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Dalle carte d’archivio aspetti poco conosciuti sulla vita di Leonardo

Allestita nel palazzo dell’antico Collegio Elvetico di via Senato una notevole esposizione di documenti sul genio toscano.

Cessata la paura per il Coronavirus che ha suscitato nella collettività reazioni di panico e paure ingiustificate, oggi si può dire che Milano abbia ripreso a respirare e con ogni probabilità nei prossimi giorni verranno riaperti musei e istituti culturali. Merita in proposito di essere visitata un’interessante mostra su Leonardo Da Vinci allestita nel palazzo ove ha sede l’Archivio di Stato di Milano in via Senato 10.

Inaugurata il 16 gennaio scorso e aperta fino al 28 marzo, l’esposizione non si segnala soltanto per il ricco materiale documentario. A suscitare curiosità è anche il percorso multimediale allestito nella mostra che, rivolto a un pubblico non specialistico, conduce quasi per mano il visitatore alla scoperta della vita di Leonardo e del mondo in cui visse. Due video ripercorrono le varie tappe della sua esistenza nell’Europa rinascimentale.

Leonardo Da Vinci, La Vergine delle Rocce. Parigi, Museo del Louvre.

Tra i documenti esposti nella mostra è opportuno ricordare il contratto che Leonardo, giunto da un anno a Milano, firmò nel 1483 con la confraternita dell’Immacolata Concezione per la realizzazione di un dipinto da collocare nella chiesa di San Francesco. Questa basilica oggi non esiste più: venne demolita negli anni del dominio napoleonico, quando il governo del Regno d’Italia costruì in quell’area una caserma destinata ai Veliti, uno dei corpi militari istituito da Napoleone re d’Italia. Si tratta dell’attuale Caserma Garibaldi, a pochi passi dall’Università Cattolica del Sacro Cuore. Però all’epoca di Leonardo la chiesa di San Francesco non solo esisteva, ma era una delle più importanti nel panorama cittadino. Essa era aperta al pubblico, gestita dai frati francescani che vivevano nel convento attiguo. Come ricorda Carlo Bianconi, estensore di una interessante guida artistica di Milano pubblicata nel 1795, la basilica fin dal Medioevo era addirittura uno dei templi più grandi della città quanto all’estensione della superficie. Nel contratto, che Leonardo aveva firmato con i membri della confraternita, l’artista era tenuto a realizzare un dipinto avente per oggetto la Vergine Maria e il Bambin Gesù. Le fasi del lavoro furono tuttavia tormentate. La scelta del soggetto su cui venne impostata la narrazione pittorica deluse i committenti: i religiosi pensavano probabilmente che la Madonna dovesse essere dipinta nel rispetto della tradizione e non si aspettavano che Leonardo – agendo per così dire “di testa propria” e ultimando il lavoro dopo molto tempo – realizzasse un’opera sui generis come la Vergine delle rocce , un capolavoro dell’arte pittorica. Nella mostra è esposto il contratto originale del 1483 che si è sopra ricordato: Leonardo lo firmò scrivendo il proprio nome in minuscolo, un errore che i grafologi hanno fatto risalire al disagio con cui visse la sua condizione di figlio illegittimo.

Donato di Montorfano, La Crocifissione, con interventi di Leonardo nel ritratto della famiglia Sforza. Parete Sud del Refettorio di Santa Maria delle Grazie, Milano.

Il resto dei documenti che sono esposti al pubblico copre un periodo storico esteso a tutta l’Età Moderna (secoli XVI-XIX). Riguardano in larga parte le fasi di realizzazione del celebre Cenacolo in Santa Maria delle Grazie. Una delle carte più importanti è il reclamo del duca Ludovico il Moro rivolto a Leonardo: questi era sollecitato a portare a termine il suo capolavoro nella parete nord del refettorio dei domenicani. Tale insistenza era dovuta all’urgenza di vedere ultimata la pittura anche nella parete sud, ove Donato di Montorfano andava dipingendo la celebre Crocifissione. Il duca di Milano voleva che Leonardo ritraesse, in questa parete, i membri della sua famiglia sempre con la tecnica, già adoperata per il Cenacolo, della pittura a secco. Oltre alla sua stessa persona, dovevano essere ritratte la moglie Beatrice D’Este e i figli: un reclamo che non sortì però i suoi effetti se pensiamo che noi oggi possiamo vedere queste figure solo abbozzate nella parete sud. Come si può facilmente immaginare, il documento del Moro riveste un’importanza straordinaria per gli storici: aprendo un filone di ricerche oggi pressoché inesplorato, esso consente di verificare se le figure della famiglia Sforza tratteggiate ai piedi della Crocifissione siano effettivamente attribuibili alla mano di Leonardo.

L’annale 2019 dell’ “Archivio Storico Lombardo” pubblicato dalla casa editrice Scalpendi.

In riferimento alle celebrazioni per il cinquecentenario dalla morte di Leonardo, occorre ricordare due saggi importanti sull’argomento contenuti nell’ultimo numero dell’Archivio Storico Lombardo (2019), l’annale pubblicato dalla Società Storica Lombarda che approfondisce con studi rigorosi temi afferenti alla storia del territorio lombardo in età medievale e moderna. Il primo contributo, dello storico dell’arte Edoardo Rossetti, Un diluvio di appunti: l'”Archivio Storico Lombardo” e qualche nota inedita su personaggi vinciani (Evangelista da Brescia e Pietro Monte) (pp.221-248), si segnala per la novità riguardante una più precisa individuazione del luogo in cui si trovava la celebre vigna che Ludovico il Moro donò a Leonardo da Vinci. Muovendo dallo studio di un documento relativo all’acquisto di un terreno, Rossetti è riuscito a localizzare con precisione il luogo della vigna, che si trovava nel sestiere di Porta Vercellina. Essa confinava da un lato con l’antico naviglio che scorreva nell’attuale via Carducci, dagli altri lati con le proprietà dei gesuati di San Gerolamo e di altri privati. Si trattava di una posizione di assoluto rilievo nella Milano rinascimentale, a poca distanza dalla chiesa di Santa Maria delle Grazie, dall’attiguo convento dei domenicani e dal quartiere che il Moro aveva voluto formare tra le attuali vie Zenale, San Vittore e Corso Magenta affinché potessero abitarvi i membri più fedeli del suo governo.

Il secondo saggio dello studioso Cesare S. Maffioli, Alle origini del mito di Leonardo Da Vinci ingegnere dei navigli di Milano (pp.249-270), ricostruisce le origini cinque-seicentesche di una vecchia tesi secondo la quale il genio toscano sarebbe stato l’inventore del naviglio Martesana e delle chiuse. Si tratta, come si può facilmente constatare, di un errore storico perché il sistema delle conche per gestire i dislivelli e i salti d’acqua esisteva da tempo nel ducato di Milano; inoltre varrà la pena ricordare che il Naviglio Martesana venne costruito sotto il ducato di Francesco Sforza (1450-1466), molto tempo prima quindi dell’arrivo di Leonardo in città. L’autore del Cenacolo contribuì invece a perfezionare il sistema dei navigli, lavorando alla conca di San Marco che consentiva di collegare la Martesana con la Fossa Interna del centro cittadino, resa in quell’occasione navigabile e collegata al Naviglio Grande presso la pre-esistente Conca di Viarenna (oggi via Conca del Naviglio).

