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La natura nel cuore di Milano: le sfide della forestazione urbana

Uno degli elementi che stanno contribuendo a mutare in profondità le fisionomia urbanistica di Milano è la progressiva espansione delle aree destinate a parchi, giardini, spazi verdi. 

La pandemia, lungi dall’interrompere questo processo,  ha finito con l’accelerarlo. E’ altamente probabile che nei prossimi anni le aree urbane acquisiranno i caratteri di “città-foreste”, in cui la presenza di alberi e spazi verdi finirà per essere un elemento fondamentale nel panorama urbanistico. Le aree metropolitane sono in poderosa espansione: si calcola che entro il 2050 all’incirca sei miliardi di persone vivranno al loro interno, a fronte di una popolazione complessiva pari a nove miliardi (dati ONU). La realizzazione di maggiori spazi per il verde contribuirà a contrastare l’aumento delle temperature, mantenendo le città più fresche e vivibili. Si capisce quindi come i sindaci delle maggiori metropoli del pianeta si stiano attrezzando per gestire questo cambiamento epocale con politiche che siano in grado di salvaguardare l’ambiente. 

Rientra in questa accresciuta sensibilità per la riduzione dell’inquinamento la costruzione di edifici in cui il verde dei giardini e dei parchi è divenuto un elemento fondamentale nella loro costituzione. A Milano un caso emblematico è il famoso Bosco Verticale realizzato dallo Studio Boeri nel 2014. Si tratta di due eleganti palazzi residenziali che ospitano più di 900 tipologie di alberi per un totale di 15.000 piante in uno spazio di 20.000 metri quadrati.

Il Bosco Verticale. Studio Boeri, 2014.

Occorre inoltre ricordare che in via Serio è in corso ad opera della società Covivio la costruzione di Vitae, un edificio pronto per il 2022: nel palazzo, ove verranno stabiliti gli uffici di ricerca oncologica e molecolare, sarà realizzata una vigna le cui piante saranno costantemente presenti nel percorso dei visitatori, accompagnandoli per così dire fino al tetto, a 200 metri di altezza. Anche qui la filosofia che ha ispirato l’architetto, Carlo Ratti, si lega perfettamente alle politiche ecologiche di “forestazione urbana” sopra richiamate: l’obiettivo, come ha dichiarato Ratti, è “riportare la natura nel cuore delle nostre città”; un traguardo, in quella zona a pochi metri dalla Fondazione Prada, destinato ad essere raggiunto in pochi anni: com’è noto, la stessa Covivio, Prada Holding e Coima si sono aggiudicati pochi mesi fa i lavori per la valorizzazione dell’ex scalo di Porta Romana ove verrà realizzato il villaggio olimpico e un parco di quasi 100.000 metri quadrati. 

E’ opportuno chiedersi se questa attenzione per gli spazi verdi possa contare su precedenti storici. Nella Milano medievale e moderna era del tutto assente quell’attenzione ecologica che è dominante nelle nostre società: vale a dire l’idea per cui gli alberi, i parchi e più in generale gli spazi verdi siano elementi del paesaggio da curare attentamente in politiche ambientali di riduzione dell’inquinamento e di contrasto agli effetti del riscaldamento climatico. 

Nella Milano di antico regime – e tale sarebbe rimasta fino alla metà dell’Ottocento – la città era divisa in due parti. Da un lato il centro cittadino fittamente urbanizzato compreso entro il tracciato delle antiche mura medievali, al di qua del Naviglio interno; dall’altro le “periferie”, denominati “borghi” in base alle porte di riferimento, che si estendevano fino ai Bastioni, ove il paesaggio era in larghissima parte agricolo, limitato a pochi palazzi patrizi con giardini, chiese o conventi lungo i principali assi viari. 

Nel corso del XVIII secolo la città fu interessata tuttavia da una profonda opera di rinnovamento edilizio che interessò non solo le autorità pubbliche (gli Asburgo di Vienna) ma anche i privati – nobili e redditieri – che ingrandirono le loro case rifacendone le facciate, ristrutturando i giardini allo stile italiano o inglese. 

Il conte Giacomo Sannazzari abitava in un elegante palazzo in piazza San Fedele che nella numerazione asburgica introdotta all’epoca dell’imperatore Giuseppe II corrispondeva  al civico 1912. Il Sannazzari fu un raffinato collezionista di opere d’arte e di libri antichi. Occorre ricordare in proposito che nella sua abitazione non solo si trovava il celebre dipinto Lo Sposalizio di Raffaello ma era conservato pure un prezioso manoscritto della Divina Commedia risalente al 1321.

Il conte Giacomo Sannazzari in un ritratto di Paolo Borroni (1805).

Alla sua morte, avvenuta nel 1804, l’immobile passò in eredità all’Ospedale Maggiore di Milano, che lo ebbe tuttavia per poco tempo. Con decreto del 4 luglio 1805, in tre concisi articoli, Napoleone ordinò che il palazzo di piazza San Fedele fosse ceduto allo Stato italico. In cambio della cessione dell’immobile, all’Ospedale Maggiore furono assegnati alcuni terreni a livello le cui rendite furono tali da eguagliare il valore della casa. Perché Napoleone volle che lo Stato entrasse in possesso di quell’elegante casa nel centro della città? Il decreto stabiliva che l’immobile dovesse servire di “abitazione al Ministro delle Finanze”. Da quell’anno il palazzo divenne proprietà del demanio italico e al suo interno, oltre ad esservi alcuni uffici della finanza, abitò il ministro Giuseppe Prina, uno dei funzionari più brillanti e probi dell’amministrazione italica. 

