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Perché Guenzati deve restare dov’è

In una vecchia guida di Milano pubblicata nel 1838 si consigliava una passeggiata con partenza dal lato nord della piazza dei Mercanti, nel punto in cui si dipartiva l’antica contrada dei Fustagnari, uno dei vicoli del centro che consentiva a quei tempi di raggiungere il Cordusio. Contrada dei Fustagnari: “nome applicabilissimo anche ai giorni nostri” scriveva l’anonimo estensore del libretto “per la preponderante quantità di fustagni che vi si vende” [Guida di Milano in otto passeggiate, Milano 1838, ristampa a cura de Il Polifilo, 2005, pag.131].

Quando ho saputo che la ditta Guenzati è soggetta a una procedura di sfratto perché le Assicurazioni Generali non intendono rinnovare l’affitto, il pensiero è corso subito alla storia di questo piccolo isolato compreso tra le vie Orefici, piazza Cordusio e via Mercanti; una zona ove operò fin dal Medioevo una borghesia mercantile specializzata nella vendita dei tessuti. Guenzati costituisce l’ultima preziosa testimonianza di quella storia milanese. Il Fai ha organizzato una raccolta firme affinché l’azienda non sia costretta a lasciare la sua storica sede. L’assessore alle politiche del lavoro, attività produttive, commercio e risorse umane, Cristina Tajani, ha visitato il negozio mostrando l’attenzione della giunta Sala al tema della salvaguardia dei negozi storici.

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Progetto del 1878 relativo alla demolizione di una parte del fabbricato Guenzati tra via Mercanti e via Fustagnari per i lavori della nuova Via Mercanti. Ringrazio Luigi Ragno per avermi permesso di fotografare questo documento.

Oggi Guenzati è una ditta di alta qualità, particolarmente apprezzata da una raffinata clientela composta non solo da milanesi, ma anche da tanti cittadini italiani e stranieri che da anni apprezzano la vasta scelta degli articoli e l’attenzione premurosa di un personale esperto, pronto a soddisfare con discrezione i bisogni del cliente.

In realtà, se guardiamo a questo negozio con la lente della storia, ci accorgiamo che tali qualità non sono per nulla casuali o improvvisate. Sono il risultato di un fenomeno di “lunga durata”,  frutto di un patrimonio di competenze che in quella bottega si è trasmesso per due secoli e mezzo. La storia della ditta Guenzati costituisce un esempio di successo ottenuto in forza di un autentico spirito di corpo tra i dipendenti. Spirito di corpo che ha consentito alla ditta di durare nei secoli nonostante l’estinguersi delle famiglie. Il marchio Guenzati si è fuso da tempo con la storia di Milano, in particolar modo con quella del quartiere di piazza dei Mercanti. Traslocare Guenzati significherebbe privare il centro di un pezzo importante della sua storia; una storia risalente alla borghesia milanese del basso Medioevo.

Maria Teresa d'Austria
L’imperatrice Maria Teresa di Asburgo (1717-1780)

Risaliamo alle origini, al 1768, anno di nascita della ditta Guenzati nel commercio dei tessuti. Siamo nel periodo delle riforme asburgiche condotte da Maria Teresa d’Austria e dai suoi funzionari: grazie all’impulso del governo austriaco, è iniziata per Milano una stagione di rinnovamento nella società, nei costumi, nelle istituzioni politico amministrative del Ducato. In quell’anno Giuseppe Guenzati assunse la direzione della ditta sita in contrada dei Fustagnari al civico 1677, conferendole il nome “Ditta Giuseppe Guenzati”. Possiamo dire che la nascita del negozio avvenne nel segno della continuità con un modo di lavorare che avrebbe dato frutti duraturi. Giuseppe infatti non era nuovo del mestiere. Con la sorella Giuseppa aveva lavorato per anni alle dipendenze di Giovanni Bertani, la cui famiglia era proprietaria di quel fondaco fin dai primi del Settecento. Il matrimonio tra Giovanni e Giuseppa legò strettamente la famiglia Guenzati ai proprietari, la cui attività verteva principalmente sul commercio dei tessuti di seta. Alla morte di Bertani, Giuseppe subentrò nella gestione.

