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Le stelle della moda sotto la Madonnina

In questi giorni a Milano si respira un’atmosfera magica. La settimana della moda è in pieno svolgimento: un evento imperdibile per gli appassionati, ma anche per il semplice uomo della strada che viene letteralmente ‘rapito’ dai tanti eventi allestiti nella capitale del fashion. Mercoledì il premier Renzi ha sostenuto che la moda è uno dei settori più importanti dell’economia italiana. “Dobbiamo vincere i luoghi comuni per rispetto a chi lavora in questo settore” ha detto Renzi aggiungendo: “la moda è fatta da donne e uomini che lavorano, che ci mettono passione, da imprenditori che hanno il coraggio di crederci anche quando non è facile … io sono qui per riconoscere una realtà che già c’è…”. Il premier, pranzando a Palazzo Reale assieme ai maggiori stilisti (Giorgio Armani, Angela Missoni, Renzo Rosso, Donatella Versace) ha voluto mostrare l’interesse del governo per un settore fondamentale dell’economia italiana. Intenso il programma della fashion week meneghina: dal 24 al 29 febbraio sono previste 73 sfilate, più di 90 presentazioni ed altri eventi che porteranno all’esposizione di numerose collezioni.

Cerchiamo ora di superare la superficie degli annunci per analizzare le ragioni che hanno spinto un presidente del consiglio italiano ad inaugurare, per la prima volta nella storia repubblicana, un evento glamour di dimensione cittadina.

Fashion followers
Una giovane passeggia per le vie di Milano…

In effetti, se studiamo a fondo le dinamiche dell’industria italiana della moda, ci rendiamo conto che la mossa di Renzi, pienamente azzeccata, è stata studiata nei minimi particolari. In una situazione generale di stallo (se non di lieve miglioramento per l’economia italiana), l’industria del fashion ha conseguito risultati di notevole successo negli ultimi anni grazie al genio e alla creatività delle aziende specializzate nel settore.

In questa sede svolgerò alcune riflessioni sul tema basandomi su una fonte di notevole interesse per gli storici e gli studiosi di scienze economiche: si tratta del rapporto – analisi e presentazione sono liberamente scaricabili da Internet  – che l’Area Studi Mediobanca ha dedicato al comparto della moda italiana. I bilanci più recenti sono quelli del 2014 ma gli esperti hanno condotto alcune previsioni per il 2015 che ci consentono di avere un’idea abbastanza precisa delle dinamiche interne a questo  settore. Nel 2014 la moda italiana ha costituito un giro d’affari pari a 224 miliardi con un incremento del 2% rispetto all’anno precedente. La crescita nel 2015 sarà probabilmente incrementata con un ritorno addirittura alla doppia cifra a causa della svalutazione dell’euro: si stima un aumento del 13% per un giro di affari stimato a 253 miliardi. Si tratta di un risultato importante. Quali sono però i mercati cui si rivolgono le aziende della moda italiana? Restando ai dati del 2014, l’Europa è stata il primo mercato mondiale con 76 miliardi seguita dalle Americhe con 72 miliardi e dall’Asia-Pacifico con 47 miliardi. La pelletteria ha interessato un giro d’affari pari a 65 miliardi, il comparto abbigliamento 54 miliardi, le gioielleria-oreficeria 52 miliardi, la cosmesi-profumeria 45 miliardi.

In altri termini, i mercati internazionali premiano la moda italiana nei vari settori. Anche in Europa i progressi sono notevoli. Qui però dobbiamo spiegarci perché non si capisce come mai il mercato di un vecchio continente in difficoltà (ricordiamo che i dati si riferiscono al 2014) abbia segnato un’ottima performance nella moda. A soccorrerci è ancora una volta l’analisi di Mediobanca, che ha messo in evidenza come in Europa – e ancor più in Italia – la contrazione dei consumi dovuta ai colpi di coda della crisi sia stata in parte compensata da uno shopping turistico di rilievo. Le stime del 2015 indicano un totale di 48 miliardi di euro. Questo fenomeno ha riguardato per il 74% quattro paesi europei: Francia, Germania, Gran Bretagna e Italia. Chi sono questi turisti benefattori che ogni anno vengono a trovarci e premiano le nostre aziende con i loro acquisti da nababbi? Nell’Europa del 2014 sono stati per il 36% cinesi e per il 9% russi. In Italia il fenomeno è ancora più lampante: i turisti stranieri che hanno premiato il Made in Italy nel campo del lusso sono stati cinesi per il 32%, russi per il 13%, americani per l’8%.