A Leonardo si dovette inoltre, negli anni del dominio francese seguiti alla cacciata del Moro, l’idea di elaborare un progetto per la navigazione dell’Adda dal Lago di Como fino all’incile del Naviglio Martesana presso Trezzo, il che avrebbe consentito di navigare da Lecco fino a Milano mediante il trasporto di merci e persone. Un’idea per nulla fuori luogo all’epoca, se pensiamo che un risultato analogo era stato conseguito dai milanesi fin dal XIII secolo mediante la realizzazione del Naviglio Grande, che collegava il Lago Maggiore con la Darsena cittadina: in quell’occasione tuttavia le opere non si erano rivelate particolarmente difficili, non trovandosi in quei luoghi un dislivello imponente tra la parte pedemontana e la pianura. Cosa diversa era invece la zona a nord-est di Milano, ove l’Adda scorreva in un letto accidentato e scosceso. Molti anni dopo l’idea leonardesca venne ripresa dall’ingegnere Giuseppe Meda, che nel 1590 ottenne l’approvazione delle autorità spagnole al suo progetto di naviglio. Le operazioni, quantunque iniziate con i migliori auspici, vennero tuttavia interrotte a seguito di alcune calamità naturali (inondazioni ripetute dell’Adda), ma soprattutto per gli scontri ripetuti che avevano opposto il Meda ai colleghi che lo affiancavano nell’esecuzione dell’opera. Inoltre la sua morte (1599) finì con il bloccare definitivamente i lavori che pure erano stati iniziati lungo il corso dell’Adda. Com’è noto, il Naviglio immaginato da Leonardo venne costruito solo nella seconda metà del Settecento: il canale – il Naviglio di Paderno – fu ultimato nel 1777 sotto il regno di Maria Teresa d’Asburgo negli anni del dominio austriaco della Lombardia.

Riapertura dei Navigli: Sala apre il débat public

All’incontro tenuto oggi nella Sala Alessi di Palazzo Marino il sindaco Giuseppe Sala e l’assessore alla Partecipazione, Cittadinanza attiva e Open Data Lorenzo Lipparini hanno presentato il progetto di riapertura dei navigli milanesi, dando il via a una pubblica discussione sul modello del debat public francese: da oggi fino a settembre i cittadini potranno intervenire esprimendosi sul progetto con critiche, proposte, miglioramenti. Nei prossimi giorni saranno previsti sul tema incontri pubblici organizzati da un garante imparziale, il dottor Andrea Pillon.

Il calendario degli incontri è accessibile su un sito internet attivato dal Comune, ove i cittadini potranno iscriversi, intervenire ai dibattiti e caricare sulla piattaforma informatica documenti contenenti le loro proposte.

La necessità di coinvolgere la cittadinanza è dovuta all’effettiva complessità della riapertura nel suo insieme. Difatti la realizzazione di un canale lungo 7,7 chilometri in una parte della periferia nord (via Melchiorre Gioia) e in una zona importante del centro, determinerà l’avvio di lavori pubblici che recheranno disagi alla mobilità veicolare nella fase transitoria. D’altra parte occorre rilevare che l’utilizzo degli stessi cantieri della M4 in centro e l’apertura di pochi altri siti in periferia, consentirà di limitare il più possibile gli ostacoli alla mobilità.

Il piano prevede due fasi. La prima, che avrà inizio nei prossimi anni, prevede la posa di una tubazione sotterranea di 2 metri di diametro che garantirà la continuità idraulica lungo i 7,7 km del tracciato fino alla Darsena di Porta Ticinese: oltre a migliorare l’irrigazione dei campi nel parco agricolo Sud Milano, tale tubazione costituirà una infrastruttura per le nuove pompe di calore che sostituiranno le caldaie inquinanti . La riapertura viene così a sposarsi con l’obiettivo di ridurre l’inquinamento cittadino provocato dagli scarichi dei condomini. La tubazione fornirà inoltre l’acqua pulita della Martesana ai cinque tratti di naviglio che verranno aperti in questa prima fase, rendendo possibile in prospettiva il secondo step della riapertura integrale.  I cinque tratti di canale che verranno riaperti nella prima fase sono i seguenti:

Il Naviglio riaperto in via Francesco Sforza: immagine elaborata da MM.

1)     820 metri in via Melchiorre Gioia da Cassina de’ Pomm a via Carissimi;

2)     240 metri nel primo tratto di via san Marco ove si trova l’antico tracciato del Naviglio con la storica Conca dell’Incoronata ricordata da Leonardo da Vinci nel Codice Atlantico.

3)     520 metri in via Francesco Sforza tra corso di Porta Vittoria e Corso di Porta Romana, in un’area ove si trovano l’Università degli Studi di Milano, il Giardino della Guastalla e l’Ospedale Policlinico.

4)     300 metri in via Molino delle Armi nel parco delle Basiliche tra le chiese San Lorenzo e Sant’Eustorgio;

5)     260 metri tra la Darsena e via Ronzoni mediante la ricostruzione e riattivazione della storica conca di Viarenna.

La seconda fase (entro 2030) riguarderà invece la riapertura totale dei restanti 5 km di canale in via Melchiorre Gioia, in via San Marco, via Fatebenefratelli, via Senato, via San Damiano, via Visconti di Modrone, via Francesco Sforza, via Santa Sofia, via Molino delle Armi, via De Amicis e via Conca del Naviglio.

Come ha ricordato il sindaco Sala, gli incontri pubblici hanno l’obiettivo di mostrare ai cittadini i pro e i contro della riapertura. Oltre ai lavori pubblici, verranno illustrati i costi dell’operazione e le modifiche che la realizzazione dei canali navigabili in centro determinerà nella viabilità se il progetto dovesse essere realizzato.

Sala ha tuttavia precisato che la gradualità delle operazioni (articolate in due fasi) permetterà di gestire la situazione senza eccessivi intralci per i cittadini. Inoltre le periferie non saranno penalizzate, ma al contrario valorizzate: ad esempio la riapertura della Martesana in via Melchiorre Gioia consentirà di superare la problematica realtà di quel quartiere (oggi invivibile) grazie a una infrastruttura ove acqua, verde e spazi per nuovi esercizi commerciali giocheranno un ruolo importante nel migliorare la vivibilità della zona.

Il Naviglio in via San Marco. Immagine elaborata da MM.

“La riapertura dei navigli non è operazione nostalgica ma costituisce il riconoscimento del ruolo centrale che l’acqua ha sempre avuto nella storia di Milano” ha affermato il sindaco Sala, aggiungendo che le grandi città del mondo stanno investendo nelle reti di canali. “L’acqua è un elemento che, accanto al verde, la gente apprezza notevolmente come insegna il caso di Chicago”. D’altra parte, basta guardare ai casi di città quali Amsterdam, San Pietroburgo, Amburgo, Parigi, Londra, Vienna e Berlino per rendersene conto.

C’è però una seconda ragione che spiega l’importanza della riapertura dei navigli per Milano. La riattivazione dei canali in centro e in periferia si sposa bene con la politica ambientale che la città intende perseguire nei prossimi anni riducendo la distanza che, sul piano della qualità della vita, la separa ancora dalle metropoli più avanzate. “Tra dodici anni” – ha detto il sindaco – “Milano passerà da 51 macchine ogni 100 abitanti a 40 macchine come avviene nelle maggiori città europee”. La mobilità dei cittadini cambierà radicalmente: l’uso dell’automobile privata si ridurrà a vantaggio di un’ampia disponibilità di mezzi pubblici. La riapertura dei Navigli si inserisce coerentemente in tale visione ambientale: la M4 sarà aperta lungo la cerchia dei canali favorendo gli spostamenti veloci per ragioni di lavoro. Inoltre, la metropolitana estesa fino a Monza consentirà una forte riduzione del traffico automobilistico da Nord-Est. Il divieto dell’ingresso in città dei Diesel Euro 1,2,3, a partire dalla fine di gennaio 2019, ridurrà ulteriormente il numero di auto in città, come sta avvenendo nelle altre metropoli europee.

Riapertura dei Navigli: un’occasione da non perdere

Nello scorso weekend il sindaco di Milano Giuseppe Sala si è recato a Chicago per partecipare a un convegno sulle “Urban Waterways”. Invitato ad intervenire dal sindaco di Chicago Emanuel Rahm, Sala ha parlato delle grandi opportunità che la riapertura dei Navigli potrebbe portare a Milano nell’incremento del turismo e nel decisivo miglioramento della qualità della vita urbana grazie alla fruizione di più ampi spazi pubblici fatti di verde e di canali.

