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I Colombitt di Santa Caterina alla Ruota

E’ stata di grande interesse la conferenza organizzata dalla Società Storica Lombarda il 2 febbraio scorso presso l’Archivio di Stato di Milano. Relatrice la storica Flores Reggiani, che ha svolto una relazione sul tema dell’infanzia abbandonata a Milano dall’antico regime alla fine dell’Ottocento. Muovendo da un esame rigoroso della documentazione conservata presso gli archivi del brefotrofio e dell’Ospedale Maggiore di Milano, la Dottoressa Reggiani ha ripercorso le tappe dell’assistenza all’infanzia abbandonata in età moderna, un tema che è stato al centro dei suoi studi negli ultimi anni. Si segnalano in proposito il volume F. Reggiani, “Sotto le ali della colomba”. Famiglie assistenziali e relazioni di genere a Milano dall’Età Moderna alla Restaurazione. Milano, Viella 2014 e, per l’argomento che qui interessa, “Si consegna questo figlio”. L’assistenza all’infanzia e alla maternità dalla Cà Granda alla Provincia di Milano (1456-1920), a cura di F. Reggiani, M. Canella, L. Dodi, Milano, Skira 2008.

Oggi il tema della povertà è particolarmente sentito in Italia. Nei secoli dell’Età Moderna (XVI-XVII-XVIII e XIX secolo), la situazione era per molti versi simile se non addirittura peggiore: gran parte delle persone viveva in condizioni di estrema indigenza. L’ambiente familiare era fragile. Nulla di simile al tipo di famiglia europeo del Novecento, basato sulla permanenza dei piccoli nella casa dei genitori e fondato sulla sfera sentimentale degli affetti che lega i membri del nucleo familiare. Nell’antico regime e ancora nell’Ottocento la situazione era diversa. Si pensi all’istituto del baliatico: l’usanza di fare allattare i figli da una balia retribuita era diffusa tanto presso la nobiltà quanto presso le famiglie della borghesia e dei contadini.

D’altra parte, i figli di una famiglia povera lasciavano la casa paterna per lavorare nelle botteghe degli artigiani già all’età di 6 o 7 anni. Il quadro non cambiava nelle cerchie della nobiltà ove molti bambini erano collocati a corte come paggi. La separazione dei figli in età precoce dai genitori era quindi un fenomeno diffuso.

L’alto tasso di mortalità, esistente a quell’epoca, rendeva assai facile restare orfani in tenera età. C’erano poi i neonati abbandonati, lasciati dai genitori nelle pubbliche vie o portati nei luoghi pii. E’ il tema centrale affrontato dalla storica Reggiani, che ha spiegato come questo fenomeno assunse in Età Moderna dimensioni talmente ampie da essere percepito dai contemporanei come un fatto comune.

Chi erano esattamente gli esposti? Nella società d’antico regime, intrisa da una profonda cultura cristiana che si manifestava nelle forme della pietà e della devozione popolare, era nota la vicenda di Mosè: la cesta contenente il bimbo Mosé era stata lasciata dai genitori non già sul Nilo, ma sulle rive del fiume affinché potesse essere trovata. Questo spiega per quale motivo, sulle orme di una tradizione religiosa che aiutava a percepire il fenomeno come non estraneo alla cultura occidentale, nel Medioevo e nell’Età Moderna le famiglie che abbandonavano i bambini non lo facevano con l’intento di ucciderli, bensì con il fine di affidarli a qualcuno che potesse esercitare quel ruolo ch’essi non potevano svolgere per ragioni economiche.

Se esaminiamo il decreto del 17 gennaio del 1812 emanato nel Regno d’Italia napoleonico, troviamo una definizione precisa degli esposti: “nati da padri e madri sconosciuti, sono trovati in un luogo qualunque, ovvero sono portati nei luoghi pii destinati a riceverli”. Seguiva la descrizione del Luogo Pio: “In ogni Luogo Pio, destinato a ricevere figli esposti, vi sarà una ruota o torno in cui saranno deposti”.

