Rappresentanza parlamentare come selezione dei più capaci

Nel libro di Cassese una riflessione sulle forme e i limiti della sovranità popolare

Sabino Cassese

Nel libro di Sabino Cassese (Il popolo e i suoi rappresentanti. Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 2019, 121p.) sono pubblicati alcuni testi interessanti scritti da esponenti della classe politica liberale sui valori fondanti di un regime democratico. Si tratta di interventi risalenti a un periodo compreso tra la fine dell’Ottocento e la prima metà del Novecento. Il volumetto è curato da uno dei massimi studiosi di storia dell’amministrazione pubblica, cui si deve il prezioso saggio introduttivo sul concetto della rappresentanza politica. Cassese fa un po’ di chiarezza su termini spesso abusati, che hanno larga presa sui cittadini: “parole magiche” come “democrazia”, “democrazia rappresentativa”, “elezioni politiche”; termini utilizzati da molti politici in via strumentale per indicare un tipo di democrazia ch’essi vorrebbero fondata su una concezione radicale e astratta del principio della sovranità popolare.

S. Cassese, “Il popolo e i suoi rappresentanti”. Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 2019. pp.121. Il costo è di 9 euro.

La critica colpisce soprattutto il Movimento 5Stelle (e non solo), definiti “lontani pronipoti di Rousseau”. Cassese ha ragione quando contesta l’accezione radicale del concetto di democrazia che alcuni politici estremisti vorrebbero fondare su un potere illimitato dato al popolo nel governo della comunità.

Egli si rifà invece a una corrente di pensiero tra i cui esponenti val la pena ricordare Vittorio Emanuele Orlando, Francesco Saverio Nitti, Benedetto Croce: personalità autorevoli della cultura e della classe politica liberale che, avendo assistito all’affermarsi della dittatura e al seguito travolgente che essa aveva avuto nelle masse, ritenevano opportuno limitare gli strumenti di democrazia diretta e l’intervento del popolo nell’esercizio della democrazia repubblicana.  

Ai demagoghi che affermano il potere sovrano del popolo di scegliersi i suoi rappresentanti nelle elezioni politiche, Cassese risponde che “in nessun paese gli elettori possono indicare sulla scheda elettorale un nome a propria scelta: votano una lista o un nome proposto dai partiti o altre forze politiche” (pag.8). Inoltre non si può affermare – sostiene Cassese – che il popolo elegga in Parlamento i suoi rappresentanti perché i cittadini di un collegio territoriale sono moltissimi, è categoricamente impossibile che il deputato li conosca tutti, come è altrettanto impossibile che egli possa ricevere un “mandato” perché si comporti nel modo atteso da ciascuno di loro: “il rappresentante non agisce in nome e per conto del rappresentato, né imputa ad esso gli effetti della propria azione perché l’eletto è autonomo rispetto ai votanti” (pag.7).

Osservazione fondamentale, che marca nettamente la differenza tra la rappresentanza privata nel diritto romano, tra la rappresentanza di ceto negli ordinamenti medievali e d’antico regime da una parte e la rappresentanza politica nelle democrazie moderne dall’altra; se in queste ultime sussiste il divieto del mandato imperativo, che nel diritto privato lega il mandatario al suo mandante, ciò avviene per ragioni di interesse pubblico. In un collegio che rappresenta un’intera comunità, le leggi non possono essere approvate sulla base degli interessi egoistici di frazioni di cittadini. Devono – o dovrebbero – riflettere l’interesse pubblico. Giunti a questo punto, è però inevitabile che il lettore si chieda che funzione abbiano le elezioni se il popolo non esercita un potere sovrano. Cassese concorda in questo con i maggiori esponenti del partito liberale, secondo i quali il popolo non eserciterebbe un potere sovrano di scelta dei deputati. Vittorio Emanuele Orlando definiva nel 1889 il concetto della rappresentanza politica non già come “delegazione di poteri”, bensì come “designazione di capacità”.  

