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La Galleria Vittorio Emanuele: incrocio di destini tra ‘800 e ‘900

Un volume di cultura milanese ripercorre la storia contrastata del celebre monumento del Mengoni e delle illustri personalità che ad esso furono legate

Il libro di Giovanna Ferrante, Galleria Vittorio Emanuele II. Un sogno di vetro e d’acciaio (Historica, Roma 2018, pp.115, euro 14) è un piccolo volume che ha il pregio di leggersi tutto d’un fiato. Un’opera che si può definire “anfibia” non foss’altro perché vi troviamo elementi che la avvicinano a un libro di storia, mentre altri la fanno rientrare nel genere della narrativa e questo per ragioni che esporremo più avanti. Il libro costituisce un ottimo strumento per conoscere uno dei monumenti più celebri di Milano, un volume particolarmente adatto a chi si avvicina per la prima volta alla storia della Galleria Vittorio Emanuele II.

GIOVANNA FERRANTE, Galleria Vittorio Emanuele II. Un sogno di vetro e acciaio. Historica, Roma 2018, 14 euro, 115 p.

L’autrice, che nel suo sito internet si definisce “meneghina doc ‘innamorata’ della sua città”, è attiva da tempo nel mondo della cultura ambrosiana: i suoi libri sono dedicati alla storia urbana, presa in esame nei vari campi dell’architettura, del costume, della cucina, della vita sociale e politica. Giovanna Ferrante, che in passato è stata autrice e conduttrice di trasmissioni radiofoniche presso Radio Meneghina, ha curato interessanti rubriche settimanali dedicate alla città. Insignita dell’Ambrogino d’Oro nel 2007, dal 2016 è responsabile della “Direzione Storie e Tradizioni milanesi” per il Centro Studi Grande Milano. L’autrice è quindi un’esperta di cultura milanese.

Il libro, come si è accennato, non è un’opera storica in senso stretto. E’ un racconto suggestivo in cui l’autrice ripercorre le controverse fasi di costruzione della Galleria Vittorio Emanuele II, facendo quasi rivivere le persone che ad essa furono legate in un modo o nell’altro: oltre alle analisi storiche condotte dalla Ferrante in merito ai tempi di realizzazione, all’inaugurazione e alle dimensioni di tale monumento, il lettore viene quasi portato per mano nella Milano dell’Otto e Novecento, come se fosse chiamato ad assistere a frammenti di vita quotidiana di personalità che furono legate alla storia della galleria. 

Efficace ad esempio il ritratto dell’architetto Giuseppe Mengoni – colui che vinse il concorso per la costruzione dell’edificio e lo realizzò nell’arco di più di dieci anni – descritto nell’atto di parlare al suo canarino o alla moglie mentre rivela i tormenti, le paure o le delusioni che lo attanagliavano. 

La Galleria Vittorio Emanuele all’ingresso verso Piazza del Duomo: a destra il primo Campari, a sinistra il secondo Campari (Camparino). Foto risalente ai primi anni del XX secolo.