I genitori potevano quindi lasciare il bambino in un luogo pubblico, come nella vicenda di Mosé, affinché il neonato fosse trovato facilmente. Spesso tuttavia il padre o la madre preferivano lasciare il bimbo a un’istituzione assistenziale specializzata, il luogo pio ove “la ruota o torno” consentiva la consegna del bimbo mantenendo l’anonimato dei genitori.

Quale ruolo aveva il brefotrofio nella cura di questi bambini? Scriveva Vincenzo Borghini (1515-1580), spedalingo (direttore) dell’Ospedale degli Innocenti di Firenze:

L’ospedale piglia cura di quelli che so’ gettati via dal proprio padre et madre, et diviene loro padre in tutto e per tutto per averne cura come padre de’ suoi figliuoli.

Le persone che vivevano e lavoravano nel luogo pio accudivano i bimbi con la stessa cura di un genitore.

A Milano il primo istituto dedito all’infanzia abbandonata fu lo xenodochio fondato dal sacerdote Dateo (741-799 d.C.) nel 787 d.C. E’ significativo che tuttora, in piazzale Dateo, abbia sede un brefotrofio attivo dal primo decennio del Novecento. Nel Medioevo si aggiunsero altri hospitali finché nel 1456 la costruzione dell’Ospedale Maggiore rese possibile la formazione di una fitta rete di istituti assistenziali: essi garantirono ai milanesi, almeno fino al 1780, una protezione sociale tra le più avanzate in Europa.

La pia casa degli esposti e delle partorienti di Santa Caterina alla Ruota al di là del Naviglio in un acquerello di Giannino Grossi. L’edificio venne demolito agli inizi del Novecento per costruire il nuovo Ospedale Maggiore di via Francesco Sforza.

Al 1781 risale la fondazione della casa degli esposti e delle partorienti di Santa Caterina alla Ruota. L’istituto, eretto nei locali di un monastero soppresso, si trovava a pochi passi dall’Ospedale Maggiore, nella parte della città conosciuta come “borgo di Porta Romana” tra il Naviglio interno e i Bastioni. Questi spazi sono oggi occupati dai padiglioni del Policlinico. Il brefotrofio di Santa Caterina, attivo dal 1781 al 1863, era finanziato con donazioni ed elemosine private, il più delle volte – come avveniva per la Cà Granda – provenienti dalle ricche famiglie nobili o borghesi.

Il fenomeno dell’affidamento dei bambini alla casa degli esposti presentava diverse modalità. Un quarto degli ingressi avveniva mediante un incontro “ufficiale” tra la famiglia povera e i responsabili dell’istituto. Nel 50% dei casi i bimbi erano messi invece nella ruota, una modalità che garantiva l’anonimato dei genitori. Assieme al bimbo, il genitore lasciava un piccolo foglietto di carta tagliato a metà e una nota in cui spiegava il motivo dell’abbandono. Metà del foglietto era staccata perché, a distanza di tempo, la famiglia intenzionata a riprenderlo potesse riconoscerlo in base all’altra metà del contrassegno.

I bimbi allevati dal brefotrofio erano chiamati in dialetto milanese Colombitt, un soprannome che traeva origine dall’insegna di Santa Caterina costituita da una colomba. Le analisi della storica Reggiani mostrano che le richieste di assistenza nei luoghi pii e nei brefotrofi milanesi furono decine di migliaia dal 1659 fino agli anni Settanta del secolo scorso. Il picco fu raggiunto nel periodo 1781-1868, quando si toccarono ben 223.012 casi: un fenomeno che conferma ampiamente la definizione dell’Ottocento come “secolo dei trovatelli”. L’abbandono dei figli era dovuto non solo alla già citata povertà dei genitori, ma anche alla difficile condizione in cui si trovavano le madri, costrette a lavorare anch’esse per sopravvivere in un’epoca in cui non esistevano strutture ricettive come gli asili nido. Molte donne lasciavano i figli alla casa di Santa Caterina perché potessero essere allattati da una balia gratuita nei primi due anni. Al bambino era assegnato un numero progressivo che, a fianco dell’anno di consegna, accompagnava la sua pratica nel corso del tempo.