Altro argomento centrale del libro è il suffragio universale. Nel 1910 Silvio Spaventa riteneva che esso, riguardante all’epoca il solo elettorato maschile, sarebbe stato mezzo incisivo per limitare l’ingerenza della politica nell’amministrazione dello Stato, politica  che era allora monopolizzata dalla borghesia grazie al meccanismo delle elezioni a suffragio ristretto; Spaventa riteneva che l’estensione del voto alle masse, rendendo possibile l’ingresso in Parlamento dei partiti popolari, avrebbe garantito anche in Italia una corretta alternanza tra partiti di governo e partiti di opposizione. 

Nel 1911 si espresse a favore del suffragio universale maschile anche Sidney Sonnino in un accorato scritto pubblicato a cinquant’anni dall’unità italiana. Egli pensava che il coinvolgimento di milioni di analfabeti, fino a quel momento esclusi dalla partecipazione alla politica, avrebbe rafforzato il regime liberale, avrebbe spinto i cittadini a riconoscersi nelle istituzioni rispettando le leggi e l’azione amministrativa dello Stato. Un giudizio eccessivamente ottimista. Spaventa non avrebbe mai immaginato che la crisi della società italiana al termine del primo conflitto mondiale, l’instabilità provocata negli anni del primo dopoguerra dalla breve durata dei governi, dai continui scioperi e dalle violenze dei fascisti avrebbero segnato la fine dello Stato liberale.

Credo tuttavia che la riflessione più interessante in tema di suffragio universale sia quella formulata da Giovanni Giolitti in uno scritto risalente al 1922 (nel libro alle pp.85-105): il politico piemontese ricordava che la legge sul suffragio universale maschile, approvata dieci anni prima, era stata voluta dal suo governo per ragioni di giustizia ma anche di convenienza politica perché in tal modo si poteva sperare di sottrarre le masse all’influenza pericolosa dei movimenti estremisti. Giolitti era convinto che quella legge avesse contribuito non solo alla sicurezza sociale, ma anche all'”elevazione materiale e morale delle classi popolari”. 

Che tipo di suffragio era tuttavia quello della legge del 1912? Era davvero un suffragio universale come lo intendiamo oggi, esteso a tutti i cittadini che abbiano raggiunto la maggiore età senza distinzione alcuna? Non proprio. Oltre ad escludere le donne, si trattava di un suffragio diversamente regolato in base al criterio dell’alfabetismo. A quei tempi si voleva evitare di attribuire un diritto politico a chi fosse ritenuto immaturo o non in grado di esercitare con saggezza e prudenza quel dovere civico. La legge fissava i seguenti criteri: era mantenuto il diritto di voto per i cittadini alfabeti, in possesso della licenza elementare, che avessero compiuto almeno 21 anni; tale diritto valeva anche per quanti avevano fatto il servizio militare; per gli analfabeti invece, solo chi avesse superato la soglia dei trent’anni poteva votare nelle elezioni politiche.  Giolitti spiegava così la ragione che aveva spinto il suo governo a restringere il diritto di voto agli analfabeti : 

Giovanni Giolitti (1842-1928)

“Nove anni di esperienza di vita, quanti sono quelli che corrono tra il ventunesimo e il trentesimo anno, sono una buona scuola, che può, e per certi rispetti con vantaggio, sostituire l’istruzione elementare, specie nelle classi popolari dove gli individui devono presto assumersi la responsabilità della loro condotta e guadagnarsi il pane. L’uomo del popolo, che generalmente a trent’anni ha già famiglia e figli, diventa riflessivo e sedato, e non si lascia troppo agevolmente fuorviare dalle propagande di idee e propositi eccessivi”. (pag.94) 

Una spiegazione che, fatte le dovute differenze di tempo e di condizione sociale, non manca di far riflettere ancora oggi quando un largo fronte trasversale composto dal Movimento 5 Stelle, dalla Lega, dal Pd, ha proposto addirittura di abbassare il diritto di voto a 16 anni.