Un’altra pagina di storia milanese è quella che si apre con il ritratto della famiglia Campari, che l’autrice disegna con grande efficacia narrativa facendo parlare la moglie di colui che fu il vero artefice del successo: Gaspare. Emigrato a Milano da Novara nella speranza di fare fortuna nell’attività di distillazione dei liquori e nella gestione di un caffè, nei primi anni Sessanta dell’Ottocento Gaspare aprì la sua attività nel Coperto dei Figini, un portico quattrocentesco che occupava il lato nord della piazza del Duomo. La demolizione di questo edificio dovuta all’allargamento della piazza e alla costruzione della Galleria non colse impreparato il commerciante novarese, che non esitò ad investire i suoi pochi fondi per prenotare uno spazio nel nuovo edificio. Il lettore apprende queste notizie dalle parole della signora Letizia, che possiamo immaginare con quale felicità avesse appreso dal marito che gran parte dei risparmi erano stati impiegati nella nuova impresa del Campari in Galleria: “Cosa stai dicendo? Non abbiamo ancora sistemato tutte le pendenze, stiamo appena cominciando a vedere i primi frutti di tanti pensieri e tanta fatica e adesso quest’altra bella novità! Gaspare, ma cosa ti viene in mente? Prima ancora di sapere cosa sarà questa nuova costruzione, no guarda, non posso crederci, hai prenotato una bottega in una Galleria che è ancora solo sulla carta” (pag,66). Da storico non posso che diffidare di questo racconto, frutto della pura immaginazione dell’autrice. E’ un discorso chiaramente inventato; ma come appare verosimile e, soprattutto, come si integra bene nel contesto storico che si sta descrivendo! Quelle non sono certo le parole di Letizia, ma qualcosa di quei pensieri dovette frullarle nella testa mentre il marito rischiava il suo patrimonio nell’investimento in Galleria. Gaspare vide giusto: il Campari divenne uno dei locali più rinomati di Milano e, mezzo secolo dopo, nel 1915, la famiglia riuscì perfino ad allargare la sua attività nel celebre passaggio vetrato del Mengoni aprendo, sul lato opposto (lato ovest), il Camparino, uno dei locali più caratteristici di Milano, tuttora esistente. 

Eugenio Torelli Viollier (1842-1900), primo direttore del “Corriere della Sera”.

L’analisi storica in questo libro si alterna così alla parte per così dire “narrativa”, rendendone accessibile la lettura anche a un pubblico di non specialisti. Si succedono le storie di Eugenio Torelli Viollier, primo direttore del “Corriere della Sera”; la prima sede del giornale si trovava in due stanze nell’ammezzato della galleria, un ufficio composto da tre redattori e quattro operai. L’autrice dedica particolare attenzione alla moglie del direttore, Maria Antonietta Torriani: fu la prima firma femminile della testata. Quella tra Torelli Viollier e la Torriani fu una relazione sofferta, dai risvolti tragici. La loro unione, durata due anni (1875-1877), fu bruscamente spezzata dalla morte improvvisa della nipote di Maria Antonietta, la giovanissima e avvenente Eva, suicidatasi mentre era ospite dei coniugi Viollier a Milano; la ragazza non resse agli attacchi di gelosia di Maria Antonietta, che l’aveva derisa davanti a conoscenti e amici, non perdonandole la relazione intima che il marito andava intrattenendo con lei. Nelle pagine della Ferrante si susseguono altre storie di personaggi che in un modo o nell’altro furono legati alla Galleria: da Ernest Hemingway a Umberto Boccioni, dal deputato radicale Felice Cavallotti agli scrittori veristi Giovanni Verga e Luigi Capuana.

Cosa è rimasto oggi di quel mondo? Come possiamo descrivere la Galleria Vittorio Emanuele al giorno d’oggi? Il monumento del Mengoni ha vissuto negli ultimi anni un’autentica evoluzione. Non si tratta solo di una diversa atmosfera che vi si respira. Ad essere cambiata sembra essere la stessa percezione che ne hanno i milanesi. Tale risultato è dipeso in buona parte dall’oculata gestione degli spazi che l’amministrazione comunale ha saputo condurre ormai da tempo. E’ di poche settimane la notizia che Giorgio Armani, dopo un confronto serrato con Tod’s, si è aggiudicato l’affitto di un locale (302 metri quadrati) ove fino a pochi mesi fa aveva sede un negozio TIM. Lo stilista ha così rafforzato la sua presenza nella Galleria ove hanno sede, ormai da anni, alcuni tra i marchi di moda più esclusivi: basti ricordare, per citarne alcuni, Prada, Luis Vuitton, Gucci.