Interessanti i verbali in cui erano trascritti i biglietti lasciati dai genitori vicino al bimbo. Si legga ad esempio questa nota del 1679:

Illustrissimi Signori, la necessità grande di una povera vedova che pochi giorni sono che le è mancato il marito, ritrovandosi una figlia e non sapendo come tenerla, ha pensato ricorrere alla carità di lor signori…spera dopo bali ita [dopo che sia stata tenuta a balia] di tornare a ricuperarla per carità sia tenuta conto perchè è di legittimo matrimonio.

Non molto diversa la motivazione scritta nel 1839 da un altro genitore:

Io racomando questo mio figlio fu batezato in nome Martino è nasuto il giurno di Santo Martino …nato da legittimo matrimonio, che non ha mai avuto mal cattivo e faco questo per essere in gran bisogno…ho 8 figli viventi … raccomando di fare l’impossibile e di dare subito una balia…che prometto di venire a prendere…io sono abitante in Milano

I bambini erano mandati nelle campagne (spesso nell’alto milanese e nel varesotto…di qui la diffusione del cognome Colombo in quelle zone) presso famiglie affidatarie, le cui balie ricevevano un salario dall’ospedale per allattarli fino al secondo anno di età. Venivano quindi svezzati, educati e impiegati nei lavori agricoli.

Ai genitori che fossero tornati a riprendersi i figli dopo molti anni, la casa degli esposti non chiedeva alcun compenso, diversamente da altri istituti che operavano in Italia e in Europa. In molti casi i genitori se li riprendevano quando avevano raggiunto un’età di 6,7,9 o 11 anni per farli lavorare nell’economia domestica oppure per disporre di persone che fossero poi in grado di accudirli nella vecchiaia.

Dopo l’Unità d’Italia, l’amministrazione della pia casa di Santa Caterina alla Ruota passò in gestione alla Provincia di Milano, che la tenne in funzione fino al 1868. La chiusura della “ruota”, avvenuta in quell’anno, segnò un cambiamento profondo nelle abitudini dei milanesi che versavano in povere condizioni.

Un medico dimenticato: Giovanni Battista Monteggia

Il Policlinico di Milano, come ho accennato in un altro intervento, può essere considerato uno degli ospedali meglio gestiti della città. L’ingresso in via Francesco Sforza si apre su un vasto cortile all’aperto ove una strada consente l’accesso alle varie palazzine. Il padiglione Monteggia è dedicato all’assistenza di pazienti i cui casi sono riconducibili al campo delle neuroscienze. So già cosa state per dirmi:

Gabriele, vuoi forse farci una lezioncina sul reparto di neurochirurgia del Padiglione Monteggia?”.

Me ne guardo bene, anche perché non sono un medico né tantomeno un chirurgo. Desidero ricordare il Padiglione Monteggia perché si tratta, al giorno d’oggi, dell’unica struttura il cui nome ricorda un grande medico lombardo oggi praticamente sconosciuto: Giovanni Battista Monteggia. Ieri – guarda un po’ che coincidenza! – ricorreva il bicentenario della morte, avvenuta il 17 gennaio 1815.

Pietro Moscati
Pietro Moscati, primo direttore dell’Ospedale Maggiore (1785-1788)

Nato a Laveno sul Lago Maggiore nel 1762, Monteggia venne iscritto per volontà del padre alla scuola di chirurgia dell’Ospedale Maggiore di Milano, scuola che in quegli anni era stata inserita nel nuovo piano degli studi predisposto dal governo austriaco. In questo antico edificio Giovanni Battista svolse l’apprendistato sotto la guida di maestri come Pietro Moscati, che fu primo direttore della Cà Granda.

