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Alle origini della vipera milanese

Se chiedessimo a un milanese quale sia l’insegna di Milano, in larga parte dei casi avremmo come risposta la croce rossa su fondo argenteo. Risposta ovvia, non foss’altro perché si tratta dell’attuale stemma del Comune di Milano. La croce rossa è insegna antica che risale al Medioevo, quando i Milanesi la issarono sul Carroccio nel corso delle battaglie dei Comuni italici contro l’Impero in opposizione alla croce bianca su fondo rosso propria dell’imperatore germanico e dei Comuni che lo sostenevano.

Eppure, a ben vedere, quella risposta sarebbe scorretta perché la croce rossa non fu certo l’unico stemma dei Milanesi. C’è anche la famosa “vipera, che il Melanese accampa” come scriveva Dante nella Commedia nei primissimi anni del Trecento. Più di due secoli dopo Torquato Tasso, nella Gerusalemme liberata, sarebbe tornato sull’argomento in un passo famoso riferendosi a “Il forte Otton, che conquistò lo scudo/In cui dall’angue esce il fanciullo ignudo”: Ottone Visconti, figlio del visconte di Milano Ariprando, nel corso della crociata in Terra Santa avrebbe sconfitto in duello il saraceno Voluce riportando in patria lo stemma del guerriero sconfitto: una vipera che divora un uomo. Un racconto di cui si servì abilmente la famiglia Visconti già nel Duecento per spiegare l’utilizzo dell’insegna della vipera.

Oggi è quindi molto facile pensare che la vipera sia lo stemma gentilizio della famiglia Visconti e nulla di più. Tale casato nobiliare, quando s’impadronì stabilmente del Comune milanese nel primo Trecento, avrebbe imposto la vipera quale insegna della città. In realtà, questa spiegazione non convince del tutto.

La vipera era uno stemma milanese già molto tempo prima della Prima Crociata cui partecipò il leggendario Ottone nel 1099. Basta andare nella chiesa di Sant’Ambrogio, dove su una colonna di marmo è posto un serpente di bronzo risalente ai primissimi anni dell’XI secolo. Lo portò Arnolfo, arcivescovo di Milano, nel 1002, quando fece ritorno in città da un’ambasceria a Costantinopoli (odierna Istanbul) che era tesa a procurare all’imperatore germanico Ottone III una sposa di nobili origini “romane”. Scriveva Pietro Verri nella Storia di Milano pubblicata nel 1783:

A quest’ambasciata, sostenuta dal nostro Arcivescovo Arnolfo, siamo debitori del famoso serpente di bronzo, che tuttavia resta collocato sopra di una colonna in Sant’Ambrogio. Non è cosa nuova nei Monarchi di premiare e ricompensare con donativi, il valore de’ quali non pregiudichi l’erario. Il serpente di bronzo fu donato dal tesoro di Costantinopoli, facendo credere al buon Arcivescovo che fosse il medesimo che Mosé innalzò nel deserto; e con questa bella antichità fu rimeritato della enorme spesa che fece.

[P. Verri, Storia di Milano, capo IV, Edizioni Nazionale delle Opere di Pietro Verri, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 2009, pag.87]

Lo storico di Milano Ettore Verga e, dopo di lui, il medievista Gian Piero Bognetti concordarono nel ritenere fondata la tesi che il serpente – totem molto diffuso presso i longobardi arimanni –  fosse stato adottato quale insegna milanese tra l’alto Medioevo e il basso Medioevo. E’ probabile che i guerrieri ambrosiani inviati nella crociata in Terra Santa, memori della serpe di bronzo conservata in Sant’Ambrogio, avessero decisero di adottarlo quale stemma rifacendosi al serpente miracoloso di Mosé. La vipera divenne quindi verosimilmente uno stemma milanese ben prima che fosse adottata come insegna dai primi Visconti.