Nell’archivio dell’Ospedale Maggiore di Milano, nel faldone che comprende i documenti dell’eredità Sannazzari, si trova una preziosa perizia eseguita dai delegati Gaetano Faroni per il ministro delle finanze e Pietro Castelli per l’Ospedale Maggiore. Vi sono descritti in dettaglio i locali e gli arredi del palazzo di San Fedele. All’epoca le case da nobile erano articolate in tre ambienti: un cortile interno consentiva l’accesso ai locali al pianterreno generalmente riservati alle scuderie e ai depositi per le carrozze; il primo piano – definito piano nobile – era riservato alla famiglia proprietaria dell’edificio, mentre al secondo piano viveva la servitù. 

Molti si chiederanno che relazione abbia tutto questo con le aree verdi milanesi. Se si consulta la perizia, tra le stanze e arredi descritti al secondo piano si legge questa curiosa annotazione: “18. Terrazza ad uso di Giardino alla Genovese”. Che cosa significa questa espressione? Nel Dizionario di cognizioni utili alla studiosa gioventù pubblicato nel 1864 questi giardini erano definiti “spaziosi, digradati a terrazzi”, diffusi nelle città europee. Nel caso in esame si trattava del celebre giardino pensile che il conte Sannazzari aveva ricavato in una parte del tetto. Le memorie di quegli anni ricordano come il suo palazzo fosse divenuto famoso per quel giardino, al quale si accedeva salendo le scale che dal primo piano portavano ai locali della servitù. Si trattava certamente di uno spazio esclusivo ricavato sul tetto di un’elegante casa da nobile che il Prina trovò praticamente intatto. Esso non fu destinato però a lunga vita: il 20 aprile 1814, nel corso della rivolta popolare contro il governo napoleonico che sarebbe costata la vita al ministro Prina, il palazzo al civico 1912 venne completamente distrutto. 

Quel giardino pensile, che tanto aveva affascinato i visitatori nella Milano settecentesca e napoleonica, può essere ritenuto con buone ragioni uno dei primi tentativi con cui in Europa si cercò di realizzare un’ambiente domestico in cui le piante e le varie specie arboree fossero tutelate e valorizzate.

La Cà Granda nel Sestiere di Porta Romana

 

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L’Ospedale Maggiore in una foto del primo Novecento.

 L’Università degli Studi è un altro dei luoghi simbolo di Milano. In realtà nell’immobile aveva sede un tempo uno dei più importanti ospedali europei, noto ai milanesi come la Cà Granda. D’altra parte all’osservatore attento non sfuggirà che il quartiere di Porta Romana conserva tuttora la sua impronta socio assistenziale nei molteplici padiglioni  del Policlinico di via Francesco Sforza, a pochi passi dall’Università.

La costruzione della Cà Granda si deve al duca Francesco Sforza e alla moglie Bianca Maria Visconti, i quali vollero fondare un grande ospedale che si prendesse cura dei malati, in particolar modo i poveri sparsi nelle città e nelle campagne dello Stato lombardo. Il duca donò all’ospedale alcune case nel quartiere di Porta Romana: le fece risistemare e abbellire dall’architetto fiorentino Antonio Averulino detto “il Filarete” e, ricorrendo ai fondi degli altri ospedali della città e della diocesi, fece in modo che la nuova istituzione fosse provvista di adeguate risorse. Insomma, decisamente altra cosa rispetto al modo con cui viene gestita nei tempi attuali la sanità italiana. L’Ospedale Maggiore (che è l’altro nome con cui i milanesi erano soliti riferirsi alla Cà Granda) sorgeva entro le mura medievali, vicino al naviglio interno che, scorrendo praticamente al di sotto di quelle opere di fortificazione, costituiva allora una formidabile via di comunicazione. Sulle sue acque transitavano i grandi barconi carichi di merci, derrate e materiali da costruzione che poi i barcaioli lasciavano nelle ‘sciostre’, le aree di sosta che, poste a ridosso del naviglio, servivano quali magazzini.

Portone d’ingresso alla Cà Granda sul naviglio interno in una foto del primo Novecento

 

A questo punto si riesce forse a capire per quale motivo Francesco Sforza avesse deciso di donare all’ospedale quelle case poste proprio a ridosso del naviglio. Il complesso sanitario sorgeva infatti in una posizione strategica: situato all’interno delle mura medievali, l’edificio non solo si trovava nel centro cittadino ma, posto in prossimità del naviglio e vicinissimo al contado circostante, era in collegamento diretto con i paesi circostanti. L’utilizzo del naviglio quale via di comunicazione consentiva ai milanesi di rifornire continuamente l’ospedale con viveri e medicinali provenienti spesso dalle campagne.

Verso la metà del Seicento, l’edificio venne ampliato grazie agli interventi dell’architetto Francesco Maria Richini: il grande chiostro interno e la chiesa dell’Annunciata diedero all’ospedale una veste grandiosa ma al contempo misurata; un’atmosfera solenne corretta da quell’austera chiesetta posta a ridosso del naviglio.

Ma come riuscì a prosperare l’Ospedale Maggiore nella sua lunga vita al servizio della comunità? Potrà stupire in una città di cui si lamenta quasi sempre l’eccessivo consumismo ed egoismo, ma la grandezza dell’Ospedale Maggiore nei suoi cinque secoli di storia fu resa possibile dal profondo senso di carità della nobiltà ambrosiana, che non mancò di impiegare le sue risorse in favore dei poveri.