A quell’epoca, nel periodo compreso tra la fine del Settecento e i primi anni dell’Ottocento, il patrimonio della ditta non doveva essere cospicuo. Sappiamo però che negli anni Quaranta del XIX secolo il nipote Giuseppe Guenzati “junior” non era soltanto un commerciante di tessuti, ma si era specializzato come intermediario nelle operazioni di vendita e acquisto della seta. Era divenuto, come si diceva allora, un  “sensale” e questa fu un’attività che Giuseppe junior seppe svolgere da solo, senza l’aiuto di alcun membro della famiglia.  Difatti, se controlliamo gli almanacchi napoleonici del 1808 e del 1812, non troviamo il nome dei Guenzati tra i principali “sensali di seta” attivi a Milano, segno che Agostino, padre di Giuseppe junior, era rimasto in quel periodo un semplice commerciante di tessuti.

Il “sensale” era un mediatore la cui attività consisteva nel fare in modo che le parti avessero i mezzi per fare affari rappresentandole se necessario nella firma dei contratti. I sensali di mercanzia operavano nel commercio di prodotti agricoli, agendo come intermediari tra i venditori e i compratori della merce.  I primi guadagni considerevoli furono quindi opera di Giuseppe “junior”, figlio di Agostino, il cui nome compariva nella Guida di Milano per l’anno 1844 all’interno dei 24 sensali di seta operanti in città. Giuseppe – che abitava nel sestiere di Porta Comasina dapprima nella contrada del Rovello al civico 2304, poi in contrada Cusani al civico 2287  –  raggiungeva a piedi, in pochi minuti, il suo fondaco che si trovava all’interno del sestiere ove abitava, alla fine del vicolo Fustagnari, a pochi metri dall’ingresso sul lato settentrionale della piazza dei Mercanti.

Oltre ad essere un ottimo commerciante, Guenzati fu un intellettuale operoso che riscosse una certa fama nella Milano asburgica. Nel “Giornale dell’Imperial Regio Istituto Lombardo di Scienze, Lettere ed arti e Biblioteca Italiana dell’anno 1847”, tra i testi di cui si raccomandava la lettura, due erano scritti da Giuseppe. Il primo, pubblicato nel 1846, si intitolava Manuale del cultore della seta; il secondo verteva sulla coltivazione delle patate (Il cultore dei pomi da terra, Milano, Valentini 1847).

Il primo libro era dedicato alla coltivazione dei gelsi e all’allevamento dei bachi da seta: l’autore, sulla base delle conoscenze acquisite nei suoi viaggi presso le varie cascine lombarde, forniva consigli sui metodi per disporre dei bachi migliori e ottenere una buona filatura dei bozzoli. Seguiva uno studio comparativo sui vari tessuti di seta presenti sulla piazza milanese, di cui si analizzava nel dettaglio la qualità. Per la verità, la parte relativa ai bachi riprendeva concetti che Giuseppe aveva già esposto alcuni anni prima, nel 1841, in un volumetto intitolato Vero metodo per far nascere la semente dei bachi da seta, loro processo, educazione. L’analisi dei vari tessuti costituiva invece il tratto innovativo del libro, il cui successo fu notevole. Nell’introduzione al volume sulla coltivazione delle patate, Giuseppe, nel ricordare la fortuna del suo “manuale”, rammentava con legittimo orgoglio il favore che esso riscosse non solo presso le autorità asburgiche in Lombardia, ma anche presso i governi di alcuni Stati italiani: il regno di Napoli e il regno di Sardegna.

“Lo scorso anno il Sottoscritto diede alla luce un suo opuscolo intitolato il Cultore della Seta, nel quale trovansi raccolte molte utili cognizioni per la riuscita di sì importante ramo della nazionale ricchezza. Detto opuscolo fu accolto con favore da Sua Altezza Imperiale il Serenissimo Arciduca Ranieri, Viceré del Regno Lombardo Veneto, come risulta dal rispettato rescritto 25 aprile 1846 n.2789, di sua Eccellenza il Signor Conte Governatore, con dichiarazione che l’Altezza Sua si è degnata di accettare di buon grado l’esemplare rimessole, commendando [lodando] lo zelo dell’Autore, e le pervennero parimente lodi da parte del Re di Napoli, col mezzo di suo Ministro dell’Interno…e che finalmente Sua Maestà il Re Carlo Alberto di Sardegna ha desiderato cinquanta copie di detto opuscolo, all’oggetto fossero diramate in tutte le provincie del suo Regno”.