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Bianca Balti in una sfilata del 2010

Ma avviciniamo ancor più la lente alle aziende italiane della moda. L’Area Studi Mediobanca ha individuato 143 società che nel 2014 hanno avuto un fatturato di almeno 100 milioni di euro: 59 sono nel settore abbigliamento, 32 operano nel comparto pelletteria, 20 nel tessile, 11 nella gioielleria-oreficeria, 5 nell’occhialeria, 16 nella distribuzione. Dove si trovano? In larga misura nell’Italia padana: 56 nel Nord Ovest (Piemonte, Valle d’Aosta, Liguria, Lombardia), 55 nel Nord Est (Veneto, Emilia-Romagna, Trentino Alto Adige, Friuli Venezia Giulia), 32 nel resto d’Italia. Si tratta di una mappa geografica che sembra giustificare ampiamente il ruolo di Milano quale capitale italiana del fashion. La proprietà di queste aziende è in larghissima parte italiana: solo 44 sono a controllo estero (18 di queste sono all’interno di gruppi francesi).

Dal 2010 al 2014 le aziende della moda sono cresciute più della manifattura. Risultano inoltre meglio gestite: sono più redditizie, meglio capitalizzate e “liquide” (hanno molto “fieno in cascina” come si suol dire). Relativamente al fatturato, se l’incremento dei grandi gruppi manifatturieri è stato pari al 16,3% tra il 2010 e il 2014, quello delle aziende che operano nel fashion è stato del 27,7%. La forbice si fa ancora più larga se guardiamo all’incremento della redditività operativa (Ebit): +14,1% contro +25,1% della moda nel periodo 2010-2014. Maggiore l’aumento della forza lavoro: +14% per la manifattura contro un aumento del 22,7% della moda.

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Palazzo Trussardi tra via Filodrammatici e piazza Paolo Ferrari

Fa riflettere inoltre la differenza abissale nella struttura finanziaria tra i grandi gruppi manifatturieri e le aziende del comparto moda. Nel 2014 la redditività operativa dei primi è cresciuta del 6% contro il +9% delle seconde. Due parametri mostrano soprattutto la profonda diversità: la percentuale di liquidità (disponibilità di risorse) in rapporto ai debiti finanziari è stata pari al 50,4% nella manifattura mentre la moda ha dimostrato di sapersi gestire meglio con un rapporto pari al 73,7%. Un altro dato è il rapporto debiti finanziari/patrimonio netto, sempre relativo al 2014: se la manifattura presentava una percentuale elevatissima, pari al 140,4%, le aziende fashion non superavano una percentuale pari al 36,8%: questo significa che i debiti finanziari di queste ultime erano meno del 40% rispetto ai mezzi che avevano per farvi fronte.

All’interno delle 143 società operanti nella moda, l’Area Studi Mediobanca ha individuato un gruppo ristretto di 15 gruppi che tra il 2010 e il 2014 hanno raggiunto i picchi maggiori  per fatturato. Si tratta dei grandi marchi del lusso che elenchiamo in ordine alfabetico: Armani, Benetton, Calzedonia, Dolce&Gabbana, Geox, Luxottica, Max Mara, Moncler, Diesel, Prada, Safilo, Salvatore Ferragamo, Tod’s, Valentino, Zegna. Sono state considerate a parte Gucci e Bottega Veneta perché sono aziende che fanno parte della Società francese Gruppo Kering, rispettivamente dal 1999 e dal 2001.

