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La Madonnina e il “berretto di pulcinella”

La Madonnina sulla guglia più alta del Duomo è forse il simbolo della città più caro ai milanesi, che a lei hanno guardato nei momenti più difficili della loro storia. Eppure, quando fu costruita, vi fu chi criticò fortemente quel monumento.

Partiamo dalle origini. L’idea di collocare una statua della Vergine Maria sulla guglia più alta del Duomo fu di Francesco Croce, l’architetto che nel 1762 aveva ricevuto l’incarico di costruire la guglia maggiore. Tre anni dopo, Croce propose di issare sulla sommità una statua della Madonna circondata dagli angeli. Com’è noto, l’artefice della statua fu Giuseppe Perego, che nel 1769 lavorò a tre soluzioni alternative: la prima prevedeva che alla base vi fosse una vasta schiera di cherubini e angeli tra le nubi; nella seconda ipotesi vi sarebbero stati alcuni angeli ai piedi della Vergine; il terzo progetto – quello che ricevette il via libera delle autorità – era incentrato pressoché interamente sulla figura di Maria.

I lavori iniziarono nell’estate di quell’anno: ad assistere il Perego furono l’intagliatore Giuseppe Antignati per la struttura in legno e un certo fabbro Varino che lavorò allo scheletro in ferro. Si decise quindi di coprire il modello di legno con lastre di rame, battute e montate dall’orefice Giuseppe Bini. Per la doratura, su consiglio del celebre pittore Anton Raphael Mengs, furono utilizzati 156 libretti, ognuno dei quali formato da due fogli d’oro zecchino.

Quattro anni dopo, nel 1773, i lavori erano terminati. Eppure, per quelle strane circostanze di cui la storia ci rende spettatori, la statua non fu collocata sulla guglia. Per un anno rimase nel palazzo della Veneranda Fabbrica del Duomo: oltre ai pericoli costituiti dalle folate di vento, si temeva che le lastre di rame attirassero i fulmini.

Quale fu la reazione dei milanesi? E’ probabile che l’entusiasmo avesse coinvolto gran parte dei sudditi lombardi dell’imperatrice Maria Teresa. L’opinione pubblica restava tuttavia divisa. La prosecuzione dei lavori di costruzione del Duomo secondo lo stile gotico aveva suscitato viva opposizione presso molti uomini di cultura. In un periodo – la seconda metà del Settecento – caratterizzato dall’avversione per i vecchi monumenti dell’età medievale ritenuta dagli illuministi un’epoca di barbarie e d’inciviltà, l’architettura con cui si andava edificando la sommità della cattedrale era criticata severamente, fuori tempo in un’epoca in cui si andavano affermando i moduli stilistici del neoclassicismo. Del tutto indicativa in proposito la posizione assunta dai fratelli Pietro e Alessandro Verri.

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Pietro Verri (1728-1797)

Quando la guglia maggiore fu ultimata dal Croce, nel 1770, Pietro non esitò a definirla “sconcia cosa in architettura”, mentre Alessandro la paragonò ironicamente a un “berretto da pulcinella”. Nove anni dopo Pietro, in una lettera al fratello, lo informava che un fulmine era caduto “sul gran clistere” sopra la cupola del Duomo: il gran clistere era la guglia del Croce.

Critiche ancor più serrate erano rivolte alla Madonnina. Alessandro si espresse in modo particolarmente duro rilevando “l’empietà di aver posta la Santissima Vergine incomoda e sconcia in quell’atto tra i fulmini”.

Con buona pace dei fratelli Verri, la statua fu collocata alla fine in cima alla cattedrale. Il 30 dicembre 1774 il rettore della Fabbrica del Duomo comunicava di aver finalmente collocato la Vergine dorata sulla guglia maggiore “col plauso universale” dei milanesi.