In quegli anni le professioni mediche – come tante altre professioni liberali – erano state oggetto di un vasto piano di riforma ad opera dello Stato austriaco. Prima di questi interventi, le professioni afferenti alla salute erano divise in “maggiori” e “minori” segnando una divaricazione tra professioni teoriche e professioni pratiche: le prime riservate ai nobili, le seconde a persone non nobili. Alle prime appartenevano i “medici fisici” o “medici filosofi”: formati nei collegi e nelle università, questi avevano ricevuto una formazione classica di tipo speculativo. Compiuta l’abilitazione presso medici anziani, erano chiamati a svolgere la professione in ambito per lo più privato, chiamati da famiglie nobili o da enti religiosi. Le loro teorie afferenti alla medicina interna restavano appunto teorie, legittimate da una tradizione secolare di studi secondo principi filosofici totalizzanti. Chiamati al capezzale dei loro illustri malati, i “medici fisici” non erano tenuti affatto a “sporcarsi le mani” perché l’intervento chirurgico era riservato alle professioni vili e meccaniche. Si limitavano a scrivere ricette o consulti la cui esecuzione spettava ai colleghi “minori”: chirurghi o farmacisti.

Gli speziali e i chirurghi appartenevano invece alle professioni “minori”: sprovvisti della formazione filosofica che i collegi riservavano alla nobiltà, il loro tirocinio si svolgeva sotto il controllo della rispettiva corporazione, a diretto contatto con i malati negli ospedali. In fondo, la loro figura assomigliava più a un infermiere che a un medico. Qualcuno potrebbe chiedersi per quale motivo vi fosse una tale separazione tra professioni maggiori e minori. Questo era dovuto ai principi della società d’ancien régime: la chiesa proibiva l’uso del ferro e del fuoco sul corpo umano, nonché la dissezione dei cadaveri; la nobiltà rifiutava invece di praticare lavori che implicassero l’uso delle mani, riconducendoli alle “arti vili e meccaniche”.

A metà Settecento la situazione era quindi la seguente: i nobili “medici fisici” pontificavano sulla scienza medica astenendosi dalle operazioni manuali e svolgendo un tirocinio limitato ai ristretti circoli del loro ceto; i chirurghi e i farmacisti operavano a diretto contatto con i malati, ma erano sprovvisti di una solida formazione teorica. A questa situazione il governo austriaco, negli ultimi anni di regno dell’imperatrice Maria Teresa, aveva posto rimedio con il piano del 29 ottobre 1770 in cui fu costituita una facoltà medica aperta ai non nobili, specializzata nelle varie discipline; nel 1774 venne emanato un Regolamento per la medicina e la chirurgia che, nel segnare la fine della divisione tra professioni maggiori e minori, sottoponeva gli istituti ospedalieri e assistenziali al controllo dello Stato. A un “regio direttorio” istituito dal governo spettava la funzione di abilitare medici, chirurghi e speziali. Le tre professioni erano poste ora sullo stesso piano. Grazie alla riforma nacque il modello della nuova professione medica: a una formazione teorica condotta sulla base degli studi più avanzati e aggiornati, essa univa una pratica sperimentale a diretto contatto con i malati. Nasceva la figura del medico-chirurgo cui apparteneva Monteggia.

Giovanni Battista Monteggia
Giovanni Battista Monteggia

Monteggia si specializzò non solo nell’anatomia, ma anche nella botanica e nelle scienze chimico-farmaceutiche. Nel 1781 superò l’esame di “libera pratica in chirurgia” all’Università di Pavia. Poco dopo conseguì la laurea in medicina. La sua prima pubblicazione scientifica risale al 1789: si tratta dei Fasciculi Pathologici, un’opera in latino che gli consentì di essere conosciuto presso il pubblico specialistico. Nominato nel 1790 chirurgo aiutante e incisore anatomico all’Ospedale Maggiore, Monteggia fu nominato l’anno successivo primo chirurgo nelle regie carceri.