Il declino della seta lombarda nella seconda metà dell’Ottocento spinse i commercianti ad estendere la loro attività ad altre tipologie di merce. Nella Guida generale di Milano pubblicata dall’editore Ticozzi nel 1873-74, la ditta Guenzati compariva ancora tra i principali operatori del settore nella città ambrosiana. La sede era descritta tuttavia come operante in “telerie e cotoni”: scompariva il riferimento alla seta.

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Quaderno scritto dai Guenzati con l’annotazione delle paghe mensili per i dipendenti. Anni Sessanta del XIX secolo. Ringrazio Luigi Ragno per avermi permesso di fotografare questo documento.

Nel 1876 avvenne il secondo passaggio di proprietà della ditta in via Fustagnari. Rosa Casati, vedova di Giuseppe Guenzati, cedette l’attività ai dipendenti più brillanti: Luigi Meda e Giovanni Battista Tomegno. Quest’ultimo si distinse nella rigorosa conduzione degli affari, assicurando alla ditta un discreto margine di guadagno. Con i soldi che riuscì a procurarsi grazie alle brillanti operazioni di vendita Giovanni Battista poté far studiare due dei suoi figli, Domenico e Luigi: il primo divenne dottore commercialista, il secondo avvocato. Il terzo figlio, Giuseppe, avviato invece alla professione del commercio, affiancò il padre nei viaggi d’affari. Ben presto tuttavia, la passione per le stoffe spinse i fratelli ad unire le forze. La conoscenza dei traffici, la ricerca meticolosa dei tessuti, l’abilità nelle operazioni di vendita, furono caratteristiche che segnarono il successo del negozio di via Fustagnari, che tra la fine dell’Ottocento e la prima metà del Novecento assurse a grande notorietà. Tra i clienti più illustri occorre ricordare San Giovanni Bosco, assai legato a Giuseppe Guenzati che lo presentò a Giovanni Battista Tomegno. Dopo la morte del Guenzati, i rapporti con il sacerdote si consolidarono grazie alla forte amicizia con i Tomegno. Quando giungeva a Milano, don Bosco non mancava di far visita ai dipendenti del negozio.

Il terzo passaggio di proprietà avvenne nel 1968. La tradizione di affidare l’attività ai dipendenti migliori venne rispettata anche in questo caso. Domenico e Luigi Tomegno, anziani e senza eredi, cedettero l’attività ad Angelo Moretti e a Vittorio Ragno. Quando venne assunto dai Tomegno, nel 1956, Vittorio era un giovane di 19 anni tutt’altro che inesperto. Cinque anni prima aveva imparato il mestiere lavorando come commesso presso la Tessuti Carlo Alberto.

Il tirocinio alla Guenzati non fu per nulla facile. I titolari erano inflessibili nel servizio alla clientela. In un’intervista rilasciata a Giuseppe Paletta e pubblicata alcuni anni fa dal Centro per la Cultura d’Impresa,  Vittorio Ragno ricordava il duro lavoro cui dovette far fronte in un’ambiente in cui i colleghi ‘più anziani’, gelosi della competenze acquisite, erano tutt’altro che disposti ad aiutare i nuovi arrivati. L’impegno, l’umiltà, la dedizione costante al lavoro furono tuttavia qualità che premiarono l’impegno di Vittorio e di Angelo Moretti, consentendo loro di emergere in una ditta composta alle metà del Novecento di appena nove persone tra titolari, commessi e fattorini.

Tra i clienti più importanti della Guenzati meritano di essere ricordati nomi quali Galtrucco, Loro Piana; famiglie dell’alta borghesia meneghina quali i Borletti o i Bassetti; esponenti illustri della nobiltà milanese come i Dal Verme o i Visconti di Modrone.

Per queste ragioni, credo sia importante dare una mano a Luigi Ragno, figlio di Vittorio, perché la Guenzati continui a svolgere la sua attività nella sua storica sede tra Piazza Mercanti e il Cordusio.