Anche la presenza dei ristoranti si è in gran parte rinnovata ed arricchita: certo, c’è ancora il Savini, nei cui locali, tra la seconda metà dell’Ottocento e il XX secolo, si ritrovavano cantanti, attori, personalità della cultura, della classe dirigente e della classe politica italiana: qui esiste ancora il tavolo 7, un tempo riservato alla celebre cantante lirica Maria Callas e al suo compagno, l’armatore greco Aristotele Onassis. 

Carlo Cracco, chef pluripremiato, proprietario dell’omonimo ristorante in Galleria

L’arrivo di Cracco, che si è stabilito in alcuni locali del braccio meridionale, è stata una vera novità: il cuoco vicentino ha svecchiato il comparto della ristorazione di qualità, che in galleria era rimasto da troppi anni immutato per quanto concerne l’allestimento delle vetrine. Il risultato è pero che oggi il passaggio coperto del Mengoni è divenuto un salotto esclusivo, tempio del lusso, i cui spazi possono essere frequentati solo da una ricca clientela. E’ come se la galleria, da almeno un decennio, abbia finito per assumere una sua identità separata dal resto della città, un po’ come avviene nel celebre “Quadrilatero della Moda”. 

E’ vero che a riportarci alla Milano dei milanesi morigerati ci sono ancora negozi ‘normali’ come la libreria Rizzoli (oggi del Gruppo Mondadori) nel braccio nord o la Feltrinelli nel braccio sud. Esiste ancora il Camparino ove si può ammirare uno stupendo orologio risalente agli anni dell’Art Nouveau. Però l’impressione è appunto quella che ho tracciato sopra: la Galleria si è trasformata in uno spazio del lusso. 

Un tempo le cose non stavano così. Gli storici ci dicono che la Galleria, poco tempo dopo la sua costruzione, divenne sede di vivaci aziende del commercio, della ristorazione. Alcuni anni fa, in uno dei miei articoli, dimostrai addirittura come il passaggio coperto del Mengoni fosse divenuto nella seconda metà dell’Ottocento un punto di ritrovo per tutte le classi sociali, dagli umili artigiani fino all’intraprendente borghesia degli affari che viveva e lavorava nelle vicinanze. La Galleria costituì inoltre un luogo irrinunciabile anche per i tanti cantanti, ballerini e ballerine, attori e attrici, registi attivi nel vicino Teatro alla Scala. Non basta. Nella Milano ove sono ambientati i racconti di Giovanna Ferrante, ma anche nella città novecentesca la Galleria costituì una meta fondamentale per quanti lavoravano nelle vicinanze: dai funzionari delle vicine banche d’affari agli esponenti della classe politica milanese che svolgevano l’ufficio di consiglieri comunali o di assessori a Palazzo Marino, dagli impiegati pubblici alla vivace borghesia del commercio attiva nei negozi circostanti, tutti passarono sotto il monumento del Mengoni: un’opera destinata a divenire ben presto uno dei simboli di Milano.

Un monumento all’Italia: la Galleria Vittorio Emanuele

La Galleria Vittorio Emanuele è senza dubbio uno dei monumenti più caratteristici di Milano. E’ considerata il Salotto della città. I turisti restano estasiati dalla sua architettura e dalle prestigiose boutique che si aprono al suo interno. La Galleria, i cui lavori erano iniziati il 7 marzo 1865, fu inaugurata il 15 settembre 1867 alla presenza del Re. L’architetto Giuseppe Mengoni, che aveva diretto i cantieri, morì dieci anni dopo, il 30 settembre 1877, precipitando da un ponteggio mentre tentava di ultimare l’arco verso piazza del Duomo: uno dei casi più famosi di morte sul lavoro.

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Giuseppe Mengoni

Come ho ricordato in un articolo di qualche mese fa, non era la prima volta che Milano si arricchiva di un passaggio coperto: la Galleria De Cristoforis, che collegava corso Vittorio Emanuele con via Monte Napoleone, costituì per alcuni decenni un luogo importante di socialità cittadina. Non presentava tuttavia una veste grandiosa.