Nel 1794 uscì la sua seconda pubblicazione: Annotazioni pratiche sulle malattie veneree. Era un’opera che, basandosi sul Compendio sopra le malattie veneree del tedesco Johann Friedrich Fritze, conteneva una casistica dei morbi che il Monteggia aveva potuto diagnosticare come medico a contatto con i carcerati. L’opera conteneva una netta presa di posizione a favore del “metodo browniano”, un sistema di cura assai discusso all’epoca. John Brown (1735-1788) riteneva che l’organismo, soggetto alla continua stimolazione dell’ambiente, si fondasse su un equilibrio tra eccitamento ed eccitabilità. La maggior parte delle malattie, rientrando nell’astenia, vale a dire nell’esaurimento delle forze, richiedeva secondo il Brown una cura a base di forti stimoli. Monteggia, aderendo alle teorie del Brown, riteneva che anche le malattie veneree rientrassero nei casi di astenia: nelle Annotazioni consigliava quindi di curare i pazienti con una pianta medicinale conosciuta per i suoi effetti particolarmente stimolanti: la “salsapariglia”. Il metodo di Brown fu poco diffuso nell’Inghilterra di fine Settecento e del primo Ottocento. Sollevò invece entusiasti ammiratori nel continente europeo. In realtà, ben presto fu dimostrato che quel sistema non solo era incapace di guarire i pazienti, ma si risolveva spesso in un peggioramento delle condizioni di salute con terapie intensive che, provocando disturbi nel sistema nervoso, causavano spesso la morte. Pochi anni dopo le Annotazioni del Monteggia, un canonico della cattedrale di Como, Giulio Cesare Gattoni, in un racconto pubblicato nel 1801 (Sogno nella notte vigesima sesta di Giugno poco prima dell’Aurora l’Anno mille ottocento uno dell’Era Cristiana, 1801) forniva un parere a dir poco negativo sul sistema di Brown: “Il solo sistema Browniano quante vittime non ha già sagrificato? Domandatelo a’ Becchini di Londra, che da soli muscoli del viso rattratti san distinguere que’ che finirono la vita per mano de’ Brownisti”.

Nel periodo rivoluzionario e napoleonico il Monteggia conseguì il vertice della sua carriera: in quegli anni insegnò Istituzioni di chirurgia all’Ospedale Maggiore. Tra le sue maggiori iniziative si ricordano le scuole speciali mediche che, attivate presso gli ospedali dello Stato napoleonico, furono decisive nella formazione di una equipe di giovani preparati. La sua simpatia per il regime napoleonico è provata dalle cure che fu chiamato a prestare a uno dei massimi esponenti del governo: Francesco Melzi d’Eril.

Istituzini chirurgiche
Le Istituzioni chirurgiche di Giovanni Battista Monteggia. Prima edizione del 1805

A quegli anni risale l’opera più importante, quella che lo rese celebre nell’ambiente scientifico. Tra il 1802 e il 1805 venne pubblicata la prima edizione delle Istituzioni chirurgiche, un testo che aveva scritto per i suoi studenti. Nella seconda edizione dell’opera, i cui otto volumi vennero pubblicati tra il 1813 e il 1816, l’autore si rivolse invece a un pubblico specialistico. In questo testo il Monteggia riservava largo spazio ai casi che aveva seguito negli anni come medico chirurgo. Le Istituzioni, se confermavano la predilezione dell’autore per la farmacologia, contenevano analisi per quei tempi assai avanzate: i lettori ad esempio avevano a disposizione uno dei primi studi clinici sulla poliomelite. Monteggia intendeva pubblicare una nuova edizione in latino affinché le sue analisi fossero conosciute in campo internazionale. Contava inoltre di pubblicare un nono volume per esporre i suoi risultati nel campo delle vaccinazioni e della farmacopea. La morte troncò però i suoi progetti. I milanesi gli dedicarono una lapide all’ingresso dell’Ospedale Maggiore – oggi Università degli Studi di Milano – andata purtroppo dispersa. Il poeta Carlo Porta lo ricordò in un bel sonetto in lingua milanese ove, nel rendere omaggio all’uomo di scienza, concludeva ironicamente che il pronto soccorso, sia pure condotto con mezzi a dir poco arcaici, restava il solo mezzo utile a salvare le vite dei malati:

Remirava con tutta devozion
vuna de sti mattinn in l’Ospedaa
el ritratt de Monteggia e l’iscrizion
che dis con pocch paroll tanc veritaa;
quan on tricch e tritracch sott al porton
el me presenta on asen mezz spellaa
ch’el fava on vòlt real cont el firon
per rampà sora in cort on ammalaa.
A sto pont tutt l’amor per la virtù
ch’el me ispirava quell dottor de sass
l’è andaa in fond di calcagn lu de per lu.
E ho vist infin che i sciori no gh’han tort
quand se disen tra lor per confortass
che var pù on asen viv che on dottor mort.

Traduzione:

“Rimiravo con tutta devozione, una di queste mattine all’Ospedale Maggiore, il ritratto del Monteggia e l’iscrizione che dice in poche parole tante verità; quando un tricch e tritracch sotto il portone d’ingresso mi presenta un asino mezzo spellato che con le reni faceva una volta reale per salire la ripida rampa e portare in cortile un ammalato. A questo punto tutto l’amore per la virtù che m’ispirava quel dottore ricordato nella lapide di pietra, è andato da solo sotto i piedi. E ho visto alla fine che i ricchi signori non hanno torto quando dicono tra di loro, così per confortarsi, che vale più un asino vivo che un dottore morto”.

La Cà Granda nel Sestiere di Porta Romana

 

Cà granda2
L’Ospedale Maggiore in una foto del primo Novecento.

 L’Università degli Studi è un altro dei luoghi simbolo di Milano. In realtà nell’immobile aveva sede un tempo uno dei più importanti ospedali europei, noto ai milanesi come la Cà Granda. D’altra parte all’osservatore attento non sfuggirà che il quartiere di Porta Romana conserva tuttora la sua impronta socio assistenziale nei molteplici padiglioni  del Policlinico di via Francesco Sforza, a pochi passi dall’Università.

La costruzione della Cà Granda si deve al duca Francesco Sforza e alla moglie Bianca Maria Visconti, i quali vollero fondare un grande ospedale che si prendesse cura dei malati, in particolar modo i poveri sparsi nelle città e nelle campagne dello Stato lombardo. Il duca donò all’ospedale alcune case nel quartiere di Porta Romana: le fece risistemare e abbellire dall’architetto fiorentino Antonio Averulino detto “il Filarete” e, ricorrendo ai fondi degli altri ospedali della città e della diocesi, fece in modo che la nuova istituzione fosse provvista di adeguate risorse. Insomma, decisamente altra cosa rispetto al modo con cui viene gestita nei tempi attuali la sanità italiana. L’Ospedale Maggiore (che è l’altro nome con cui i milanesi erano soliti riferirsi alla Cà Granda) sorgeva entro le mura medievali, vicino al naviglio interno che, scorrendo praticamente al di sotto di quelle opere di fortificazione, costituiva allora una formidabile via di comunicazione. Sulle sue acque transitavano i grandi barconi carichi di merci, derrate e materiali da costruzione che poi i barcaioli lasciavano nelle ‘sciostre’, le aree di sosta che, poste a ridosso del naviglio, servivano quali magazzini.

Portone d’ingresso alla Cà Granda sul naviglio interno in una foto del primo Novecento

 

A questo punto si riesce forse a capire per quale motivo Francesco Sforza avesse deciso di donare all’ospedale quelle case poste proprio a ridosso del naviglio. Il complesso sanitario sorgeva infatti in una posizione strategica: situato all’interno delle mura medievali, l’edificio non solo si trovava nel centro cittadino ma, posto in prossimità del naviglio e vicinissimo al contado circostante, era in collegamento diretto con i paesi circostanti. L’utilizzo del naviglio quale via di comunicazione consentiva ai milanesi di rifornire continuamente l’ospedale con viveri e medicinali provenienti spesso dalle campagne.