Ma una riflessione andrebbe fatta a mio avviso anche sull’elettorato passivo, vale a dire sul diritto di candidarsi alle istituzioni elettivo rappresentative: qui dovrebbe essere introdotta una restrizione che limiti fortemente l’accesso alle cariche pubbliche, ammettendo solo esperti nelle discipline umanistiche, giuridiche ed economiche o quanti si siano distinti nell’imprenditoria fondando aziende di successo che hanno creato posti di lavoro e hanno contribuito ad arricchire il Paese. Se è del tutto normale che si richiedano titoli e competenze elevati a quanti avanzano la loro candidatura ai ruoli apicali di un’azienda privata, non capisco per quale motivo ciò non debba avvenire nelle elezioni politiche e amministrative, ove si devono scegliere persone che dovranno rappresentare il Paese o le comunità territoriali nelle funzioni pubbliche; vale a dire in posti di altissima responsabilità, il cui potere può influenzare la vita civile e sociale.

Come scrive Cassese, noi assistiamo invece a uno scadimento della cultura politica, evidente nella scarsa competenza e capacità di molti deputati eletti in Parlamento. La ragione di tale imbarbarimento risiede nella mancanza di una legge sui partiti che possa introdurre meccanismi severi, atti a renderli un filtro efficace nella scelta dei nomi da sottoporre all’elezione popolare per il Parlamento, per le Regioni o i Comuni della Repubblica. Una mancanza che si fa sentire e alla quale si chiede urgentemente di porre riparo. Già Benedetto Croce, in un articolo pubblicato nel 1950, si soffermava su questo punto quando sosteneva:

Benedetto Croce (1866-1952)

“Un hiatus par che si apra tra gli uomini, tra le classi dirigenti e competenti e le masse elettorali. Il punto è far sì che queste possano mandare ai parlamenti un buon numero di uomini intelligenti, capaci e di buona volontà. A fare che ne esca il migliore possibile debbono lavorare i partiti…” (pag.115).

Civismo e rispetto delle regole: così l’italia avrà un futuro

Nel libro di De Bortoli un’analisi disincantata dei mali che affondano il Paese.

Invita a riflettere sui nostri difetti e sulle nostre virtù di italiani il libro di Ferruccio De Bortoli (Ci salveremo. Appunti per una riscossa civica, Milano, Garzanti 2019, 172 pagine).

Il volume presenta una critica ragionata ad alcune politiche del governo. Ci si sofferma ad esempio sulla cosiddetta flat tax per le partite iva di artigiani, commercianti, agenti di commercio limitatamente a soglie basse di fatturato: 15% fino ai 65.000 euro di ricavi. Tale aliquota, com’è noto, sostituirà l’Irpef, le addizionali e l’Irap. Viene data inoltre la possibilità agli imprenditori di non aggiungere l’Iva al costo del lavoro, agevolando in tal modo la concorrenza sleale. Queste norme – commenta De Bortoli basandosi sulle analisi del professor Dario Stefanato – finiranno per scoraggiare la crescita delle aziende perché gli imprenditori, volendo pagare meno imposte, preferiranno costituire tante imprese di piccole dimensioni e continuare a beneficiare della flat tax.

A suscitare forti preoccupazioni è però un altro provvedimento citato nel libro: nella legge di bilancio 2019 è stata introdotta una norma che consentirà alla pubblica amministrazione di affidare i lavori pubblici a un’impresa agendo in via diretta, senza passare per una gara di appalto. Questo limitatamente ad interventi che abbiano un costo non superiore ai 150.000 euro. Rispetto alla normativa precedente si tratta di un notevole innalzamento della soglia, se si considera che il limite era stato fissato in precedenza a 40.000 euro. Il rischio è che un ente pubblico – guidato magari da un politico corrotto – tenda a favorire aziende disoneste o colluse con sistemi malavitosi facendo pagare costi enormi alla collettività per il rischio di tangenti. In precedenza, come ha osservato il presidente dell’Autorità Nazionale Anticorruzione, Raffaele Cantone, le aziende erano tenute a presentare un certificato antimafia. Ora non più. Il rischio di infiltrazioni malavitose sarà quindi altissimo. E’ vero che per i lavori superiori ai 150.000 euro resterà la procedura della gara di appalto e che in Europa tale procedura è limitata ad interventi ancora più costosi, pari a 240.000 euro. Occorre però rilevare che in un Paese come l’Italia, ove la corruzione è tanto diffusa, sarà facile alla criminalità e ai politici disonesti fare i loro affari a detrimento del bene pubblico.

