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Perché l’Europa non sa rinnovarsi

A Milano sono sorti i maggiori movimenti politici e culturali, alcuni destinati a rivoluzionare i costumi e gli stili di vita degli italiani, altri ad incidere in profondità nelle strutture politiche e amministrative dello Stato. Gli uni e gli altri tesi a cambiare la società per fondarne una diversa, nel bene e nel male. Milano vide la nascita del socialismo moderato di Filippo Turati, riunito nella Lega Socialista Milanese fondata nel 1889; Milano fu la culla del fascismo di Benito Mussolini, i cui fasci di combattimento vennero fondati in piazza San Sepolcro nel 1919. Ho citato due esempi tra i tanti per mostrare la vocazione riformista e rivoluzionaria di Milano.

Se allarghiamo la visuale alla società del Vecchio Continente, ci accorgiamo che la rivoluzione è stata una costante della storia europea. Molti però si pongono questa domanda: nonostante il progresso tecnologico ci abbia messo a disposizione strumenti che vent’anni fa erano impensabili, perché la rivoluzione è divenuta oggi il grande assente della storia occidentale? Perché al giorno d’oggi sembra non esistere più in Europa la capacità di pensare e operare per un cambiamento delle istituzioni teso a migliorare la condizione di vita dei cittadini per un futuro migliore? Una domanda, se ci pensiamo bene, nient’affatto peregrina in tempi difficili come quelli attuali, caratterizzata da diseguaglianze e ingiustizie ancor più marcate rispetto al passato.

IMG_6249L’interessante libro dello storico Paolo Prodi, Il tramonto della rivoluzione (Il Mulino, Bologna 2015, 119p) cerca di capire le ragioni di questo dilemma. L’autore, riprendendo il pensiero dell’intellettuale tedesco Eugen Rosenstock Huessy, collega il concetto di rivoluzione alla storia dell’Occidente medievale e moderno. Fino ad alcuni anni fa l’Europa si è caratterizzata rispetto alle altre civiltà del pianeta per la presenza nella sua storia di rotture, di movimenti rivoluzionari che, mettendo in discussione le istituzioni esistenti, cercarono di combattere le ingiustizie. Il progresso occidentale – ci dice il professor Prodi – è stato in buona parte il risultato di queste rivoluzioni che ne hanno alterato di volta in volta la struttura sociale e istituzionale.

Questa Europa, segnata dal graduale mutamento delle sue istituzioni, ha un’origine ben precisa. La riforma gregoriana dell’XI secolo aprì agli europei il tortuoso sentiero della libertà politica; spezzò il monopolio del potere in capo all’imperatore o al papa segnando la graduale formazione di un equilibrio pluricentrico: da un lato i poteri secolari (imperatore, principi, città), che governarono i sudditi nella sfera dei rapporti civili in via sempre più autonoma dalla chiesa, dall’altro il potere ecclesiastico, ristretto progressivamente all’esercizio dei sacramenti e alla giurisdizione del foro interiore, della vita religiosa degli europei.

Da questa frattura originaria ebbe origine il pluralismo istituzionale che fece dell’Europa un territorio in continua evoluzione politica e religiosa. Il diritto di resistenza diffuso nell’Occcidente medievale e moderno, in base al quale i sudditi/cittadini avevano il diritto/dovere di ribellarsi ai governanti ove questi avessero violato le leggi e le tradizioni della comunità, sarebbe stato inconcepibile senza la “desacralizzazione” del potere politico, vale a dire la sua separazione dal potere religioso/sacrale.

Nel XVI secolo ci fu la seconda ondata di rivoluzioni, quella delle riforme protestanti che segnò l’avvento di una molteplicità di chiese territoriali, in relazione diversa con i poteri secolari: principi e repubbliche.

Nel corso del Settecento gli Stati europei, ormai distinti dalla persona del monarca, furono interessati dalla terza ondata di rivoluzioni che portò alla separazione dei poteri (legislativo, esecutivo e giudiziario) compiutamente teorizzata, sia pure in forme diverse, nelle carte rivoluzionarie americane e francesi.

Muovendo da un’ottica di lungo periodo, Prodi fa notare tuttavia che la libertà politica in Occidente può esser fatta risalire alla rivoluzione gregoriana: da lì si arrivò poi alla graduale separazione tra sfera del sacro e sfera del profano, tra giustizia di Dio e giustizia degli uomini, tra coscienza personale e diritto positivo, tra peccato e reato.