La nuova Galleria fu qualcosa di diverso. Finanziata dal consiglio comunale, che ne affidò i lavori alla società inglese City of Milan Improvements Company, essa rappresentò nelle sue dimensioni imponenti, nei temi delle decorazioni, l’emblema dell’Italia risorta, gemma preziosa dello Stato nazionale monarchico. Giuseppe Verdi in una lettera scritta a un amico francese nel 1868, non nascondeva la sua ammirazione per questo ardito passaggio vetrato che collegava piazza del Duomo con piazza della Scala:

La nuova Galleria è proprio un cosa bella: un’opera artistica, monumentale. Nel nostro paese c’è ancora il senso del Grande congiunto al Bello.

IMG_6762Alla sua apertura la Galleria ospitava novantasei negozi, un numero certamente rilevante se consideriamo che la Galleria De Cristoforis ne aveva allora una settantina. I caffè rivestivano un ruolo significativo nella vita sociale dei milanesi in Galleria. Chi fosse entrato a fine Ottocento da piazza del Duomo, avrebbe trovato sulla destra il celebre Caffè Campari gestito da Gaspare Campari. Giunto a Milano nel 1863 dopo aver lavorato a Torino e a Novara, Campari fece fortuna con i celebri liquori: il Fernet e il Bitter all’uso d’Olanda come si diceva a quel tempo (oggi conosciuto come Bitter Campari). Nel 1915, anno dell’ingresso dell’Italia nella Grande Guerra, Campari aprì un altro caffè sul lato opposto che dava sempre verso piazza del Duomo. Oggi questo spazio, tuttora adibito a caffé (nonché ristorante al piano superiore) non è più di Campari ma conserva il prezioso  bancone che gli antichi proprietari avevano fatto costruire in stile art nouveau.

Un altro caffè storico era quello aperto da Paolo Biffi nel 1867 al centro dell’Ottagono, nei locali in cui oggi si trovano gli stupendi negozi di Prada. Le vetrine di Biffi, che si era distinto per la produzione di panettoni artigianali, si estendevano lungo il braccio della Galleria verso via Ugo Foscolo.

Sul lato opposto si trovava una sede secondaria del caffè Gnocchi di Galleria De Cristoforis. Poi la proprietà passò alla Birreria Stocker, i cui gestori garantivano ai clienti la calda accoglienza di avvenenti cameriere in abito tirolese. Nel 1885 la proprietà fu acquistata da Virginio Savini, che ne fece la sede del suo celebre caffè frequentato dagli artisti del vicino teatro Manzoni. Dalla metà del secolo scorso il Savini divenne, com’è fin troppo noto, il centro della vita mondana: nelle sale lussuose di questo ristorante si ritrovavano politici, banchieri, intellettuali importanti nella storia nazionale.

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Il Ristorante Gambrinus – Gambrinus Halle in una immagine pubblicata nei primi anni del Novecento

Non possiamo chiudere questa rassegna sugli antichi ristoranti senza citare il secondo locale che Baldassarre Gnocchi aprì in galleria negli spazi ove oggi si trova la libreria Rizzoli. Si trattava di un caffé di notevole grandezza che acquisì una certa fama nella Milano di fine Ottocento: vi si tenevano regolarmente concerti ad opera di una solerte orchestra di signore viennesi.  L’atmosfera filotedesca – e più in generale filo germanica – che vi si respirava era certamente il risultato della politica conservatrice che il governo italiano seguì in quegli anni mediante la firma dei trattati della Triplice Alleanza con gli Imperi centrali (Impero germanico e Impero austro-ungarico). Una politica che recò i suoi frutti anche sul piano economico. Ricordiamo che a Milano furono istituite, grazie al contributo determinante di capitali tedeschi, le due più importanti banche del Paese: la Banca Commerciale Italiana (1894) e il Credito Italiano (1895) le cui sedi si trovavano a pochi passi dalla Galleria.