Ferruccio De Bortoli

A ben vedere, il libro di De Bortoli contiene una rassegna disincantata delle eccellenze e dei mali presenti nella società italiana; mali che non provengono soltanto dai politici; sono il risultato della mancanza di civismo e di rispetto per le regole che si ravvisa in tanta parte della classe dirigente, nonché nei comportamenti quotidiani della gente comune. Pensiamo soltanto agli imprenditori che fissano la sede legale delle aziende nei paradisi fiscali per non pagare le tasse in Italia. E’ solo uno dei tanti esempi che si potrebbero portare a tal proposito, che rivela la tendenza degli italiani a curare i loro interessi dimenticando quella cura per il bene comune che dovrebbe costituire il fondamento di una comunità fatta di uomini liberi e responsabili.

Un caso che mostra la completa assenza di civismo è quello dei pensionati che si sono trasferiti all’estero per usufruire di un migliore regime di tassazione. Molti ad esempio vivono in Portogallo, dove la legge di quel paese consente di condurre un’esistenza agiata senza pagare imposte per dieci anni. Tuttavia alcuni di questi pensionati si son guardati bene dal registrarsi nell'”Anagrafe degli italiani residenti all’estero”, perché questo finirebbe con l’escluderli dal servizio sanitario nazionale. Vanno all’estero per non pagare le tasse ma continuano a succhiare dalla mammella italiana per continuare ad usufruire del welfare italiano che resta, nonostante tutto, di qualità.

Occorre tuttavia precisare che De Bortoli non intende indossare la veste del censore dei difetti nazionali, un ruolo che in passato non pochi giornalisti hanno interpretato lasciandosi andare alla retorica degli italiani inaffidabili, individualisti e machiavellici. L’autore ama il suo Paese e non esita a ricordare i tanti successi raggiunti dall’Italia nei campi più svariati.

“Siamo la seconda manifattura d’Europa dopo quella tedesca. Primi per numero di piccole e medie imprese manifatturiere. Il valore aggiunto del settore agro alimentare è tre volte quello dell’automotive di Francia e Spagna e il doppio della somma di aerospazio di Francia, Germania e Regno Unito. E siamo al vertice, i migliori, nell’efficacia e nella capillarità dei controlli sulla qualità dei cibi. L’Italia è ai primi posti nel mondo per il livello di salute della sua popolazione (pag.36)”.

Sono queste ed altre belle pagine della nostra economia che spingono De Bortoli a chiedere ai cittadini una riscossa civile per combattere quei comportamenti negativi che segnano il declino del nostro Paese. I buoni esempi non mancano; si vedono nella vita quotidiana, nella cura per le piccole cose, nell’educazione e nel rispetto per l’ambiente. Casi che però sembrano di gran lunga superati dai tanti cattivi esempi. Pensiamo alla mancata pulizia degli spazi pubblici. Perché a nord delle Alpi o vicino alle Alpi il decoro di vie, piazze e giardini tende ad essere preservato con cura, mentre a sud prevale l’incuria e la sporcizia? Si badi che il discorso vale sia a Nord che a Sud perché alcune strade di Milano non sono certo tenute meglio rispetto alle piazze di Roma e di Napoli. In questi casi, nella scarsa attenzione per gli spazi pubblici, in quei comportamenti maleducati diffusi purtroppo fin nei più remoti interstizi della società, si ravvisa chiarissima la mancanza di cura per il bene pubblico e l’assenza di civismo. Un abisso che separa l’Italia dagli altri Stati europei.