Le stelle della moda sotto la Madonnina

In questi giorni a Milano si respira un’atmosfera magica. La settimana della moda è in pieno svolgimento: un evento imperdibile per gli appassionati, ma anche per il semplice uomo della strada che viene letteralmente ‘rapito’ dai tanti eventi allestiti nella capitale del fashion. Mercoledì il premier Renzi ha sostenuto che la moda è uno dei settori più importanti dell’economia italiana. “Dobbiamo vincere i luoghi comuni per rispetto a chi lavora in questo settore” ha detto Renzi aggiungendo: “la moda è fatta da donne e uomini che lavorano, che ci mettono passione, da imprenditori che hanno il coraggio di crederci anche quando non è facile … io sono qui per riconoscere una realtà che già c’è…”. Il premier, pranzando a Palazzo Reale assieme ai maggiori stilisti (Giorgio Armani, Angela Missoni, Renzo Rosso, Donatella Versace) ha voluto mostrare l’interesse del governo per un settore fondamentale dell’economia italiana. Intenso il programma della fashion week meneghina: dal 24 al 29 febbraio sono previste 73 sfilate, più di 90 presentazioni ed altri eventi che porteranno all’esposizione di numerose collezioni.

Cerchiamo ora di superare la superficie degli annunci per analizzare le ragioni che hanno spinto un presidente del consiglio italiano ad inaugurare, per la prima volta nella storia repubblicana, un evento glamour di dimensione cittadina.

Fashion followers
Una giovane passeggia per le vie di Milano…

In effetti, se studiamo a fondo le dinamiche dell’industria italiana della moda, ci rendiamo conto che la mossa di Renzi, pienamente azzeccata, è stata studiata nei minimi particolari. In una situazione generale di stallo (se non di lieve miglioramento per l’economia italiana), l’industria del fashion ha conseguito risultati di notevole successo negli ultimi anni grazie al genio e alla creatività delle aziende specializzate nel settore.

In questa sede svolgerò alcune riflessioni sul tema basandomi su una fonte di notevole interesse per gli storici e gli studiosi di scienze economiche: si tratta del rapporto – analisi e presentazione sono liberamente scaricabili da Internet  – che l’Area Studi Mediobanca ha dedicato al comparto della moda italiana. I bilanci più recenti sono quelli del 2014 ma gli esperti hanno condotto alcune previsioni per il 2015 che ci consentono di avere un’idea abbastanza precisa delle dinamiche interne a questo  settore. Nel 2014 la moda italiana ha costituito un giro d’affari pari a 224 miliardi con un incremento del 2% rispetto all’anno precedente. La crescita nel 2015 sarà probabilmente incrementata con un ritorno addirittura alla doppia cifra a causa della svalutazione dell’euro: si stima un aumento del 13% per un giro di affari stimato a 253 miliardi. Si tratta di un risultato importante. Quali sono però i mercati cui si rivolgono le aziende della moda italiana? Restando ai dati del 2014, l’Europa è stata il primo mercato mondiale con 76 miliardi seguita dalle Americhe con 72 miliardi e dall’Asia-Pacifico con 47 miliardi. La pelletteria ha interessato un giro d’affari pari a 65 miliardi, il comparto abbigliamento 54 miliardi, le gioielleria-oreficeria 52 miliardi, la cosmesi-profumeria 45 miliardi.

In altri termini, i mercati internazionali premiano la moda italiana nei vari settori. Anche in Europa i progressi sono notevoli. Qui però dobbiamo spiegarci perché non si capisce come mai il mercato di un vecchio continente in difficoltà (ricordiamo che i dati si riferiscono al 2014) abbia segnato un’ottima performance nella moda. A soccorrerci è ancora una volta l’analisi di Mediobanca, che ha messo in evidenza come in Europa – e ancor più in Italia – la contrazione dei consumi dovuta ai colpi di coda della crisi sia stata in parte compensata da uno shopping turistico di rilievo. Le stime del 2015 indicano un totale di 48 miliardi di euro. Questo fenomeno ha riguardato per il 74% quattro paesi europei: Francia, Germania, Gran Bretagna e Italia. Chi sono questi turisti benefattori che ogni anno vengono a trovarci e premiano le nostre aziende con i loro acquisti da nababbi? Nell’Europa del 2014 sono stati per il 36% cinesi e per il 9% russi. In Italia il fenomeno è ancora più lampante: i turisti stranieri che hanno premiato il Made in Italy nel campo del lusso sono stati cinesi per il 32%, russi per il 13%, americani per l’8%.