La riapertura di quasi otto chilometri di naviglio in via Melchiorre Gioia e in centro città, garantendo il collegamento della Martesana con la Darsena di Porta Ticinese, renderebbe possibile la realizzazione di un grande progetto di navigazione turistica su scala milanese, regionale e perfino europea: difatti, qualora fosse realizzata tale opera, uno svizzero di Locarno, un italiano che vive sul Lago di Como, un turista del Lago Maggiore potrebbero raggiungere il centro di Milano attraversando con un servizio di battelli i Navigli Grande, Pavese e Martesana resi completamente navigabili. Si capisce quindi come la riapertura dei questi otto chilometri di canale, in città e in centro città, sia vitale per la riattivazione dell’intero sistema dei navigli lombardi.

Nyhavn
Nyhavn, antico porto di Copenaghen in centro città

La città ambrosiana potrebbe disporre di un’altra risorsa importante per la promozione turistica del territorio in campo internazionale: Milano sarebbe non solo una città lavorativa che potrà contare su una invidiabile rete di trasporto pubblico (con la M4 sarà possibile raggiungere il centro da Linate in 15 minuti!); con la riapertura dei navigli la metropoli ambrosiana sarebbe  attraente sotto il profilo della vivibilità e dell’ambiente: la rete dei canali, riattivata da Pavia fino ai Laghi, consentirà di competere ad armi pari con metropoli quali Amsterdam, Copenaghen, Amburgo e San Pietroburgo. Assieme ai più ampi spazi di verde pubblico che saranno resi possibili grazie al recupero dei sette scali ferroviari, la disponibilità di una rete di canali navigabili metterà Milano nelle condizioni di essere non solo una metropoli del business, ma anche una città in grado di offrire una elevata qualità di vita urbana come città d’acque e del verde.

Perché questo si avveri tra qualche anno, è tuttavia importante che i milanesi partecipino in massa al referendum che l’amministrazione comunale ha indetto in autunno e votino Sì al progetto di riapertura dei navigli. Il costo del progetto, che era stato stimato inizialmente a 400 milioni di euro, è stato da alcuni esperti ridimensionato a poco più di 200 milioni per il risparmio che ad esempio l’utilizzo dei cantieri della M4 in centro città potrebbe recare all’opera di scavo e di apertura del nuovo canale. Il Sindaco Beppe Sala, che è uomo concreto e tutt’altro che sprovveduto, intende disporre però di una stima il più possibile attendibile dei costi. A tal fine ha formato una squadra di esperti che si esprimerà nei prossimi mesi consentendogli di porre i milanesi dinanzi a un progetto preciso ove saranno indicati i costi veri e propri e i mezzi per farvi fronte. La riapertura dei navigli, com’era prevedibile, ha diviso la città in favorevoli e contrari.

Piazza Vetra con il Naviglio
Come sarebbe il Parco delle Basiliche (dietro San Lorenzo e Sant’Eustorgio) con il Naviglio riaperto

Come Urbanfile ha già evidenziato in un post del 14 marzo scorso, la direttrice del Master turismo in Bocconi, Magda Antonioli, ha sottolineato i benefici della riapertura sotto il profilo del turismo e soprattutto dell’accresciuta valorizzazione di alcune zone periferiche: basti pensare al parco della Biblioteca degli Alberi, a piazza Gae Aulenti e al quartiere City Life in via Melchiorre Gioia; in centro città vi sarebbe invece un’ulteriore attrazione turistica grazie al nuovo canale (la cui larghezza media sarebbe di sette metri) in punti che ancora riflettono la struttura urbanistica dell’antico naviglio: via San Marco in zona Brera; piazza Cavour-via Senato vicino al viale alberato di via Marina a due passi dai giardini pubblici di via Palestro e dal parco della Villa Reale; via Francesco Sforza vicino al parco della Guastalla e dietro all’Università Statale; via Molino delle Armi lungo il parco delle Basiliche tra San Lorenzo e Sant’Eustorgio; via Conca del Naviglio e via De Amicis a pochi metri dal parco dell’Anfiteatro romano.

Non sono mancati però i critici. Luca Beltrami Gadola, in un post del 15 marzo pubblicato sul sito Arcipelago Milano, ha ironizzato sul balletto di cifre in merito ai costi della riapertura. Inoltre, ha fatto osservare che le spese per la manutenzione dei canali sarebbero assai alte, come già è dimostrato – a suo giudizio – da quanto è avvenuto per la Darsena di Porta Ticinese.

“Alle proteste dei residenti e dei promotori del restauro della Darsena, spazio pubblico per eccellenza, il Comune pare abbia risposto che bisogna pur cavare qualche soldo per coprire le spese di gestione, pulizia e manutenzione della Darsena stessa spese che sembra assommino a quasi un milione di euro ogni anno. Il bando era con una base di 35.000 euro. Lungo il cammino da trentacinque al milione!”. Beltrami Gadola si chiede quanto costerà la manutenzione dei nuovi canali.

Amsterdam King's Day Boats
Quest’anno la tradizionale festa King’s Day Boats si terrà ad Amsterdam il 27 aprile!

La domanda è fondata. Sarà interessante nei prossimi mesi leggere la relazione della squadra di esperti messa in campo per volontà del Sindaco Sala. Una cosa però è certa: i canali costano come dappertutto. Lo sa bene chi abita ad Amburgo, a Copenaghen, a Venezia.  Della loro manutenzione se ne occupa il Comune mediante l’impiego delle risorse pubbliche ricavate dalle tasse locali. Può anche succedere tuttavia che il servizio sia gestito da un’azienda privata. E’ il caso di Amsterdam, dove gli interventi sulle fogne e sui canali sono gestiti non solo dal Comune mediante una tassa comunale (la gemeentebelasting), ma anche da una società privata, la Waternet, alla quale i cittadini pagano i servizi di pulizia delle acque (zuiveringsheffing), di pulitura dei canali e del mantenimento del livello d’acqua sufficiente alla navigazione. La Waternet garantisce peraltro a 1 milione e 200.000 olandesi l’accesso alla rete di acqua potabile e garantisce una rete di acque pulite nelle città, nei fiumi e nei laghi intervenendo costantemente alla loro manutenzione. I servizi costano e si pagano dunque, com’è ovvio che sia. I benefici però sono sotto gli occhi di tutti. Nessuno si sognerebbe di recarsi ad Amsterdam, a Copenaghen, a San Pietroburgo, a Venezia senza fare il giro dei canali lungo la città e i suoi dintorni. Milano può ambire a questo? Certamente sì: lo dimostra la sua storia, ove i navigli in centro città e in campagna, sono stati per secoli una infrastruttura fondamentale per l’economia del territorio e possono continuare ad esserlo per l’industria turistica. Non si capisce per quale motivo Milano non possa tornare ad essere il cuore dei Navigli lombardi.

Battelli sul canale di Amsterdam
Gite in pedalò e in battello in un canale di Amsterdam

Ma torniamo al caso di Amsterdam: nei canali sono in via di sperimentazione alcuni battelli-robot che, oltre a provvedere alla pulizia delle acque, fungono da ponti provvisori per il passaggio delle merci e delle persone in occasione di eventi speciali in cui la città è sovraffollata. Una soluzione che si potrebbe applicare anche a Milano in un futuro non troppo lontano: penso alla settimana della moda o del design. Insomma, nulla vieta che questo connubio tra acqua e tecnologia possa essere sperimentato anche da noi per la manutenzione dei canali.

Via Fatebenefratelli
Come potrebbe essere via Fatebenefratelli all’incrocio con via San Marco se venissero riaperti i Navigli

Questo tuttavia potrà avvenire solo se passerà il referendum sulla riapertura dei navigli, fissato in autunno. L’operazione, com’è ovvio, avrà i suoi costi ma consentirà alla città di tornare a disporre di una rete di canali invidiabile, i cui benefici sul piano dell’industria turistica, dell’ambiente e della qualità della vita saranno tali da ripagare ampiamente le risorse impiegate. I Navigli sono il cuore di Milano. Una Milano senza la sua cerchia interna è una Milano senza cuore. Rendiamoci conto di cosa ci giochiamo con il referendum sulla riapertura.