La validità di questa ipotesi si collega alla cerimonia dell’investitura civile seguita alla fine del Duecento dal Comune di Milano nei confronti dei Visconti. Lo storico Francesco Novati, quando scoprì nella Biblioteca Nazionale di Madrid la celebre cronaca De Magnalibus urbis Mediolani (Le Meraviglie di Milano) scritta dal frate Bonvesin de la Riva, ricavò da quel testo elementi più che sufficienti per ritenere infondata l’origine esclusivamente gentilizia dello stemma della biscia. Scriveva Bonvesin nel 1288:

Anche ad un discendente della nobilissima stirpe dei Visconti, che appaia il più degno, il comune offre un vessillo, su cui è dipinta in azzurro una biscia che trangugia un Saraceno rosso: questo vessillo si porta davanti a ogni altro e il nostro esercito non si accampa mai in qualche luogo, se prima non ha visto la biscia collocata su qualche albero.

[Bonvesin de la Riva, De Magnalibus urbis Mediolani, Milano, Bompiani 1992, edizione a cura di Maria Corti, traduzione di Giuseppe Pontiggia, pag.155].

Commentando questo passo, così scriveva il Novati nel 1898: “Intorno all’origine di siffatta usanza, la quale apre la via a sospettare che l’insegna della vipera fosse in antico propria del comune di Milano, e non già, come sostiene la volgarissima tradizione, della famiglia Visconti che doveva renderla famosa, non è qui il caso d’istruire ricerche”.

Quando Bonvesin de la Riva scrisse la sua opera famosa, da undici anni il potere civile e il potere ecclesiastico erano uniti nella persona dell’arcivescovo Ottone Visconti (1207-1295). Difatti, com’è noto, nel 1277 il nobile prelato era riuscito ad entrare trionfalmente in città in seguito al fortunato colpo di Desio ove i Torriani – gli storici nemici della sua famiglia che reggevano il governo di Milano – erano stati fatalmente sorpresi in un’imboscata notturna.

Ottone, com’è noto, fu il primo dei tredici Visconti ad assumere il governo di Milano. Il suo stemma non corrispondeva tuttavia alle insegne dei Visconti diffuse tra Tre e Quattrocento, quelle che furono proprie dello Stato di Milano almeno fino alla fine dell’ancien régime: mi riferisco alla lunga serpe squamata con la testa di drago, raffigurata in verde o in azzurro, che ingolla un bimbo colorato di rosso. Uno stemma, questo, su cui mi soffermerò in un altro articolo.

Lo stemma di Ottone e dei suoi antenati era diverso. Lo si vede bene in una scultura in marmo che lo storico milanese Giorgio Giulini, verso la metà del Settecento, vide nel palazzo arcivescovile di Legnano fatto costruire dal nobile milanese. Non so se questa piccola pietra di marmo esista ancora. La figura è riportata nell’opera monumentale del Giulini, Le Memorie di Milano nei secoli bassi. Riporto una fotografia parziale riportata nel quarto volume della ristampa anastatica dell’edizione Colombo del 1854 pubblicata nel 1974 dalla casa editrice Cisalpino Goliardica (pag.763). Vi compare una vipera, assai più corta e grossa di quella famosa raffigurata dai Visconti e dagli Sforza, ritratta nell’atto di mangiare un uomo che regge nella mano destra una freccia e nella sinistra un tondo raffigurante il frammento del volto di una persona.

Lo stemma di Ottone Visconti nel palazzo arcivescovile di Legnano. Imaggine tratta dalle Memorie di Milano nei secoli bassi del conte Giorgio Giulini

In realtà, i Visconti avevano scelto la vipera quale loro stemma ben prima di Ottone Visconti. E’ sempre lo storico Giorgio Giulini a ricordarci quanto riportato dal cronista Tristano Calco in una delle sue opere. Questi, vissuto tra la seconda metà del Quattrocento e i primi decenni del Cinquecento, raccontò che quando venne dissotterrato il cadavere di Ardengo Visconti, abate del monastero di Sant’Ambrogio nella prima metà del XIII secolo, fu trovato accanto allo scheletro un pastorale ornato con vipere di avorio. Una prova ulteriore che già nel Duecento i Visconti si erano serviti della vipera milanese per fregiare il loro stemma.