Tornando al ristorante Gnocchi, senza l’aiuto della casa  tedesca Siemens&Halsk esso non sarebbe certo riuscito ad illuminare i suoi locali con la luce elettrica, il 21 agosto 1880: fu un evento memorabile nella storia cittadina. Esso anticipava di alcuni anni l’illuminazione elettrica, che in città sarebbe stata possibile solo alcuni anni dopo grazie all’apertura della centrale Edison nella vicina via Santa Radegonda. Assunto nel 1882 il nome di Birreria Gambrinus, il ristorante Gnocchi continuò ad operare con tale denominazione fino all’entrata in guerra dell’Italia, nel 1915. A seguito delle campagne nazionaliste antitedesche,  le autorità obbligarono i gestori a chiamarlo “Grand’Italia”.

Se prendiamo in esame alcuni diari scritti da turisti stranieri in visita a Milano nella prima metà del Novecento, ci accorgiamo che il pubblico della Galleria era alquanto variegato. Del tutto indicative le riflessioni scritte nel 1923 dallo scrittore spagnolo Vicente Blasco Ibanez (1867-1928), che si soffermava sui tanti giovani artisti che puntavano sulla Galleria per incontrare un impresario che potesse fare la loro fortuna. La vicinanza al Teatro alla Scala sembrerebbe aver segnato l’identità del celebre edificio:

Vicente Blasco Ibanez
Vicente Blasco Ibanez

Qui si trattengono, mangiando maccheroni nelle trattorie a buon mercato, e aspettando il momento in cui il mondo farà loro giustizia cospargendo di milioni la strada della loro vita, tutte le reclute e i riservisti dell’arte musicale, gente infelice e degna di pietà che si prepara ad entrare nel tempio della gloria cantando per cinque o sei lire in qualunque teatrino municipale del “Milanesado”. Questo soltanto perché qualche giornale di infimo ordine scriva qualcosa su di loro così da poter inviare il ritaglio alla famiglia e agli amici, e convincerli dei grandi successi che ottengono nel paese dell’arte.

Qui ci sono anche i veterani, quelli che, dopo aver fatto la gioia di tutta una generazione in qualunque capitale d’Europa, mettono mano ai loro risparmi, e quelli che, più imprevidenti, debbono dedicarsi, in vecchiaia, a penose occupazioni per liberarsi dalla miseria, dopo aver trascinato sete e velluti sui palcoscenici e aver ricevuto deliranti ovazioni.

Non si può vivere a Milano senza imbattersi, ad ogni istante, nell’artista veterano, nel novellino o nell’audace che tira dritto, fresco come una rosa, di insuccesso in insuccesso e di fischiata in fischiata.

Trent’anni dopo, il quadro sembrava completamente mutato. Nelle brevi note scritte nel 1964 da Henry Vollan Morton (1892-1979), la Galleria assumeva le caratteristiche di un ambiente magico, staccato dalla convulsa vita cittadina dominata dal traffico e dalla frenesia lavorativa; ritrovo prediletto per innamorati, donne avvenenti, ricchi banchieri e politicanti.

Henry Vollan Morton
Henry Vollan Morton

La Galleria mi parve la moderna versione di un Foro romano. Non c’era il traffico viario, la gente poteva a suo piacimento fare acquisti, passeggiare, pettegolare o leggere le ultime notizie del mercato finanziario. Erano presenti tutte le figure tipiche dell’antico foro: gli innamorati che si incontravano nel luogo stabilito per l’appuntamento, i politicanti con l’ultima edizione del Corriere della Sera, le signore alla moda, i ricconi con la loro corte e perfino, come dubitarne, i seccatori! In Galleria non mi annoiavo di certo: là gli esseri umani, lontani dal fragore e dalla confusione del traffico, si pavoneggiavano come su una ribalta dove tutti sono, ad un tempo, attori e spettatori.