Un turista russo a Milano sulle orme di Stendhal

Uno dei turisti russi che nel secolo scorso visitò Milano ricavandone un’impressione indelebile è lo storico dell’arte Pavel Muratov (1881-1950). Dopo aver soggiornato a Roma nel novembre 1911, Muratov si spostò nell’Italia settentrionale ove visitò Venezia e Milano. Nella città del Duomo trascorse alcuni mesi del 1912. Le sue riflessioni su quel viaggio furono pubblicate molti anni dopo, in un volume, Obrazy Italii, pubblicato nel 1924. In effetti, non è la prima volta che mi occupo di un turista russo in visita a Milano. In un post di un anno fa ho descritto ad esempio il soggiorno del pittore Vladimir Jacovlev avvenuto nel 1847.

Torniamo allo storico Muratov. Quando giunse a Milano, questi fu colpito da un certa aria di modernità. Rispetto alle città d’arte che aveva visitato nei mesi precedenti – Roma e Venezia – la città ambrosiana gli appariva animata da uno spirito d’intraprendenza, da un dinamismo tipico delle grandi metropoli europee. Al turista che amasse l’Italia per le sue antichità, per le sue maestose rovine segno di un grande passato, il primo contatto con Milano avrebbe destato una certa delusione.

Al viaggiatore, di ritorno da Roma o da Venezia, Milano appare come una città europea qualsiasi, situata oltre i confini dell’Italia vera e propria, cui la unisce soltanto un tenue legame. Non senza sforzo egli si impone di soffermarsi sul passato artistico milanese, mentre inevitabilmente i suoi pensieri e i suoi sentimenti lo riportano a ciò che ha appena lasciato.

[Per questi e altri passi dell’opera di Muratov si veda la traduzione in italiano a cura di Patrizia Deotto pubblicata in “Storia in Lombardia”, anno XXXIII, n.1., 2013, pp.59-94]

Queste tuttavia – si affrettava a chiarire Muratov – erano impressioni superficiali che potevano cogliere il turista che ad esempio avesse prenotato un albergo vicino alla Stazione Centrale, che si trovava a quei tempi in piazza della Repubblica. Per chi invece avesse voluto visitare attentamente la città ambrosiana, entrando in contatto con il vero spirito milanese, il suggerimento era di pernottare nel centro cittadino, magari a Piazza Fontana dove – sono parole di Muratov – “gorgoglia l’acqua delle Sirene e fino al mattino risuonano i canti e le arie dei concittadini della Scala, che rientrano a casa dai teatri e dai caffè senza pretese”. Le sirene sono le statue in marmo di Carrara della fontana disegnata dal Piermarini e realizzata da Giuseppe Franchi nel 1782.

La Milano che visitò Muratov nel 1912 era un città che si andava urbanizzando: la costruzione di nuovi edifici varcò la tradizionale cerchia dei bastioni fino a lambire i Comuni limitrofi. Ricordiamo che l’annessione del vasto Comune anulare dei Corpi Santi era avvenuta nel 1873; pochi anni dopo, nel 1923, altri Comuni sarebbero stati uniti a Milano fino a farle raggiungere l’estensione attuale.

Nel descrivere la città, Muratov oscillava tra due posizioni. Da un lato traspariva la sua ammirazione per la capitale morale del Paese, la città simbolo dell’Italia che guarda al futuro, dell’Italia industriosa che vive nella modernità differenziandosi nettamente da un’Italia “museo” immersa nel culto delle sue rovine e dei suoi monumenti.

Milano rimane una grande città, dove la modernità prevale su tutto il resto. […] Il soggiorno a Milano, probabilmente, ci insegnerà a riconciliarci con l’Italia di oggi. Tutti noi, ospiti di questo paese, avremmo dovuto da tempo considerare come un nostro dovere tale atteggiamento. Guardare alle città italiane soltanto come a musei, a cimiteri o a rovine romantiche, dove gli abitanti di oggi non sempre sono le degne comparse, significa mostrarsi irriconoscenti verso l’ospitalità che il paese e la nazione ci riservano. Questa nazione vive, respira, esiste; ha non soltanto un passato, ma anche un presente.

D’altra parte Muratov era affascinato dal tessuto medievale della vecchia Milano, che nei primi anni del Novecento era possibile cogliere ancora in modo significativo. Egli pareva bocciare gli interventi radicali della seconda metà dell’Ottocento che avevano compromesso l’unità del nucleo urbanistico originario.

Muratov ricordava il viaggio che Stendhal aveva compiuto quasi un secolo prima. In una delle sue celebri passeggiate per il centro, lo scrittore francese era partito dal Teatro alla Scala e, dopo aver attraversato la contrada di Santa Margherita, era giunto alla piazza dei mercanti per terminare il suo giro in piazza del Duomo. Muratov decise di ripercorrere l’itinerario di Stendhal, ma non mancò di rilevare le grandi differenze tra la città che aveva visto lo scrittore francese (che nel primo Ottocento contava 120.000-150.000 abitanti) e la città da lui visitata. Una Milano popolata ai primi del Novecento da più di 700.000 abitanti.

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Caseggiati demoliti per l’apertura di Via Dante. Foto del 1886.

La demolizione dell’antica piazza dei Tribunali con le sue cinque porte storiche ove convergevano i principali corsi cittadini era ricordata dallo storico russo come esempio imperdonabile di cancellazione dell’antico isolato medievale: sulle loro macerie furono costruite via Mercanti e via Dante per collegare il Duomo al Castello Sforzesco. A proposito di via Dante, Muratov non esitò a bocciarla con un giudizio netto. Ricordava poi la demolizione degli isolati antistanti al Duomo, che furono abbattuti per far luogo alla piazza immensa esistente oggi:

La Piazza dei Mercanti, un tempo pittoresca, che si affacciava con le sue cinque porte sulle vie attigue, è attraversata da una nuova strada che poco più avanti assume un aspetto respingente, nonostante porti il nome di via Dante. Nel 1859 la piazza del Duomo ha perso i suoi antichi portici, che risalivano all’epoca di Gian Galeazzo Visconti. Innumerevoli tram compiono il loro eterno giro della piazza, accompagnati dal fastidioso stridere delle ruote e dal suono del campanello. La folla accorre a frotte all’imbocco della Galleria – prototipo di tutti i passages a vetrate.

Sugli “antichi portici” Muratov commetteva un errore. Il Coperto dei Figini era un  edificio quattrocentesco che non risaliva al governo di Gian Galeazzo Visconti, bensì al periodo sforzesco essendo stato edificato tra il 1467 e il 1480 su disegno di Guiniforte Solari:

In fondo la Milano più cara a Muratov era quella secolare risalente alla tarda romanità, al medioevo, all’antico regime fino a Napoleone, la cui cifra urbanistica egli era in grado di cogliere nelle antiche contrade che portavano verso l’Ospedale Maggiore, verso Sant’Eustorgio o il palazzo Borromeo nell’omonima piazza:

Lasciamo ora il Duomo e la Scala e inoltriamoci nell’intrico di vie che conducono verso l’Ospedale Maggiore, il Palazzo Borromeo, la Chiesa di Sant’Eustorgio. Qui non c’è quasi nulla della Milano moderna, mentre molto si conserva della Milano antica, costruita con impeccabile buongusto e discrezione nel Cinquecento, nel Seicento e persino nel Settecento fino all’epoca napoleonica. Questa Milano è rimasta, almeno per tre quarti, intatta….

A me pare che oggi sia molto difficile cogliere nella sua interezza il vecchio tessuto urbanistico della città. Qualcosa è possibile ancora vedere nel quartiere vicino al palazzo Borromeo, dove si trovano le Cinque Vie e i resti della Milano romana ma anche lì ci sono stati interventi radicali come ad esempio nella zona attorno alla Borsa e alla piazza degli Affari. Molto meno si è conservato in Porta Ticinese o verso l’Università degli Studi: qui gli interventi di epoca fascista hanno sconvolto ancor più in profondità l’antica impronta medievale. Gli isolati del Bottonuto furono demoliti – com’è noto – negli anni Trenta per costruire piazza Diaz. Considerazioni non molto dissimili possono essere fatte per la zona intorno a piazza della Vetra in Porta Ticinese. Il vecchio tessuto urbanistico riemerge qua e là, quasi a macchia di leopardo. Il turista attento, che possa contare su una buona guida, è ancora in grado di vedere gli edifici del tempo antico, spesso nascosti dietro i palazzi moderni.