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Bianca Balti in una sfilata del 2010

Ma avviciniamo ancor più la lente alle aziende italiane della moda. L’Area Studi Mediobanca ha individuato 143 società che nel 2014 hanno avuto un fatturato di almeno 100 milioni di euro: 59 sono nel settore abbigliamento, 32 operano nel comparto pelletteria, 20 nel tessile, 11 nella gioielleria-oreficeria, 5 nell’occhialeria, 16 nella distribuzione. Dove si trovano? In larga misura nell’Italia padana: 56 nel Nord Ovest (Piemonte, Valle d’Aosta, Liguria, Lombardia), 55 nel Nord Est (Veneto, Emilia-Romagna, Trentino Alto Adige, Friuli Venezia Giulia), 32 nel resto d’Italia. Si tratta di una mappa geografica che sembra giustificare ampiamente il ruolo di Milano quale capitale italiana del fashion. La proprietà di queste aziende è in larghissima parte italiana: solo 44 sono a controllo estero (18 di queste sono all’interno di gruppi francesi).

Dal 2010 al 2014 le aziende della moda sono cresciute più della manifattura. Risultano inoltre meglio gestite: sono più redditizie, meglio capitalizzate e “liquide” (hanno molto “fieno in cascina” come si suol dire). Relativamente al fatturato, se l’incremento dei grandi gruppi manifatturieri è stato pari al 16,3% tra il 2010 e il 2014, quello delle aziende che operano nel fashion è stato del 27,7%. La forbice si fa ancora più larga se guardiamo all’incremento della redditività operativa (Ebit): +14,1% contro +25,1% della moda nel periodo 2010-2014. Maggiore l’aumento della forza lavoro: +14% per la manifattura contro un aumento del 22,7% della moda.

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Palazzo Trussardi tra via Filodrammatici e piazza Paolo Ferrari

Fa riflettere inoltre la differenza abissale nella struttura finanziaria tra i grandi gruppi manifatturieri e le aziende del comparto moda. Nel 2014 la redditività operativa dei primi è cresciuta del 6% contro il +9% delle seconde. Due parametri mostrano soprattutto la profonda diversità: la percentuale di liquidità (disponibilità di risorse) in rapporto ai debiti finanziari è stata pari al 50,4% nella manifattura mentre la moda ha dimostrato di sapersi gestire meglio con un rapporto pari al 73,7%. Un altro dato è il rapporto debiti finanziari/patrimonio netto, sempre relativo al 2014: se la manifattura presentava una percentuale elevatissima, pari al 140,4%, le aziende fashion non superavano una percentuale pari al 36,8%: questo significa che i debiti finanziari di queste ultime erano meno del 40% rispetto ai mezzi che avevano per farvi fronte.

All’interno delle 143 società operanti nella moda, l’Area Studi Mediobanca ha individuato un gruppo ristretto di 15 gruppi che tra il 2010 e il 2014 hanno raggiunto i picchi maggiori  per fatturato. Si tratta dei grandi marchi del lusso che elenchiamo in ordine alfabetico: Armani, Benetton, Calzedonia, Dolce&Gabbana, Geox, Luxottica, Max Mara, Moncler, Diesel, Prada, Safilo, Salvatore Ferragamo, Tod’s, Valentino, Zegna. Sono state considerate a parte Gucci e Bottega Veneta perché sono aziende che fanno parte della Società francese Gruppo Kering, rispettivamente dal 1999 e dal 2001.

Giorgio Armani
Giorgio Armani alla presentazione della sua autobiografia dedicata a 40 anni di moda