Verso la metà del Seicento, l’edificio venne ampliato grazie agli interventi dell’architetto Francesco Maria Richini: il grande chiostro interno e la chiesa dell’Annunciata diedero all’ospedale una veste grandiosa ma al contempo misurata; un’atmosfera solenne corretta da quell’austera chiesetta posta a ridosso del naviglio.

Ma come riuscì a prosperare l’Ospedale Maggiore nella sua lunga vita al servizio della comunità? Potrà stupire in una città di cui si lamenta quasi sempre l’eccessivo consumismo ed egoismo, ma la grandezza dell’Ospedale Maggiore nei suoi cinque secoli di storia fu resa possibile dal profondo senso di carità della nobiltà ambrosiana, che non mancò di impiegare le sue risorse in favore dei poveri.

Il “Piemontesino”, un giovane annegato in un ‘gorgo’ del naviglio e due fittabili derubati all’osteria

Sotto la data 2 agosto 1821 il canonico Luigi Mantovani riportava nel suo diario alcune notizie della Milano austriaca che potremmo ricondurre ai fatti di cronaca.


Un ‘famoso’ malvivente, conosciuto come “Piemontesino”, venne arrestato dai gendarmi nel “casotto” dell’Ospedale Maggiore. Il Mantovani si riferiva al “cassinotto” della Cà Granda, un edificio assai rustico che occupava una parte dell’attuale largo Richini, davanti all’Università Statale nel sestiere di Porta Romana. Il “cassinotto” venne demolito nel 1848 dagli insorti delle cinque giornate di Milano, che ne utilizzarono il materiale per costruire le barriccate.

Il secondo avvenimento della giornata riguardava l’annegamento di un giovane nelle acque del Naviglio nel sestiere di Porta Ticinese, il che mostra assai bene come le acque dei navigli fossero un tempo assai profonde.

La terza notizia era la più curiosa. Riguardava due fittabili che furono derubati da un ladro il quale poté agire ‘indisturbato’ grazie alla complicità di un oste. I fittabili erano imprenditori agricoli che gestivano proprietà terriere di dimensioni spesso notevoli. Nei territori della bassa pianura padana erano legati ai proprietari da un contratto di affitto di durata novennale. La gestione dei terreni con metodi imprenditoriali consentì ai fittabili di costituire autentiche aziende agricole dalle quali ricavare elevati margini di guadagno. Non stupisce che fossero presi di mira da ladri e malfattori.

“2 agosto 1821

Ieri mattina al così detto casotto vicino all’ospitale fu preso da travestiti giandarmi (sic!)  un ladro detto il Piemontesino, che aveva sotto un abito assai pulito due pistole ed un coltello.

Ieri dopo pranzo alla Madonna fuori Porta Ticinese, di tre giovinotti che nuotavano nel Naviglio uno fu involto in un gorgo, e non si è potuto aiutare. Egli ha 20 anni ed è impiegato del governo.

Al mezzogiorno due fittabili, che in vista d’un birbante avevano venduto del frumento [qui il Mantovani intende dire che il birbante li vide mentre vendevano il frumento, NdR], entrarono in un bettolino per bevere (sic!) un boccale di vino. L’oste disse: “Per dargli del meglio vado a cavarlo”. Lo sparire dell’oste, e entrare un birbante fu un momento. Questi con pistola alla mano investì i due seduti fittabili, e non comparendo mai l’oste, dovettero dare al birbante alcuni scudi. Fu arrestato l’oste, perché creduto connivente, non essendo rinvenuto dalla cantina, se non dopo sparito il birbante”.


L. MANTOVANI, Diario politico ecclesiastico, a cura di Paola Zanoli, Roma, Istituto storico italiano per l’età moderna e contemporanea, vol.V, pag. 265.