In fondo, le memorie di Muratov sono importanti perché ci consentono di individuare i segni materiali, gli elementi tipici di questa Milano vecchia: dalle case nobili, che presentavano cortili interni articolati in colonne di granito secondo il disegno delle case patrizie dell’antica Roma, alle strade in pietra, agli stessi campanili delle chiese.

Queste antiche vie milanesi sono eleganti con le loro facciate dei palazzi in ombra, con le due caratteristiche strisce di listoni di pietra che corrono parallele al centro dell’acciottolato. Spesso alla fine di queste strade svettano tipici campanili lombardi quadrangolari, in laterizio, segnalando la presenza di alcune chiese storiche di Milano: Sant’Ambrogio, Sant’Eustorgio, San Sepolcro, San Gottardo. Molte di esse erano situate ad anello intorno alla vecchia Milano, lungo il “Naviglio”, lo stretto canale che circondava la città.

Questo, il Naviglio Interno, era un altro prezioso elemento della Milano di Stendhal che la Milano del 1912 ancora conservava. Una infrastruttura secolare che consentiva la navigazione dai laghi alla città. Elemento distintivo dell’identità milanese, il Naviglio interno fu costruito alla fine del Quattrocento. Com’è fin troppo noto, esso venne chiuso dai fascisti pochi anni dopo la visita di Muratov, nel 1929/30.

Lo storico russo osservava come il Naviglio cingesse ancora gran parte del centro storico, attraversando da un lato i quartieri di Porta Ticinese e di Porta Romana, popolati da un’operosa borghesia di artigiani, commercianti e impiegati, dall’altro i quartieri aristocratici di Porta Orientale e Porta Nuova, ove si trovavano gli eleganti giardini dei palazzi nobiliari, luoghi d’incantevole bellezza.

Sul Naviglio, che spesso lambiva non le rive, ma le facciate stesse delle case oppure i recinti dei giardini e dei cortili, si possono scorgere i lati più pittoreschi della vita milanese: quella popolare nei dintorni di San Nazaro e di San Lorenzo e quella signorile dalle parti della Chiesa di Santa Maria della Passione, famosa per l’iscrizione incisa sul suo portale: “Amori et dolori sacrum”.

Sulla riva del Naviglio si affaccia il Palazzo Visconti di Modrone, [tuttora esistente nella via omonima], che ispirò ad André Suarez queste righe per il suo Voyage du condottière:

Il giardino Visconti di Modrone sul Naviglio Interno di Porta Orientale, foto di Arnaldo Chierichetti risalente ai primi del Novecento,
Il giardino Visconti di Modrone sul Naviglio Interno di Porta Orientale, foto di Arnaldo Chierichetti risalente ai primi del Novecento,

“Sembra fatto apposta per offrire un rifugio agli amori segreti e forse peccaminosi. Un giardino di alberi secolari, pieno di gelsomini e di rose, cade a picco sullo specchio delle acque morte; è delimitato da una balaustrata di pietra, pomposa e un po’ pesante, e pur tuttavia elegante. Il verde e i fiori animano il silenzio, e la loro presenza appassionata è l’unica festa in questo quartiere miserabile della città. Degli amorini sorreggono uno stemma…la giovane vite e i rami degli alberi carezzano lievi ogni voluta, ogni riccio della balaustrata. Tra le foglie si delinea un loggiato a sei archi che separa le due ali del palazzo. Dolce giardino segreto, incantevole riparo! Lo zampillo di una fontana lancia il suo getto cangiante nel sole. Il canale riflette i rami degli alberi, lasciando galleggiare le foglie sulle sue acque meste. A Milano non c’è altro rifugio per il sogno, l’amore e la malinconia”.

I quartieri popolari nella Milano del 1881

In un volumetto pubblicato dall’editore Vallardi in occasione della Esposizione Nazionale del 1881, un articolo intitolato “La vita intima” presentava uno spaccato interessante della vita quotidiana dei milanesi.

L’autore, Giuseppe Sacchi (1804-1891), fu un educatore e uno studioso particolarmente conosciuto al suo tempo. Varrà la pena ricordare a tal proposito il ruolo decisivo ch’egli assunse negli anni Trenta dell’Ottocento, quando si fece promotore dei primi asili regolati secondo i principi pedagogici di Ferrante Aporti. Negli anni Cinquanta  s’impegnò a garantire l’intervento dello Stato asburgico nel campo delicato dell’educazione infantile e popolare. Funzionario integerrimo, ebbe dal governo austriaco la medaglia d’oro al merito civile per la sua opera indefessa a sostegno dei disagiati. Sacchi era anche conosciuto per aver diretto, sempre negli anni Cinquanta, gli Annali Universali di Statistica, la celebre rivista di economia su cui avevano scritto economisti quali Melchiorre Gioja, Gian Domenico Romagnosi, Carlo Cattaneo. Nel 1860, un anno dopo la liberazione di Milano dal dominio asburgico, fu nominato prefetto della Biblioteca Braidense. Educatore e pubblicista, uomo di profonda cultura, fine conoscitore della società milanese,  il Sacchi era stimato per il suo impegno a sostegno delle classi disagiate.

Ma torniamo al 1881, l’anno dell’Esposizione Nazionale, quando il Sacchi scrisse l’articolo da cui abbiamo preso le mosse. L’anziano studioso conduceva un’analisi delle classi sociali milanesi, svolgendo una similitudine tratta dalle scienze fisiche che mostrava l’influenza del positivismo allora dominante. Come nella composizione del sottosuolo, egli notava che la cittadinanza era divisa in tre classi sociali:

E’ questo uno studio quasi geologico. La composizione demografica di Milano, può dirsi che presenti tre grandi strati. Nel primo strato ove i geologi sogliono scoprire la sede del quarzo e del granito sotto cui cova il fuoco di un perenne vulcano, noi riscontriamo quella parte del nostro popolo che una volta chiamavasi plebe. Caratteri granitici che resistono contro chi tenta opprimere, e tempre ad un tempo vulcaniche le quali si muovono e si commuovono ad ogni alito di novità: quest’è l’indole caratteristica del vecchio popolo ambrosiano. 

[G. Sacchi, La vita intima in Vita Milanese, Vallardi editore 1881, pp.77-96]

Sacchi, proseguendo nella similitudine, enunciava poi le altre classi sociali milanesi (la classe media e la nobiltà) su cui non mi soffermo in questa sede.

Credo invece di grande interesse le riflessioni di Sacchi sul popolino ambrosiano, i cui insediamenti nel nucleo della città antica (oggi coincidenti con il centro storico, zona 1) erano individuati in tre zone. Nel 1881 le umili classi lavoratrici non avevano mutato la loro esistenza secolare nei quartieri di Porta Tosa (inclusa nel sestiere di Porta Orientale), di Porta Garibaldi (ex Porta Comasina) e Porta Ticinese. A colpire era la specializzazione di queste fasce di popolazione. Sacchi tralasciava di prendere in esame il quartiere di Porta Garibaldi ove sappiamo che vivevano, almeno fin dal XVIII secolo, tante famiglie di muratori e manovali. Nel suo intervento egli descrisse invece il popolino di Porta Tosa (oggi Porta Vittoria) e Porta Ticinese. A Porta Tosa abitavano tanti commercianti attivi nel mercato delle verdure:

Verziere Angelo Inganni
Il Verziere in un dipinto di Angelo Inganni risalente al primo Ottocento

La popolazione di Porta Tosa che ha per centro il Verziere (l’antico viridarium vescovile) è tutta dedita alla vita del comprare e del rivendere le cose mangerecce. Essa attende al mercato omnigeno di ogni grazia di Dio, e vive tutto il dì sulle piazze, si ciba alle taverne, e solo di notte si ritira ai suoi abitacoli che li chiama essa stessa i suoi pollai.