La classifica per fatturato vede in testa Luxottica con 7.652 milioni di euro, seguita da Prada con 3.552 mln, Armani con 2.535 mln, Calzedonia 1.847 mln, OTB (Diesel) 1.536 mln, Ferragamo 1.321 mln, Max Mara 1.310, Benetton 1.296, Zegna 1.210, Safilo 1.179, Dolce & Gabbana 1.045, Tod’s 966, Lir (Geox) 934, Valentino 721, Moncler 694. Per le italiane “conquistate” dai francesi, Gucci ha avuto ricavi per 3.497 milioni e Bottega Veneta per 1.131 mln. Il fatturato di queste aziende ha riguardato nel 2014 l’abbigliamento per il 46%, l’occhialeria per il 32%, la pelletteria per l’11%, le calzature per il 10%. Per numero di dipendenti si segnala Luxottica con 75.575 unità, seguita da Calzedonia con 30.705, Prada con 11.962, Armani con 8.112, Zegna con 7.663, Safilo con 7.609, Diesel con 6.286, Max Mara con 5.670, Dolce & Gabbana con 4.294, Tod’s con 4.239 e così via. Nel complesso le Top15 vendono più nei mercati extra europei, anche se il Vecchio Continente resta un mercato importante: 12,1 miliardi di fatturato in Europa contro i 15,7 miliardi nel resto del mondo. Si segnala in particolar modo la netta prevalenza delle vendite nei mercati esteri Luxottica (80,3% del fatturato fuori Europa), Ferragamo (73,1%), Zegna (72,6%), Prada (63,6%), Safilo (58,7%), Valentino (57,7%), Armani (55,7%), Dolce e Gabbana (55,3%).

Dalle analisi di Mediobanca possiamo ricavare due brevi riflessioni. La prima riguarda l’effettiva importanza del giro d’affari italiano della moda e del lusso, i cui prodotti sono apprezzati da una ricca clientela in netta prevalenza straniera. E’ vero che le aziende francesi di moda hanno fatturati superiori ai nostri ma non sono molto lontane da quelle italiane, che negli ultimi anni hanno mostrato di crescere con forza addirittura maggiore rispetto alle concorrenti d’oltralpe. La qualità, il design, la creatività del prodotto Made in Italy fanno ancora la differenza.

La seconda riflessione si lega invce alla debolezza della domanda interna italiana, che resta ancora eccessivamente bassa. Senza lo sbocco dei mercati esteri (compresi quelli europei) le nostre aziende avrebbero serie difficoltà. Per questa ragione è importante che il governo italiano si faccia portatore in Europa di una politica economica tesa a far crescere la domanda interna.

L’eccellenza italiana nell’industria della moda e del lusso può far storcere il naso al moralista che ritiene la raffinatezza dei costumi e il formalismo esteriore un segno di corruzione alimentando le diseguaglianze sociali in una repubblica che si vorrebbe informata alle semplici ed austere virtù del cittadino. Al contrario, le aziende che operano nella moda e nel lusso costituiscono una realtà di cui gli italiani dovrebbero andare orgogliosi.

Scriveva Pietro Verri nel celebre saggio Considerazioni sul lusso, pubblicato nel 1764 nel primo tomo, della celebre rivista “Il Caffè”:

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Pietro Verri (1728-1797)

Se il lusso ha per oggetto le manifatture nazionali, è cosa evidente che il restringerlo altro effetto non potrà produrre che quello di togliere il pane agli artigiani che campano sulle manifatture, desolare cittadini industriosi e utili, obbligarli ad abbandonare la patria, dare in somma un colpo crudele e funesto a molti membri della nazione, che hanno diritto alla protezione delle leggi, e alla nazione stessa spogliandola d’un numero di nazionali, diminuendosi il quale scema la vera sua robustezza.

Tornando sugli effetti benefici che le spese dei ricchi recavano all’economia di un paese andando a beneficio delle classi più povere ma industriose, il celebre illuminista lombardo scriveva:

Se il lusso nasce dalla ineguale ripartizione de’ beni e se l’ineguale ripartizione dei beni è contraria alla prosperità di una nazione, il lusso medesimo sarà un bene politico in quanto che dissipando i pingui patrimoni torna a dividerli, a ripartirli, e ad accostarsi alla meno sproporzionata divisione de’ beni. Il lusso è dunque un rimedio al male medesimo che lo ha fatto nascere; poiché l’ambizione de’ ricchi, che profondono, serve di esca ai vogliosi d’arricchirsi, e i danari ammassati, come una fecondatrice rugiada, ricadono sui poveri ma industriosi cittadini; e laddove la rapina o l’industria li sottrassero alla circolazione, il lusso e la spensieratezza loro li restituiscono.