Giorgio Armani
Giorgio Armani alla presentazione della sua autobiografia dedicata a 40 anni di moda

La classifica per fatturato vede in testa Luxottica con 7.652 milioni di euro, seguita da Prada con 3.552 mln, Armani con 2.535 mln, Calzedonia 1.847 mln, OTB (Diesel) 1.536 mln, Ferragamo 1.321 mln, Max Mara 1.310, Benetton 1.296, Zegna 1.210, Safilo 1.179, Dolce & Gabbana 1.045, Tod’s 966, Lir (Geox) 934, Valentino 721, Moncler 694. Per le italiane “conquistate” dai francesi, Gucci ha avuto ricavi per 3.497 milioni e Bottega Veneta per 1.131 mln. Il fatturato di queste aziende ha riguardato nel 2014 l’abbigliamento per il 46%, l’occhialeria per il 32%, la pelletteria per l’11%, le calzature per il 10%. Per numero di dipendenti si segnala Luxottica con 75.575 unità, seguita da Calzedonia con 30.705, Prada con 11.962, Armani con 8.112, Zegna con 7.663, Safilo con 7.609, Diesel con 6.286, Max Mara con 5.670, Dolce & Gabbana con 4.294, Tod’s con 4.239 e così via. Nel complesso le Top15 vendono più nei mercati extra europei, anche se il Vecchio Continente resta un mercato importante: 12,1 miliardi di fatturato in Europa contro i 15,7 miliardi nel resto del mondo. Si segnala in particolar modo la netta prevalenza delle vendite nei mercati esteri Luxottica (80,3% del fatturato fuori Europa), Ferragamo (73,1%), Zegna (72,6%), Prada (63,6%), Safilo (58,7%), Valentino (57,7%), Armani (55,7%), Dolce e Gabbana (55,3%).

Dalle analisi di Mediobanca possiamo ricavare due brevi riflessioni. La prima riguarda l’effettiva importanza del giro d’affari italiano della moda e del lusso, i cui prodotti sono apprezzati da una ricca clientela in netta prevalenza straniera. E’ vero che le aziende francesi di moda hanno fatturati superiori ai nostri ma non sono molto lontane da quelle italiane, che negli ultimi anni hanno mostrato di crescere con forza addirittura maggiore rispetto alle concorrenti d’oltralpe. La qualità, il design, la creatività del prodotto Made in Italy fanno ancora la differenza.

La seconda riflessione si lega invce alla debolezza della domanda interna italiana, che resta ancora eccessivamente bassa. Senza lo sbocco dei mercati esteri (compresi quelli europei) le nostre aziende avrebbero serie difficoltà. Per questa ragione è importante che il governo italiano si faccia portatore in Europa di una politica economica tesa a far crescere la domanda interna.

L’eccellenza italiana nell’industria della moda e del lusso può far storcere il naso al moralista che ritiene la raffinatezza dei costumi e il formalismo esteriore un segno di corruzione alimentando le diseguaglianze sociali in una repubblica che si vorrebbe informata alle semplici ed austere virtù del cittadino. Al contrario, le aziende che operano nella moda e nel lusso costituiscono una realtà di cui gli italiani dovrebbero andare orgogliosi.

Scriveva Pietro Verri nel celebre saggio Considerazioni sul lusso, pubblicato nel 1764 nel primo tomo, della celebre rivista “Il Caffè”:

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Pietro Verri (1728-1797)

Se il lusso ha per oggetto le manifatture nazionali, è cosa evidente che il restringerlo altro effetto non potrà produrre che quello di togliere il pane agli artigiani che campano sulle manifatture, desolare cittadini industriosi e utili, obbligarli ad abbandonare la patria, dare in somma un colpo crudele e funesto a molti membri della nazione, che hanno diritto alla protezione delle leggi, e alla nazione stessa spogliandola d’un numero di nazionali, diminuendosi il quale scema la vera sua robustezza.

Tornando sugli effetti benefici che le spese dei ricchi recavano all’economia di un paese andando a beneficio delle classi più povere ma industriose, il celebre illuminista lombardo scriveva:

Se il lusso nasce dalla ineguale ripartizione de’ beni e se l’ineguale ripartizione dei beni è contraria alla prosperità di una nazione, il lusso medesimo sarà un bene politico in quanto che dissipando i pingui patrimoni torna a dividerli, a ripartirli, e ad accostarsi alla meno sproporzionata divisione de’ beni. Il lusso è dunque un rimedio al male medesimo che lo ha fatto nascere; poiché l’ambizione de’ ricchi, che profondono, serve di esca ai vogliosi d’arricchirsi, e i danari ammassati, come una fecondatrice rugiada, ricadono sui poveri ma industriosi cittadini; e laddove la rapina o l’industria li sottrassero alla circolazione, il lusso e la spensieratezza loro li restituiscono.