Seguivano alcune preziose riflessioni sul popolino di Porta Ticinese. Qui però il Sacchi mostrava di riferirsi a uno spazio esteso, includendo rioni del centro che erano compresi per converso nei sestieri di Porta Vercellina e di Porta Romana. Basandosi sul tracciato secolare del Naviglio Interno, l’anziano studioso prendeva in esame una zona che andava dal ponte di San Vittore (ove oggi si trova la pusterla di Sant’Ambrogio) al ponte di Porta Romana.

La vita intima del popolo è di preferenza concentrata nel vecchio quartiere di Porta Ticinese. Tutta questa parte della città che si distende dal sud al sud ovest, e si allarga a modo di un ventaglio dal Ponte di Sant’Ambrogio per San Vittore sino al Ponte di Porta Romana e fa centro a San Giorgio in Palazzo, raccoglie quasi un terzo della popolazione di Milano.

Ai lavoratori di Porta Ticinese erano riservate le analisi del Sacchi. Stando alle sue considerazioni, nel 1881 ancora esistevano due delle tre anime popolari del quartiere. La prima era costituita dai falegnami, dai lavoratori di marmi e di ferro le cui officine si trovavano nei quartieri di Cittadella e Viarenna: il Naviglio Interno sembrava delimitare e caratterizzare questo insediamento di lavoratori, le cui officine confinanti con il canale si estendevano dal ponte delle Pioppette a quello dei Fabbri.

Al di là del Naviglio Interno, ove oggi si trovano le vie Vettabbia e Santa Croce, c’era l’altra anima del quartiere: si trattava dei lavoratori specializzati nella tessitura e nella tintura della seta. Il Sacchi individuava 500 famiglie chiamate, con un’espressione che lasciava trapelare un certo affetto, “il nostro piccolo Lione: un popolo di operai onesti, educati e gentili, che sentono più che mai la loro morale dignità”.

Vetra nel primo Ottocento2
Piazza della Vetra in un dipinto del primo Ottocento

Il terzo insediamento di operai era scomparso da tempo quando scriveva il Sacchi. Egli tuttavia volle ricordarlo perché la città non dimenticasse la sua storia. Si trattava del quartiere della Vetra, dietro la chiesa di San Lorenzo, ove nel primo Ottocento erano attive sedici concerie che, servendosi delle acque della Vettabbia, “lavoravano più di settecentocinquantamila pelli fornite da 94 macellerie”: un quartiere malfamato ove imperversava la delinquenza. La zona aveva tuttavia un suo fascino singolare. Le numerose abitazioni, formate al loro interno da loggiati di legno, erano abitate da tante famiglie povere. Credo sia opportuno riportare integralmente le parole con le quali il Sacchi ripercorreva la storia della Vetra, luogo di miserie e atrocità. Qui fu operante per secoli, nella Milano d’antico regime, il patibolo ove venivano eseguite le condanne a morte per impiccagione riservate ai criminali delle classi popolari:

Il terzo alveare, ormai disfatto, è posto nel centro di questa civica regione alla piazza della Vetra. Su questa piazza, che sorge a tergo del Tempio di San Lorenzo, si alzava una volta l’infame patibolo, ed era il campo scellerato della città. Fra quallidi strati di macerie spuntavano qua e là poveri steli di erbacce che porgevano di primavera un magro pascolo a branchi di capre che ci davano un latte medicinale. In mezzo a quegli sterpi sorgeva un misero tronco di pietra, ove su una lastra metallica vedevansi dipinte fra le fiamme immagini umane col capestro al collo o colla testa sanguinolenta e recisa, coll’iscrizione espiatoria: pregate per i poveri giustiziati. Il popolo ambrosiano a canto alla Giustizia ha sempre voluto porre la Misericordia.

Quella località rassomigliava di notte alla famosa Corte dei miracoli stupendamente descritta da Victor Hugo nel suo romanzo Notre Dame. In certe luride taverne poste lungo questa piazza si ritraevano ai loro serali bagordi più di mille accattoni che qui noleggiavano all’incanto i veri ed i finti ciechi per condurli di giorno a limosinare.

Mercato latticini piazza vetra
Il mercato dei latticini in piazza Vetra in un’incisione di fine Ottocento

Nel 1881 tutto era scomparso. Non rimaneva più nulla di questi tristi bassifondi. Come ricordava Giuseppe Sacchi, la copertura della Vettabbia dietro San Lorenzo e la costruzione di alcuni edifici avevano contribuito a migliorare notevolmente la vita del quartiere. Al posto delle sozze concerie sorgevano due case ove si teneva un affollato mercato di latticini, erbe e frutta.

Una grande occasione per Milano: la riapertura dei Navigli

Nella breve risposta a una lettrice della sua rubrica sul Corriere della Sera la giornalista Isabella Bossi Fedrigotti, il 30 gennaio scorso, si è espressa contro la riapertura dei navigli, giudicandola un’impresa costosa perché tesa unicamente ad ingentilire il paesaggio urbano. Si tratterebbe quindi di uno spreco di risorse senza alcun beneficio per la collettività.

Romanticamente sarei d’accordo anch’io a riportare le acque in superficie e sappiamo che sono stati presentati validi studi di fattibilità, tuttavia mi sento di dire che gettare così tanto denaro in un’impresa gigantesca che ha lo scopo quasi esclusivo di ingentilire il paesaggio cittadino, mi pare oggi abbastanza fuori luogo. E lo dico perché quotidianamente, grazie a questa rubrica, ho notizia di presidi che chiudono, di sussidi che vengono abrogati, di personale che scarseggia in qualche servizio: sempre a causa di carenza di fondi”.

Le ha risposto bene il presidente dell’Associazione Riaprire i Navigli, l’urbanista Roberto Biscardini, che ha approfondito il tema da molti anni e, da consigliere comunale di Milano, conosce bene gli ingranaggi della macchina amministrativa comunale.

Vale la pena di contestare questa affermazione innanzi tutto perché è frutto di un grave errore di metodo che una persona che ricopre un importante ruolo culturale come Bossi Fedrigotti non dovrebbe commettere. Essa infatti confonde la spesa (spesa corrente) che il Comune dedica ai servizi di cui lamenta la riduzione con le risorse (spese in conto capitale, cioè investimenti) destinate a finanziare il progetto di riapertura dei Navigli, un progetto in grado di aggiungere valore alla città e di produrre reddito. Se poi si scende nel merito e andiamo a vedere a quanto ammonta la spesa in conto capitale che il Comune di Milano ha destinato nel 2015 agli investimenti (viabilità, trasporti, ambiente territorio, ecc) vediamo che essa è ammontata a ben 3,6 miliardi di euro.

Il costo del progetto per la riapertura è stato stimato in 200 o in 400 milioni di euro a seconda delle modalità che il Comune intende seguire.

Cosa posso dire? Credo che al Corriere molti abbiano una paura folle che la Martesana torni a scorrere dietro la sede del giornale in via San Marco! Una paura che non riesco francamente a spiegarmi.

In realtà, mi vado convincendo sempre più che la contrarietà alla riapertura sia in malafede o rifletta una presa di posizione dettata da interessi politici. Non mi stupisce che la signora Bossi Fedrigotti esprima la sua contrarietà in piena campagna elettorale, quando una candidata alle primarie (la vicesindaca Balzani) si è espressa nettamente contro la riapertura.

E’ però interessante notare che i contrari sono spesso quanti abitano in centro, a poca distanza dai navigli da riaprire, assaliti dalla paura dei lavori. Non sono disposti a tollerare qualche disagio (provvisorio) per un progetto che renderebbe la città un luogo stupendo in cui vivere e lavorare. Così facendo, si rivelano ostinati difensori di una Milano davvero brutta, una città che dovrebbe appartenere al passato con il suo asfissiante traffico automobilistico. Difensori di una città invivibile contro una Milano di domani fatta di attenzione all’ambiente (anche in centro), alla qualità della vita, alla salute dei cittadini; una Milano che torna ad essere città d’acqua e – come Amburgo, Amsterdam, Bruges, San Pietroburgo, Londra, Parigi – valorizza e conserva il suo grande patrimonio storico: i navigli.

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Il Laghetto di San Marco (oggi via San Marco) in una foto degli anni Venti del secolo scorso.