P. Verri, Considerazioni sul lusso in “Il Caffè”, Tomo I, foglio XIV, in S. Romagnoli (a cura di), Il Caffè, Feltrinelli Editore, Milano 1960, pp.114-115

Gli faceva eco alcuni anni dopo Cesare Beccaria quando, agli studenti accorsi alle sue lezioni di economia pubblica, ricordava:

Cesare Beccaria (1738-1794)
Cesare Beccaria (1738-1794)

La ricchezza degli stati non nasce realmente che dalla fatica degli individui; la fatica degli individui bisogna appagarla; non si determinano gli uomini a fare questi pagamenti se non per convertirli in mezzi di godere ciò che più gli soddisfa. Di più, l’uomo non fatica, se non in proporzione dell’utile immediato che spera da quella provenirne; gli utili di questa fatica sono somministrati dalle spese dei ricchi, ossia di quelli che posseggono al di là del necessario fisico.

CBeccaria, Elementi di economia pubblica in C. Beccaria, Scritti economici, a cura di Gianmarco Gaspari, Edizione Nazionale delle Opere di Cesare Beccaria, Vol. III, Milano, Mediobanca 2014, pag.362.

I grandi magazzini Coin a Milano

In un film di Alfred Hitchcock risalente al 1966, Torn Curtain (“Il sipario strappato”), un fisico americano, Michael Armstrong (interpretato da un brillante Paul Newman), si trova per misteriose ragioni nella Berlino Est, capitale di un paese “a socialismo reale” (la Repubblica Democratica Tedesca) ove la produzione di beni e servizi, posta sotto il controllo e la gestione dello Stato, aveva finito per congelare una economia pianificata in cui gli operatori tendevano ad essere sempre gli stessi. L’impiegato di polizia Hermann Gromek, nel ricordare il periodo in cui era vissuto a New York, chiede ironicamente ad Armstrong: “Abitavo tra l’ottantottesima e l’ottava. C’era una pizzeria proprio all’angolo. Ci sarà ancora? Facevano una pizza meravigliosa”. Risponde lo scienziato: “Non saprei dirle” e Gromek ripete: “Ci sarà ancora?”: in questa domanda insistente è possibile cogliere l’avversione che doveva nutrire verosimilmente il modesto impiegato dell’Est nei confronti delle ricche società occidentali caratterizzate dalla mobilità lavorativa e dal rapido mutamento delle attività in libera competizione: alcuni negozi restano, altri scompaiono, altri ancora si trasformano, cambiano sede.

Quando mi è giunta notizia che il celebre negozio Coin di piazzale Loreto ha chiuso il 20 gennaio scorso, il pensiero – chissà perché – è corso alla pizzeria newyorkese di Gromek.

Intendiamoci. Nessuno si sogna di dire che Coin stia scomparendo. In questi ultimi anni il gruppo veneto ha però avuto alcune difficoltà, non diversamente da quanto avviene purtroppo per tante aziende italiane costrette ad operare in una società in lentissima ripresa ove il livello dell’imposizione fiscale resta elevato.

Vittorio Coin
Il fondatore: Vittorio Coin

Nei limiti di spazio imposti dal blog, traccerò un breve profilo storico della Coin. Il fondatore dell’azienda, Vittorio Coin, era un commerciante di tessuti che aprì il suo primo negozio a Mirano (un paese in provincia di Venezia) nel 1926. La crescita dell’attività divenne imponente nel dopoguerra grazie all’impegno dei figli Alfonso, Aristide e Giovanni, i quali avevano imparato il mestiere del commerciante affiancando il padre nella vendita di tessuti, filati e biancherie. Un legame familiare assai forte quello dei Coin, i quali avevano saputo fare del lavoro una religione di vita in linea con la tradizione mercantile dell’antica Repubblica di San Marco.