P. Verri, Considerazioni sul lusso in “Il Caffè”, Tomo I, foglio XIV, in S. Romagnoli (a cura di), Il Caffè, Feltrinelli Editore, Milano 1960, pp.114-115

Gli faceva eco alcuni anni dopo Cesare Beccaria quando, agli studenti accorsi alle sue lezioni di economia pubblica, ricordava:

Cesare Beccaria (1738-1794)
Cesare Beccaria (1738-1794)

La ricchezza degli stati non nasce realmente che dalla fatica degli individui; la fatica degli individui bisogna appagarla; non si determinano gli uomini a fare questi pagamenti se non per convertirli in mezzi di godere ciò che più gli soddisfa. Di più, l’uomo non fatica, se non in proporzione dell’utile immediato che spera da quella provenirne; gli utili di questa fatica sono somministrati dalle spese dei ricchi, ossia di quelli che posseggono al di là del necessario fisico.

CBeccaria, Elementi di economia pubblica in C. Beccaria, Scritti economici, a cura di Gianmarco Gaspari, Edizione Nazionale delle Opere di Cesare Beccaria, Vol. III, Milano, Mediobanca 2014, pag.362.

L’attualità di Cesare Beccaria professore di economia pubblica

Nel 2014, in occasione dei 250 anni dalla pubblicazione Dei delitti e delle pene, sono usciti due volumi su Cesare Beccaria. Il primo (Scritti economici, a cura di Gianmarco Gaspari) fa parte della monumentale Edizione Nazionale delle Opere di Cesare Beccaria pubblicata da Mediobanca. E’ il terzo volume in cui sono pubblicati tutti i contributi dell’illuminista lombardo in tema economico.

Il secondo libro, L’arte della ricchezza pubblicato da Mondadori, è scritto dal senatore Carlo Scognamiglio Pasini. E’ presa in esame la figura dell’illuminista milanese nel breve periodo in cui fu professore di economia pubblica (1769-1771) presso le Scuole Palatine di Milano e negli anni in cui ricoprì l’ufficio di funzionario nel governo dello Stato di Milano al servizio dei sovrani austriaci (1771-1794).

Le Scuole Palatine di Milano in unin
Le Scuole Palatine di Milano in piazza Mercanti in una incisione settecentesca di Marc’Antonio Dal Re. Avevano sede nell’edificio centrale e al piano superiore di quello a destra.

Questi autori non sono i primi ad essersi occupati in modo approfondito del Beccaria economista. Desidero ricordare ad esempio il bel volume Riformatori lombardi, piemontesi e toscani curato da Franco Venturi nel 1958 nella serie Illuministi italiani pubblicata dalla casa editrice Ricciardi.

Sette anni fa, assieme a mio padre, io stesso ho curato un saggio sul Beccaria docente di economia pubblica. Si tratta del volume Cesare Beccaria visto da Fulvio e Gabriele Coltorti (Luiss University Press, Roma 2007). Nella parte affidata alla mia penna, dopo aver tracciato un profilo biografico, ho preso in esame l’insegnamento di Beccaria mettendo in relazione il contenuto delle sue lezioni con i concreti obiettivi di politica economica fissati a quel tempo dalle monarchie germaniche. Occorre ricordare infatti che lo Stato di Milano, nella seconda metà del Settecento, faceva parte dei territori sottoposti al dominio degli Asburgo di Vienna.

Il cameralista e giurista austriaco Joseph von Sonnenfels
Il cameralista e giurista austriaco Joseph von Sonnenfels (1732-1817)

L’imperatrice Maria Teresa, quando nel 1768 nominò Beccaria alla cattedra di economia pubblica – cattedra inizialmente definita “scienze camerali” – si attendeva che il filosofo milanese impostasse il lavoro seguendo l’esempio del cameralista Joseph von Sonnenfels, attivo in quegli stessi anni all’Università di Vienna. Cosa insegnavano i cameralisti? Insegnavano – e suggerivano ai sovrani come fidati consiglieri – i provvedimenti più efficaci per arricchire lo Stato, rafforzarne la potenza, assicurare il benessere e la felicità dei sudditi. I cameralisti seguivano insomma l’impostazione dottrinaria dei mercantilisti, i quali nel secolo precedente avevano raccomandato un deciso intervento dello Stato nell’economia.  La differenza era che i primi avevano capito che le ricette economiche non contano nulla se non vengono realizzate da uno Stato retto su un’amministrazione efficiente. Questo spiega per quale motivo i cameralisti del Settecento insegnavano non solo la Scienza del commercio (Handlungswissenschaft o Oekonomische Wissenchaft), ma anche la Scienza delle finanze o camerale (Kameralwissenschaft) e la Scienza della polizia (Polizeiwissenschaft), quest’ultima intesa nel senso ampio di amministrazione pubblica.