Quanti si oppongono non capiscono o non vogliono capire i benefici straordinari che la riapertura recherà al centro – e non solo al centro – nella valorizzazione a fini turistici dei navigli. Altro che riapertura nostalgica! Basta guardare quel che sarebbe via San Marco e il suo storico laghetto, reso ancor più bello dai dehors e dai percorsi ciclopedonali previsti lungo le sue sponde.

Colpisce che – fatta eccezione per Sala (che sui navigli ha pubblicato due anni fa un bel libro edito da Skira) – gli altri candidati alle primarie del centro sinistra non abbiano capito che le periferie torneranno ad essere belle e vivibili se anche il centro lo sarà. Ogni giorno i cittadini della Milano metropolitana vengono in centro dalle periferie e dai Comuni dell’hinterland: chi con i mezzi pubblici, moltissimi (troppi) con l’automobile e i motorini. Risultato? Le vie della cerchia interna sono intasate da un traffico automobilistico asfissiante che, oltre ad inquinare, rende problematici gli spostamenti dei pedoni e dei ciclisti, entrambi a contatto con uno smog dannoso alla salute.

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Ponte ciclopedonale nel distretto urbano di Sydhavn, vicino a Copenaghen, Danimarca.

E’ importante migliorare la vita delle periferie ma queste hanno senso se sono legate al centro da una politica coerente. Altrimenti scusate, irriducibili paladini delle periferie e delle periferie soltanto  – mi rivolgo principalmente ai sostenitori della signora Balzani – perché non proponete di renderle Comuni separati, indipendenti da Milano? Nessuno – giustamente – si sogna questo perché le periferie urbane sono legate al centro da rapporti di natura sociale ed economica tanto intensi quanto inscindibili. Risposte adeguate potranno venire solo da un decentramento amministrativo che faccia delle zone tanti municipi dotati di funzioni incisive in materie che sono proprie dell’area metropolitana. Compito svolto finora egregiamente dalla giunta Pisapia.

Colpisce quindi che nessuno dei candidati – fatta eccezione per Sala – abbia capito questa elementare realtà. Il centro città non è solo di chi ci abita, ma di quanti lo visitano e ci lavorano. Ecco perché è importante che anch’esso sia bello e vivibile, facendone un’area pedonale collegata alle periferie in un rapporto equilibrato. Vivibile il centro non sarà certamente fino a quando il traffico automobilistico intaserà le vie della cerchia interna. I navigli riaperti saranno infrastrutture turistiche di straordinaria importanza per migliorare la qualità della vita perché il centro non è solo di chi ci abita ma – lo ripeto – di quanti vi risiedono per svago o per lavoro. Il potenziamento delle linee metropolitane mediante l’attivazione della M4 renderà più facile lo spostamento dei cittadini riducendo l’uso della macchina.

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Ponte girevole sul Canale Saint Martin di Parigi.

I navigli renderanno possibili nuove attività lavorative nel campo dei servizi legati al turismo. Ma è importante insistere che la riapertura avrà un senso solo se renderà possibile la navigabilità della Martesana fino alla Darsena di Porta Ticinese mediante il Naviglio interno. Un progetto quindi su scala metropolitana e regionale teso a collegare, rendendoli navigabili, i tre navigli lombardi che scorrono nelle periferie urbane: Naviglio Martesana, Naviglio Grande e Naviglio Pavese. Altro che sogno di nostalgici! Il fine è valorizzare a fini turistici un patrimonio culturale e ambientale che renderà Milano una metropoli davvero internazionale, degna di stare al passo con le maggiori città europee.

Perché Milano sta risorgendo a nuovo splendore

In un articolo scritto a gennaio, intitolato Milano vetrina del Made in Italy, chiudevo con l’augurio che la città ambrosiana potesse divenire nel periodo di Expo 2015 il fiore all’occhiello della cultura e della creatività italiana. Oggi devo dire che siamo sulla buona strada. La metropoli sta diventando una città fervida d’iniziative in svariati ambiti, una metropoli in grado di affascinare tanti giovani. Milano è caratterizzata da un policentrismo che ne arricchisce sensibilmente l’offerta culturale. Ogni zona presenta tratti distintivi che si integrano nella trama cittadina come tessere di uno splendido mosaico.

Fondazione Prada
Fondazione Prada

La Fondazione Prada ha aperto al pubblico in zona Ripamonti, in quelli che erano un tempo i Corpi Santi di Porta Romana a due passi dal Vigentino: con le mostre di arte classica e arte contemporanea ha reso accessibili enormi spazi espositivi nella sede di una fabbrica di liquori risalente agli anni Dieci del secolo scorso. L’edificio è quello dell’antica distilleria SIS che produceva il famoso brandy Cavallino Rosso. Oggi il vasto stabile, con la sua torre industriale verniciata d’oro svettante in un panorama di aree dismesse, costituisce un punto di riferimento per tanti intellettuali e creativi: tutti desiderosi di aggiornarsi sulle sperimentazioni artistiche da cui trarre ispirazione nei campi del design, della fotografia, del marketing. Alla Fondazione Prada va il merito di aver consentito la riqualificazione di una vecchia area industriale, fino a pochi anni fa in stato di palese degrado.

garibaldi repubblicaPrendiamo un altro quartiere, nella parte opposta della città, zona Garibaldi-Repubblica: qui l’architettura dei grattacieli che svettano con soluzioni originali e avveniristiche, il ponte su via Melchiorre Gioia, il raffinato design delle piazza Gae Aulenti ed Alvar Aalto, i prati vicino alle vie Colombo e Galilei hanno completamente ridisegnato la zona corrispondente ai due quartieri situati fuori dai bastioni, negli antichi Corpi Santi di Porta Comasina e di Porta Nuova. Oggi il quartiere Garibaldi-Repubblica si pone tra le aree residenziali più esclusive della città, continuando – sia pure in modi profondamente diversi – quello stile aristocratico che il visitatore poteva toccare con mano nei secoli passati, in alcune contrade dei sestieri di Porta Nuova e di Porta Orientale. La torre del palazzo di Unicredit, la cui cuspide si eleva verso il cielo superando in altezza la Madonnina del Duomo, costituisce il simbolo della moderna city finanziaria, visibile a svariati chilometri di distanza.

Darsena1Spostiamoci ancora a sud, questa volta in direzione sud-ovest. Troviamo la nuova Darsena, resa finalmente accessibile grazie a un’opera di recupero che, seppur oggetto di contestazioni, è stata certamente positiva: la sapiente valorizzazione dei navigli ha consentito l’apertura di uno spazio urbano ove l’acqua ha assunto un peso decisivo nel favorire l’attrazione turistica del quartiere, divenuto in poco tempo una delle zone più frequentate della città, meta di tanti giovani attratti dalla storica bellezza del luogo.

Ho citato tre quartieri che riflettono anime diverse della città, uniti da un senso di appartenenza alla comunità ambrosiana. La riqualificazione di tanti isolati cittadini è spia del cambiamento profondo di Milano cui mi riferivo all’inizio. A quale filosofia è ispirato questo “rinascimento milanese”? E’ un nuovo sentire, un senso di comunità che rende milanesi nella moda, nell’etica del lavoro, nella vita quotidiana alternativa, negli stili di vita più originali e creativi. Una città che sa essere un grande laboratorio del Made in Italy, aperta alle nuove frontiere dell’arte, della tecnologia, del design.

Il segreto di questo successo, che si spiega a monte con un profondo cambiamento di mentalità e di stili di vita, risiede a mio parere nella capacità di inventare il futuro recuperando in chiave nuova elementi storici dell’identità urbana. Penso alla Darsena, ma anche allo stesso progetto di riapertura dei navigli in centro città: i navigli, elementi secolari del paesaggio urbano milanese, caduti nell’oblio per gran parte del Novecento, vengono ora recuperati, reinventati per abbellire il paesaggio urbano a fini turistico culturali. Milano torna ad essere finalmente una città vivibile, a misura d’uomo.