L’inizio del periodo d’oro può essere fatto risalire agli anni Cinquanta e Sessanta. Costituita nel 1952 in società per azioni, cinque anni dopo l’azienda acquisì la proprietà degli ex magazzini Öhler di Trieste. Gli anni Sessanta segnarono l’espansione di Coin oltre i confini del Veneto e il suo ingresso nelle attività dei grandi magazzini. Ma qui dobbiamo capirci. Cosa si intende per “grande magazzino”? Il grande magazzino si caratterizza per un’attività di vendita al dettaglio nel ramo non alimentare in edifici dotati di una superficie superiore ai 400 mq ove siano attivi almeno 5 reparti dedicati a prodotti che appartengono a diversi settori merceologici. I grandi magazzini Coin degli anni Sessanta presentavano, oltre alla vendita di vestiti e biancheria, articoli afferenti ai seguenti comparti: casalinghi, sportivi, giocattoli, pelletteria e profumeria. Una caratteristica che dura tuttora. Da ricordare che i Coin di Piazza 5 Giornate e Corso Vercelli (tuttora esistenti) operavano in spazi assai vasti per gli standard dell’epoca, presentando una superficie di 5000 metri quadrati disposta su otto piani.

Tra la fine degli anni Sessanta e i primi anni Settanta Coin consolidò la sua attività aprendo grandi magazzini in città quali Brescia, Varese, Mantova, Ferrara, Genova, Napoli, Taranto. Risale al 1968 la fondazione delle “Coinette”, una nuova catena che operava nelle periferie e nei piccoli centri urbani assicurando ai clienti prodotti a prezzi accessibili. Si trattava di una rete di negozi, divenuta ben presto capillare, che diede origine nel 1972 alla celebre catena “OVS” (Organizzazione Vendite Speciali) che assicura tuttora prezzi vantaggiosi mediante lo smercio degli articoli rimasti invenduti nei punti Coin. Nel corso degli anni Settanta e Ottanta l’azienda raggiunse il culmine del successo. E’ il periodo in cui lavorò la terza generazione della famiglia rappresentata dai figli di Aristide.

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Logo Standard usato dal Gruppo Fininvest dalla fine degli anni Ottanta al 1994. 

Nel 1998 i Coin rilevarono dalla Fininvest di Silvio Berlusconi il comparto non alimentare del gruppo Standa, i cui negozi furono progressivamente convertiti negli esercizi Oviesse. Tale azienda, la “Società Anonima Magazzini Standard” (poi Standa) aveva aperto il suo primo punto vendita a Milano nel 1931 con l’insegna “Moderno 33”. Occorre ricordare che la Standa era stata la prima azienda ad introdurre, nel 1956, il servizio vendita self service nel ramo alimentare. La filosofia del self service può essere riassunta in queste due semplici mosse: prendi il prodotto dallo scaffale e paga alla cassa.

Nel 2009 Coin acquisì un’altra storica catena milanese, più antica della Standa: la Upim. Fondata dalla Rinascente nel 1928 come “UPI” (Unico Prezzo Italiano), l’azienda, grazie alla consulenza della tedesca Tietz, era stata la prima ad introdurre in Italia il magazzino “a prezzo unico”, vale a dire uno spazio ove i prodotti avevano lo stesso prezzo di vendita, notevolmente inferiore rispetto a quello dei negozi. La lettera “M” fu aggiunta al nome “UPI” per indicare l’origine milanese di questi magazzini.

Al 2011 risale un’altra importante iniziativa del gruppo Coin, che dal 2005 non è più gestito dalla famiglia. Si tratta dell’apertura di Excelsior Milano nello spazio ove si trovava il cinema omonimo nella Galleria del Corso, a pochi passi da corso Vittorio Emanuele: in una superficie di 4.000 mq disposta su sette piani, l’architetto francese Jean Nouvel ha ricreato un ambiente extra lusso ove sono collocati i comparti della moda, del cibo e del design.

Come si ricordava all’inizio, gli effetti della crisi economica negli ultimi anni non hanno risparmiato il gruppo Coin. La chiusura dello storico punto vendita in piazzale Loreto costituisce una spia di questo periodo difficile. In base all’indagine condotta dall’Ufficio Studi di Mediobanca e pubblicata nel monumentale Annuario R&S, il gruppo Coin Spa risulta in perdita dall’anno 2011-12. I dati relativi al 2014-15 segnano un passivo di 89,1 milioni di euro. L’anno più difficile è stato però il 2012-2013, quando le perdite sono state pari a 93,4 milioni di euro. Conti difficili da digerire per un’azienda che, ancora nel 2010-11, risultava in utile per 48,2 milioni.

Ci auguriamo che Coin torni presto a ripetere i successi degli anni d’oro.