Giovanni Visconti Venosta
Giovanni Visconti Venosta (1831-1906)

Da allora la Madonnina entrò lentamente nell’immaginario collettivo come simbolo della città. Visto che ci avviciniamo all’anniversario delle Cinque Giornate di Milano, non sarà fuori luogo concludere questo articolo ricordando le toccanti riflessioni del marchese Giovanni Visconti Venosta. Questi, nel suo libro di memorie, rammentava come i milanesi del ’48 avessero più volte sollevato lo sguardo verso la sommità del Duomo, quasi a voler cercare la protezione della Vergine perché li aiutasse nei momenti difficili. Gli occhi erano puntati sulla statua di Maria e sulla bandiera tricolore che i rivoluzionari, durante la terza giornata di combattimenti, erano riusciti a far sventolare dall’alto di quella guglia:

E tutti, ogni tanto, alzavano gli occhi in alto, nella direzione della più alta guglia del Duomo, sulla quale sta la statua della Vergine, con cui i milanesi sono in grande confidenza, come col genio tutelare della casa, e la chiamano la Madonnina. Essa vede da tanti anni le nostre gioie e i nostri dolori; situata sì in alto, pare più vicina al cielo, al quale i milanesi amavano sperare che dicesse in quei momenti una buona parola per loro. Quando, nella terza giornata della rivoluzione, si vide sventolare in mano alla Madonnina la bandiera tricolore, nessuno dubitò più della vittoria. Da tutta la città si levò un grido di trionfo e di gioia, come se la Madonnina avesse fatto causa comune con noi, e avesse preso Milano sotto la sua protezione.

[Giovanni Visconti Venosta, Ricordi di gioventù, Milano, Cogliati 1906, pag.94]

Il “Piemontesino”, un giovane annegato in un ‘gorgo’ del naviglio e due fittabili derubati all’osteria

Sotto la data 2 agosto 1821 il canonico Luigi Mantovani riportava nel suo diario alcune notizie della Milano austriaca che potremmo ricondurre ai fatti di cronaca.


Un ‘famoso’ malvivente, conosciuto come “Piemontesino”, venne arrestato dai gendarmi nel “casotto” dell’Ospedale Maggiore. Il Mantovani si riferiva al “cassinotto” della Cà Granda, un edificio assai rustico che occupava una parte dell’attuale largo Richini, davanti all’Università Statale nel sestiere di Porta Romana. Il “cassinotto” venne demolito nel 1848 dagli insorti delle cinque giornate di Milano, che ne utilizzarono il materiale per costruire le barriccate.

Il secondo avvenimento della giornata riguardava l’annegamento di un giovane nelle acque del Naviglio nel sestiere di Porta Ticinese, il che mostra assai bene come le acque dei navigli fossero un tempo assai profonde.

La terza notizia era la più curiosa. Riguardava due fittabili che furono derubati da un ladro il quale poté agire ‘indisturbato’ grazie alla complicità di un oste. I fittabili erano imprenditori agricoli che gestivano proprietà terriere di dimensioni spesso notevoli. Nei territori della bassa pianura padana erano legati ai proprietari da un contratto di affitto di durata novennale. La gestione dei terreni con metodi imprenditoriali consentì ai fittabili di costituire autentiche aziende agricole dalle quali ricavare elevati margini di guadagno. Non stupisce che fossero presi di mira da ladri e malfattori.

“2 agosto 1821

Ieri mattina al così detto casotto vicino all’ospitale fu preso da travestiti giandarmi (sic!)  un ladro detto il Piemontesino, che aveva sotto un abito assai pulito due pistole ed un coltello.

Ieri dopo pranzo alla Madonna fuori Porta Ticinese, di tre giovinotti che nuotavano nel Naviglio uno fu involto in un gorgo, e non si è potuto aiutare. Egli ha 20 anni ed è impiegato del governo.

Al mezzogiorno due fittabili, che in vista d’un birbante avevano venduto del frumento [qui il Mantovani intende dire che il birbante li vide mentre vendevano il frumento, NdR], entrarono in un bettolino per bevere (sic!) un boccale di vino. L’oste disse: “Per dargli del meglio vado a cavarlo”. Lo sparire dell’oste, e entrare un birbante fu un momento. Questi con pistola alla mano investì i due seduti fittabili, e non comparendo mai l’oste, dovettero dare al birbante alcuni scudi. Fu arrestato l’oste, perché creduto connivente, non essendo rinvenuto dalla cantina, se non dopo sparito il birbante”.


L. MANTOVANI, Diario politico ecclesiastico, a cura di Paola Zanoli, Roma, Istituto storico italiano per l’età moderna e contemporanea, vol.V, pag. 265.