Beccaria non seguì del tutto l’impostazione germanica: nei pochi anni in cui fu professore di scienze camerali limitò il suo corso all’economia pubblica senza toccare la parte relativa alla polizia e alle finanze, che era tipica invece della cameralistica. Eppure, nonostante queste mancanze – dovute probabilmente alla decisione di lasciare l’insegnamento – la sua teoria economica riveste un’assoluta originalità, mostrandosi per certi versi superiore a quella del coevo Adam Smith.

Cesare Beccaria (1738-1794)
Cesare Beccaria (1738-1794)

Oggi, quando sentiamo parlare di Beccaria, ci viene spontaneo pensare al trattatello Dei delitti e delle pene che fu decisivo nella riforma della legislazione penale negli Stati europei del XVIII e XIX secolo (compreso l’impero russo di Caterina II). Beccaria fu non solo questo. Anzi, fu assai più di questo. Il Beccaria genuino è il professore di scienze camerali che spiegava agli studenti i fondamenti dell’economia pubblica. Anche in veste di pubblico funzionario al servizio dello Stato di Milano austriaco diede negli ultimi anni della sua vita un contributo importante…ma questa sarà materia per un altro intervento.

Chiediamoci ora se il pensiero economico di Beccaria sia attuale. Come si poneva l’illuminista lombardo dinanzi al tema, tuttora scottante, dell’intervento dello Stato nell’economia di un Paese? Beccaria seguiva una via di mezzo che lo distanziava sia dai cameralisti che dai teorici del laissez faire.  Sosteneva che il governo poteva intervenire solo per rimuovere gli ostacoli al libero commercio e al fare impresa.

In merito agli aiuti di Stato, Beccaria direbbe ad esempio che i fondi pubblici a sostegno delle imprese sono inutili e dannosi per due ragioni: a) perché privilegiano inevitabilmente alcuni a danno di altri; b) perché l’industriale tenderebbe a vivere di fondi pubblici come un parassita e non se ne servirebbe per migliorare l’impresa. Se il capitale pubblico prestato all’imprenditore ha tempi lunghi di rimborso, questi cercherà di sfruttarlo per sé “contentandosi” – sono parole di Beccaria a proposito delle manifatture – “di esibire un’apparenza di travaglio più per conservarsi il diritto di prolungare la restituzione o di chiedere nuovi soccorsi”. Una lezione che la nostra classe politica democristiana dimostrò di ignorare se pensiamo alla politica fallimentare della Cassa del Mezzogiorno.

Beccaria auspicava una politica economica oculata. Lo Stato deve agire per premiare – così diceva nelle sue lezioni – “l’attività già fatta”: punto decisivo perché non si aiuta l’imprenditore a fare qualcosa che non ha fatto, ma lo si aiuta premiando l’impresa che ha conseguito eccellenti risultati nella libera competizione del mercato. “Il premio è di un solo” – ci dice Beccaria – “ma l’emulazione è di molti: la speranza, che è uno dei più grandi agenti dell’uomo socievole, mette in fermento l’interesse privato di ciascheduno”.

In concreto, per Beccaria un Paese può arricchirsi solo se il governo promuove il commercio con quattro misure:

  1. Stimolando la massima concorrenza venditori/compratori. E’ la concorrenza il vero motore del progresso: è l’“universale concorrenza che aumenta il moto e l’azione … rendendo ogni cosa prontamente correspettiva rappresentatrice d’ogni altra, anima l’industria e la speranza di ogni membro della Società”;
  2. Impiegando meno manodopera possibile e velocizzando la produzione: “Ogni opera nel minor tempo possibile e dalle più poche mani che si può venga fatta;
  3. Migliorando le infrastrutture e i trasporti per rendere più veloce il commercio all’interno di una nazione;
  4. Garantendo bassi interessi del danaro per stimolare i prestiti. Vedeva con favore un aumento della circolazione monetaria.