Molti dei nostri concittadini non esitano a sporcare buttando per terra mozziconi di sigarette o bottiglie di plastica. La loro coscienza non è per nulla turbata: essi son pronti a nascondersi dietro la comoda scusa che è compito dei netturbini tenere pulita la strada o i parchi pubblici. Perché dunque preoccuparsi di non sporcare o di fare pulizia in prima persona? In fondo, è lo stesso ragionamento di una ragazzina quando, alla domanda di un signore sul motivo che l’aveva spinta a buttare in terra una cartaccia, gli ha risposto candidamente: – E la bidella che ci sta a fare? Esempio perfetto della persona maleducata.

A Roma la situazione, com’è ormai fin troppo noto, ha assunto livelli addirittura intollerabili. La società municipalizzata del Comune, Ama, non è in grado di assicurare una corretta pulizia delle strade. Questo chiama in causa la pessima amministrazione delle giunte che si sono succedute in Campidoglio nel corso degli anni: dal centrodestra al centrosinistra fino ai 5Stelle. Il che però non basta a spiegare il disastro. De Bortoli si spinge più in là e, sulla base dei dati dei bilanci comunali, si chiede se una parte di responsabilità non l’abbiano anche i romani quando molti di loro si rifiutano di pagare la TARI: “La maggiore evasione si registra a Roma. Nella provincia della capitale mancano all’appello 149 euro per cittadino. Nella Città metropolitana di Roma si constata la più basse percentuale nazionale di riscossione dell’accertato. Il Lazio è al primo posto per il mancato incasso della tassa sui rifiuti con un buco di 121 euro pro-capite…”

Riusciremo a risollevare l’Italia? L’autore è un inguaribile ottimista. In caso contrario avrebbe scelto un altro titolo al suo bel volumetto. De Bortoli si è rivolto invece agli italiani con due semplici parole: “Ci salveremo”: un atto di fede nel genio e nella forza di volontà che ha reso grandi gli italiani nel corso dei secoli. Parole che riprendono le meditate riflessioni di Aldo Moro che, in un discorso del 1976, nel ricordare la sua esperienza di ministro dell’istruzione alla fine degli anni Cinquanta, così condensava le ragioni che allora avevano spinto il governo ad introdurre l’insegnamento dell’educazione civica nelle scuole medie e superiori:

Aldo Moro

Questo Paese non si salverà se la stagione dei diritti e delle libertà si rivelerà effimera, se in Italia non nascerà una nuova stagione dei doveri”.



Riscoprirsi ebrei negli anni dell’esilio

Le peripezie dei Gerbi, in fuga dall’Europa a causa delle leggi razziali del 1938