Questa capacità dell’Occidente di riformarsi continuamente per migliorare l’assetto politico non sarebbe spiegabile senza il contributo fondamentale delle tradizione ebraico-cristiana. Dai tempi di Agostino, dal IV secolo dopo Cristo, “rivoluzione” non indicò soltanto il moto di rotazione degli astri ma venne usato in riferimento al cammino dell’umanità verso la salvezza. Questo segnò il passaggio da una concezione statica, ciclica, immutabile della storia a una dinamica, progressiva, soggetta a mutamento.

Il termine “rivoluzione” in Europa divenne in un certo senso la secolarizzazione della “profezia” ebraico-cristiana, che concepisce la storia come un cammino di salvezza dell’umanità contro i mali del presente in vista di una redenzione che avverrà alla fine dei tempi. Riprendendo una felice espressione del giurista Carl Schmitt, potremmo dire che le rivoluzioni avvenute in Europa nel Sette, Otto e Novecento furono “principi teologici secolarizzati” che portarono al mutamento dei poteri pubblici contro quelle che erano ritenute ingiustizie cui porre fine.

Oggi il problema dell’Europa risiede nella scomparsa di questa sua anima rivoluzionaria, di questa capacità di cambiare la società, di progettare il futuro.

Scrive Prodi:

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Il professor Paolo Prodi

Il mito della rivoluzione è finito. Ma l’Europa, l’Occidente, sono nati e cresciuti come ‘rivoluzione permanente’, cioè come capacità nel corso dei secoli di progettare una società alternativa rispetto a quella presente: ora questa capacità di progettare un futuro diverso sembra esser venuta meno”.

Secondo l’autore questo è dovuto a una serie di cause. In Occidente il progressivo venir meno dei valori delle religioni della salvezza personale (ebraismo e cristianesimo) basate sul principio che l’individuo è un uomo che può salvarsi o dannarsi per le sue azioni terrene ed è quindi sottoposto a un giudizio personale; l’affermarsi di un ordine mondiale fondato unicamente sulla civiltà dei consumi imperniata su un’etica confuciana tesa a cristallizzare gli assetti di potere esistenti mediante una concezione ciclica, immutabile della storia, ove l’ordine politico coincide con l’ordine cosmico. Qui l’influsso della cultura cinese sull’Occidente è stato negli ultimi anni assai più profondo di quanto si possa immaginare.

Il risultato, secondo Prodi, è l’unione del potere politico e del potere economico in una nuova forma di dominio globalizzato, “senza fissa dimora, in Oriente come in Occidente, con sue capitali ma al di sopra dei confini: un nuovo monopolio del potere economico-politico che tende ad affermarsi ovunque, nella nuova configurazione dei mercati finanziari e del consumo”. Il palazzo (del potere) si fonde con il mercato (finanziario) e con il tempio (pagano) in un nuovo ordine in cui l’uomo, privato della possibilità di incidere nella politica degli Stati ormai soggetti alle logiche finanziarie del mercato globale, non ha più alcuna possibilità di agire sulla politica per difendere i suoi diritti civili e sociali.

La terza causa per Prodi si lega alla tecnologia che, sottratta al controllo delle Chiese e degli Stati, tende sempre meno ad elevare la persona e sempre più a costituire un fine in sé stessa, asservita agli interessi dei grandi gruppi finanziari che se ne servono per le applicazioni richieste dal mercato. I social network, costringendo i cittadini alla brevità e all’immediatezza delle forme di comunicazione, rendono più difficile l’elaborazione di quel pensiero argomentato e meditato che era stata propria della civiltà del libro. Difficile avere il tempo di elaborare progetti di riforma delle istituzioni pubbliche in una community dominata dagli spazi di Twitter e Snapchat.

Insomma il quadro dipinto da Prodi è a tinte fosche. Esso vede l’Europa in un declino da cui molto difficilmente potrà uscire. Se la classe politica e le classi dirigenti del Vecchio Continente sapranno recuperare lo spirito di “rivoluzione permanente” per difendere con nuove istituzioni le grandi conquiste della civiltà occidentale (dallo Stato di diritto allo Stato sociale, dai diritti fondamentali dei cittadini al federalismo, dalla separazione dei poteri alla laicità dei poteri pubblici), l’Europa potrà avere un futuro.