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I milanesi scesi in strada nella manifestazione “Milano non si tocca” promossa dal Sindaco di Milano Giuliano Pisapia il 3 maggio

Un tempo si diceva che a Milano non si passeggia ma si lavora. Questo è ancora vero ma non basta a descrivere la vita cittadina. Nella metropoli che si va costruendo passeggiare per le vie e le piazze della città non è più un privilegio di turisti e sfaccendati. I milanesi si stanno riappropriando di Milano perché sentono di amarla. Certo, la amano a modo loro, con stile dimesso, non ostentato, in linea con l’autentica anima ambrosiana. Basti pensare al successo dell’iniziativa (hashtag #Milanononsitocca), nella quale migliaia di milanesi – contro ogni aspettativa – sono scesi in strada a metà maggio, uniti dalla volontà di ripulire gli edifici e di manifestare contro i vandali che pochi giorni prima, durante una manifestazione, avevano devastato vetrine e macchine in una zona del centro.

Riapriamo i navigli
Progetto di riapertura del naviglio tra via San Marco e via Fatebenefratelli

Se questo è il clima che si respira oggi, non è difficile pensare che un giorno i milanesi, anziché fuggire dalla metropoli nel weekend per recarsi al lago o al mare, scelgano di passeggiare lungo i canali riaperti del centro cittadino, magari salendo su battelli turistici in tragitti panoramici che mettano in collegamento Milano e l’Adda, Milano e Pavia, Milano e il Ticino; oppure, come molti giovani stanno già facendo in Darsena, sedendo sulle rive dei canali o nei prati vicino ai moli per le imbarcazioni per trascorrere in compagnia alcune ore del fine settimana.

Perché riaprire il naviglio in centro città

Il naviglio interno è un po’ come i  fiumi carsici: si nascondono per chilometri sottoterra per riaffiorare nuovamente alla luce. Il canale, interrato nel 1929 durante il fascismo, scomparve per decenni dalla memoria dei milanesi. Per gran parte del Novecento di esso non rimase più traccia. Continuò a vivere nei ricordi dei vecchi, dei cultori di storia milanese e di qualche poeta. Chi l’avrebbe detto che sarebbe tornato a calcare le scene da protagonista? Da un decennio rivive nella mente dei milanesi. Oggi si discute addirittura di una sua parziale riapertura nelle vie del centro. Non si tratta di un’illusione come qualcuno ha scritto. Il progetto della riapertura del naviglio è un fatto concreto: elaborato dal Politecnico di Milano da gente seria e competente, è stato sottoposto alla giunta comunale per una stima dei costi e della sua fattibilità. Prevede la parziale riapertura del canale, le cui acque tornerebbero a scorrere lungo le vie Melchiorre Gioia, San Marco, Fatebenefratelli, Senato, Visconti di Modrone, Francesco Sforza, Santa Sofia, Molino delle Armi, De Amicis, via Conca del Naviglio fino alla Darsena di Porta Ticinese. Negli ultimi anni sono stati pubblicati diversi libri sull’argomento: ad esempio il bel volume di Empio Malara, Il Naviglio di Milano, (Hoepli, Milano 2008) ma anche quel gioiello di storia milanese che è il vecchio libro di Giacomo Carlo Bascapé, Il Naviglio di Milano ripubblicato dal Polifilo l’anno scorso.

Perché oggi si parla di riaprire il naviglio? Torniamo a quel 1929, quando il podestà Giuseppe Capitani d’Arzago ne decise la chiusura. Milano andava mutando radicalmente la sua fisionomia urbana. La città nuova, che i fascisti vollero lanciata verso il progresso dell’economia industriale, uscì trasformata dell’opera del piccone. Molte vie del centro furono oggetto di interventi radicali, che alterarono in molti punti l’originario impianto medievale. Pensiamo ad esempio a piazza Diaz, costruita mediante la demolizione dell’antico quartiere del Bottonuto; al superbo edificio della Stazione Centrale, al palazzo dell’Inps in piazza Missori: facciate che mostrano ancora oggi quale fosse la politica di quegli anni, tutta informata all’esaltazione della razza fascista.

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Adriano Celentano in una foto degli anni Sessanta.

La città del boom economico degli anni Cinquanta e Sessanta ereditò in gran parte lo spirito di quella fascista: una metropoli forte, orgogliosa, in marcia verso il progresso. Nel dopoguerra fu tutto un costruire palazzi ove un tempo esistevano piccole chiese e vecchie cascine. Nel 1965 Adriano Celentano scriveva Il ragazzo della via Gluck pensando con nostalgia alla Milano circondata dai campi che andava sparendo sotto i colpi della speculazione edilizia. Come diceva Adriano? “Quella casa in mezzo al verde…dove sarà???”.  S’innalzarono i primi grattacieli. I disastri e le miserie della guerra erano scomparsi. Arrivarono gli anni di gomma, delle prime automobili e motorini di massa: nella Milano del boom le porte erano aperte a chiunque aveva voglia d’intraprendere. Una città lanciata verso l’innovazione, tutta votata al culto del progresso.

In quella Milano il naviglio interno non poteva aver spazio. Chi aveva tempo per capirne il significato? Quale utilità poteva rivestire in una città ansiosa di costruire? Il naviglio interno era il testimone scomodo di una Milano scomparsa. Le sue acque maleodoranti a due passi dalla Madonnina, quelle su cui erano transitati i barconi carichi di merci e di passeggeri facevano parte di un passato da dimenticare. Un passato scomodo perché ricordava ai milanesi quali erano state le sofferenze e i sacrifici dei loro antenati; alcuni morti suicidi nei gorghi del naviglio che, come scriveva Manzoni in un epigramma, “gibigianando va“.

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Gita in barca sulla Martesana da Canonica a Trezzo in una cartolina del 1918

Nella vecchia Milano dei navigli lo sviluppo economico era stato lento ma progressivo. Era una città fatta di povertà e di tante miserie quotidiane: una Milano umile, percorsa da uno spirito di comunità in cui i nobili e i borghesi non vivevano su un altro mondo ma aiutavano i poveri, gli anziani, i malati, i meno fortunati impegnandosi assiduamente negli enti assistenziali e caritativi. Tutta un’altra realtà rispetto alla Milano del Novecento, sede dell’industria e del terziario, tutta immersa nel culto del lavoro per il lavoro, di un arricchimento che ha fatto perdere di vista lo spirito di umiltà e il culto delle tradizioni ambrosiane.

Eppure, per uno di quegli strani paradossi che ci riserva il divenire storico, lo spirito della Milano novecentesca sta svanendo, lasciando spazio a una mentalità diversa, più a misura d’uomo. La crisi economica ha costretto i milanesi a ripensare se stessi e il loro modo di vivere, anzi di sopravvivere ai colpi della recessione.  Può stupire ma nella città di oggi si respira un’atmosfera più vicina alla piccola Milano di Manzoni e di Stendhal. Una Milano fatta di assistenza, di attenzione verso l’altro, di carità, di impegno concreto a sostegno degli ultimi.

Ieri, mentre passavo per una via non molto lontano dal centro, a pochi passi da Porta Romana, ho visto un giovane che pedalava su una strana bicicletta: la parte anteriore era costituita da una pedana su cui erano sistemati, legati assieme, alcuni pacchi e scatole di varia larghezza. Quindici anni fa vedevo anonimi furgoncini attraversare veloci la strada. Oggi vedo biciclette che trasportano merci.  Forse sbaglierò ma credo che questi anni duri stiano cambiando la mentalità e gli stessi modi di vivere dei milanesi.

Ecco per quale motivo, nella nuova Milano che sta nascendo sulle rovine di quella novecentesca, la riapertura del naviglio interno potrebbe essere un’occasione unica: sarebbe il segno che la vera anima di Milano non è quella cinica, indifferente ed egoista del cumenda cui siamo stati abituati da certa vulgata nazionale, ma quella bonaria, altruista, laboriosa; quella – per intenderci – che, molti secoli fa, realizzò i navigli. La riapertura del canale in centro non consentirebbe soltanto di riattivare a fini turistici il collegamento delle acque della Martesana con quelle del Naviglio Grande. Ridonerebbe a Milano la sua identità originaria di città a misura d’uomo: città di lavoro ma anche città in cui condividere gli spazi in un ambiente vivibile, pittoresco, ricco di verde.