Il libro di Sandro Gerbi (Ebrei riluttanti, Hoepli, Milano 2019, 158p) è un testo di notevole interesse storico per almeno due ragioni. L’autore, nel raccontare la storia della sua famiglia negli anni drammatici che precedettero la seconda guerra mondiale, è riuscito a mostrare come l’appartenenza dei suoi cari all’ebraismo fu vissuta in modi profondamente diversi: solo la violenza delle leggi razziali li costrinse a difendere quel patrimonio di valori e alcuni (come il padre Antonello) addirittura con stato d’animo distaccato, assai lontano da una pratica religiosa di rigida osservanza. Questo è il primo elemento distintivo del libro che sorprende il lettore comune: l’atteggiamento dei Gerbi verso la religione e le tradizioni ebraiche; un atteggiamento sofferto, quasi obbligato dagli eventi crudeli di quegli anni, descritto da un cugino del padre di Sandro, Paolo Treves, in una pagina illuminante della sua autobiografia: “L’autore di questo libro è anche ebreo (corsivo mio). Per la verità, solo quando cominciò la lotta antisemita in Italia questo fatto emerse dal complesso della sua personalità di uomo, e solo da allora se ne sentì particolarmente fiero. Prima non si era mai fermato col pensiero su questo fatto (S. GERBI, Ebrei riluttanti…cit., pag.19). 
Il libro di S. Gerbi, Ebrei riluttanti, Hoepli, Milano 2019.
I Gerbi erano giunti a Milano nel 1919 quando il nonno di Sandro, Edmo, aveva lasciato Roma per fissare la sua residenza nella città ambrosiana, ove lavorò per alcuni anni come agente di borsa. Si trattava di una famiglia della ricca borghesia italiana, composta, oltre che da Edmo (1874-1944), dalla moglie Iginia Levi (1878-1926) e dai tre figli Antonello (1904-1976), Giuliano (1905-1976) e Claudio (1907-1990). Da notare che la sorella di Iginia, Olga, aveva sposato il celebre politico socialista Claudio Treves e aveva avuto due figli, uno dei quali era il già citato Paolo (1908-1958). 
Il libro è scritto nello stile semplice ed elegante della migliore memorialistica, ricco di aneddoti, il che ne rende ancor più gradita la lettura. L’autore non racconta soltanto la storia della famiglia, ma si occupa in misura notevole di ricostruire il filo della sua esistenza dalla giovinezza fino agli anni più recenti. Alcune pagine sono dedicate al periodo della sua formazione nella Milano degli anni Cinquanta: colpisce il ricordo, velato da una certa nostalgia, della figura imponente e intellettualmente stimolante del professore di religione al liceo Manzoni, don Giovanni Barbareschi, le cui lezioni Gerbi aveva frequentato pur non essendovi costretto in forza della sua fede ebraica. 
Tra i ricordi – tutti rigorosamente documentati in una preziosa Nota al testo situata in fondo al libro alle pp.137-152  – spiccano gli incontri con persone illustri della cultura e della società italiana, dal filosofo ungherese Gyorgy Lukàcs all'antico direttore del “Corriere della Sera” Ugo Stille, dall’agente letterario Erich Linder al celebre giornalista Indro Montanelli: con quest'ultimo, che dirigeva sul "Corriere della Sera" la popolare rubrica "La Stanza di Montanelli", Gerbi ebbe nel 1999 una querelle sulle posizioni antiebraiche del leader neofascista Giorgio Almirante.
La seconda ragione per la quale il libro di Gerbi è un’opera di notevole interesse risiede a mio giudizio nell’aver mostrato efficacemente il dramma dell’esilio che colpì tante famiglie ebree alla fine degli anni Trenta:  uomini e donne costretti a lasciare la patria in seguito al clima di discriminazione e di isolamento culminato nell’introduzione delle famigerate leggi razziali.  Un dramma, questo dell’esilio, su cui l’autore si sofferma brevemente nella prima parte del volume, Exodus, ove ricostruisce con cura le sofferte vicende dei suoi cari. Mi limiterò a ricordare in questa sede i casi di Antonello, Claudio e Giuliano Gerbi.
Antonello, storico assai stimato da Benedetto Croce e Luigi Einaudi, ricopriva dal 1932 l’ufficio di capo dell’ufficio studi della Banca Commerciale Italiana guidata dal banchiere Raffaele Mattioli. Inviato a Lima - ufficialmente per adempiere a un compito amministrativo presso un istituto controllato dalla Comit, il Banco Italiano Lima -  il giovane storico dovette rassegnarsi a vivere oltreoceano a causa delle normative antisemite emanate in Italia alla fine del 1938. L’assunzione in pianta stabile come responsabile dell’ufficio studi del Banco, avvenuta poco dopo, gli consentì di mantenere un tenore di vita dignitoso in Perù. La nostalgia per l’Italia e per gli amici lasciati a Milano rimase però vivissima: essa si acuì durante la guerra e negli anni immediatamente successivi. Un sentimento che ben traspariva nel suo motto “Non perire al Perù!”. Solo nel 1948 Antonello e la sua famiglia avrebbero fatto ritorno in Italia. 
Claudio Gerbi fotografato durante l’attesa per l’imbarco sul Conte di Savoia, nave diretta a New York, 14 settembre 1938,
Tornando alla sua partenza per l’America, avvenuta il 19 ottobre 1938, essa seguì di un mese quella del fratello Claudio, che a Milano esercitava onorevolmente la professione di medico internista. In questo caso l’esilio dovette essere più difficile da sopportare perché, se per Antonello – come si è appena ricordato - il viaggio in Perù era stato pensato inizialmente come una missione di lavoro, per Claudio lasciare l’Italia significò chiudere definitivamente con la sua professione milanese e tentare la fortuna oltreoceano senza alcuna certezza di trovare un’occupazione. Giunto a New York con 175 dollari, trovò una sistemazione dapprima a Cleveland come assistente di un patologo, poi a Boston; nel 1942 riuscì ad aprire uno studio a Manhattan, ove esercitò onorevolmente la sua professione medica fino all’età di ottant’anni. Memorabile il suo adagio per tranquillizzare i pazienti affetti da ipocondria: “Esistono le malattie lievi e quelle gravi: per le prime basta una spremuta d’arancio, per le seconde raccomando un paio di aspirine!” (S. Gerbi, Ebrei erranti…cit., pag.23). 
I tre fratelli Gerbi a New York nell’ottobre 1945, Da sinistra: Claudio, Giuliano, Antonello.
Il secondo fratello di Antonello, Giuliano, era invece un brillante giornalista sportivo; aveva lavorato per la testata “L’Ambrosiano” e alla fine degli anni Trenta era stato assunto all’EIAR, l’ente italiano per le audizioni radiofoniche; qui si era guadagnato una certa popolarità in occasione del Tour de France avvenuto nell’estate 1938, quando svolse alla radio un appassionato resoconto della gara vinta da Gino Bartali; una bravura che non bastò però a salvargli il posto. Anche lui dovette lasciare l’Italia nell’autunno di quell’anno a causa delle leggi antisemite. Giunto a Parigi, fu aiutato inizialmente dal corrispondente del “Corriere della Sera”, Paolo Monelli, che gli diede lavoro affidandogli la stesura di alcuni articoli. Un’occupazione destinata a finire ben presto: il direttore del quotidiano di via Solferino, Aldo Borelli, venuto a sapere che Monelli aveva alle sue dipendenze un giornalista ebreo, vietò al collega di servirsi ulteriormente della sua collaborazione. Grazie all’aiuto del liberale Giovanni Malagodi, che aveva incontrato proprio a Parigi, Giuliano Gerbi riuscì così a trasferirsi oltreoceano: ricoprì un modesto impiego di banca dapprima a Barranquilla, un malfamato porto colombiano, poi a Bogotà. Per Giuliano la nuova vita in America fu deprimente, confinato in un Paese cui si sentiva estraneo, costretto a svolgere un impiego che non corrispondeva certamente alle sue attese professionali. 

