezia, uno spazio occupato da una piccola casa ove operavano probabilmente gli addetti alla conca di navigazione. Dietro alla casa, a sinistra, si vede una palma. La fotografia risale ai primi anni del Novecento.    

Rebus Elezioni 2013

La bomba di Grillo fa strage a sinistra, Berlusconi resuscita grazie all’autogol di Giannino e al frigidaire di Monti. Senato a destra, Camera a sinistra e Grillo nel mezzo…