Nella primavera del 1942 si trasferì a Boston, ove risiedeva a quei tempi il fratello Claudio, nella speranza di trovare migliori opportunità di lavoro. Dopo aver esercitato per qualche tempo la modesta professione di contabile in una ditta che vendeva abiti a rate, la svolta arrivò quando fu assunto da una radio italiana con sede a New York: qui poté riprendere finalmente il lavoro del giornalista radiofonico che era la sua autentica passione. 

Durante la guerra le sue trasmissioni furono seguite in Europa non solo dai soldati americani, ma anche da tanti italiani che, sintonizzandosi sulle onde della “Voice of America”, ritrovarono la voce inconfondibile del giornalista sportivo. Al termine del conflitto Giuliano continuò a lavorare per diverse emittenti americane. Una di queste, la WOV, gli affidò la conduzione di un originale programma finanziato da una ditta alimentare, la “Progresso”: l’idea era di incrementare le vendite presso la comunità italo americana di New York realizzando la seguente offerta commerciale: “mandateci dieci etichette dei nostri pomodori pelati e in cambio noi vi faremo ascoltare alla radio le voci dei vostri cari rimasti in Italia”. 

Giuliano si dedicò a questa impresa nel corso degli anni Cinquanta, un incarico che gli consentì finalmente di far ritorno in Italia.  Come ricorda Sandro Gerbi, i viaggi dello zio furono innumerevoli, tutti alla ricerca delle famiglie da intervistare: egli registrava scrupolosamente le conversazioni su bobine che venivano poi spedite negli Stati Uniti corredate dai suoi commenti in impeccabile inglese. Il successo della trasmissione fu di tale entità che nel 1953 si giunse a trasmettere diciotto puntate alla settimana.