Il pesce e la carne, cibo dell’anima e cibo del corpo

In quel celebre manifesto della Milano viscontea che è il De Magnalibus Urbis Mediolani, Bonvesin de La Riva scriveva alla fine del XIII secolo che tra i vari alimenti di cui la città di Ambrogio era particolarmente ricca ve n’era uno assai importante: il pesce. Con ogni probabilità egli esagerava quando elencava con dovizia di particolari le varie specie ittiche presenti nei torrenti, nei fiumi e nei laghi del milanese. Scriveva Bonvesin:

I pescatori che quasi ogni giorno pescano in abbondanza  nei laghi del nostro contado, più di diciotto, pesci d’ogni tipo, trote, dentici, capitoni, tinche, temoli, anguille, lamprede, granchi e ogni altro genere infine di pesci grossi o minuti, e che pescano nei fiumi, più di sessanta, e che portano in città pesce pescato nei ruscelli innumerevoli dei monti, assicurano di essere più di quattrocento. 

Quando citava i fiumi e i torrenti dai quali i pescatori traevano il pesce che vendevano nei mercati cittadini, Bonvesin ne ricordava alcuni che ci sono familiari: la “Muzza” a sud-est verso Paullo, il “Fossato di Milano” che diventerà alla fine del Quattrocento il naviglio interno in centro città, il “Nirone”, la “Vettabbia”, l’“Olona”, il “Lambro merdario” (sic!), il “Ticino”, il “Ticinello” verso Abbiategrasso.

Libro-dOre-Milano-1473-circa-MorganQueste notazioni di Bonvesin ci inducono ad alcune considerazioni. Anzitutto ricaviamo una grande differenza rispetto alla società odierna. Sappiamo che Milano oggi può vantare un mercato di pesce tra i più forniti della penisola. Si tratta in larga parte di pesce di mare che viene trasportato in città. Nel Medioevo il pesce che si poteva trovare sui mercati era invece pesce di fiume perché la lentezza dei mezzi di trasporto non consentiva l’arrivo del pesce fresco proveniente dalla Liguria o da Venezia. Esisteva certamente il pesce salato, che poteva essere conservato per lungo tempo. Esso era diffuso soprattutto tra le classi popolari: dalle aringhe al merluzzo, quest’ultimo presente nelle tavole europee a partire dalla fine del Quattrocento.

Bisogna poi ricordare che al pesce si ricorreva in circostanze particolari. Nel Medioevo e in età moderna la base dell’alimentazione era costituita dalla carne: cibo raccomandato dai medici del tempo, la carne era importante perché le sue calorie aiutavano a resistere in ambienti in cui non esisteva il riscaldamento; garantiva al corpo la forza necessaria per affrontare la guerra o il pesante lavoro dei campi. I nobili mangiavano carne fresca, in genere dopo una battuta di caccia (attività riservata all’aristocrazia guerriera). Il marchese che imbandiva i suoi banchetti con carne di vitello, ostentava la sua potenza giacché consumare carne di vitello voleva dire sprecare una risorsa, permettersi uno spreco uccidendo un animale che non aveva superato l’anno di età. I contadini invece si cibavano con legumi, formaggi e, quando potevano permettersi un piatto di carne, ricorrevano agli insaccati (salumi).

macellazione suiniOggi è risaputo che la consumazione continua di carne non fa bene alla salute. Inoltre un’alimentazione sana è quella che non ingrassa, che nutre senza esagerare. Nel Medioevo e nell’età moderna ci troviamo in una condizione opposta. Il consumo di carne non solo era raccomandato dai medici, ma costituiva il desiderio inconfessato di tutti coloro che non potevano permettersi quel tipo di alimentazione. L’uomo e la donna grassi erano inoltre segno di salute, mentre le persone magre denotavano povertà e situazioni di disagio sociali. Aldobrandino da Siena, nel XIII secolo, tesseva un elogio della carne con queste parole:

Vous devés savoir ke sour totes coses qui norrissement dounent, doune li chars plus de norrisement au cors de l’homme, et l’encraisse et l’enforce. [Dovete sapere che fra tutte le cose che nutrono l’uomo, la carne è quella che lo nutre maggiormente, l’ingrassa e gli dà forza].

Come ha scritto lo storico dell’alimentazione Massimo Montanari, il pesce godeva quindi di uno “statuto ambiguo”. Era un alimento cui ricorrevano tanto i ceti popolari quanto i ceti nobiliari nei periodi in cui la chiesa vietava di mangiare carne, ad esempio nei periodi di quaresima. Ce lo dice lo stesso Bonvesin quando afferma che gran parte del pesce finiva nelle mense cittadine precisamente in Quaresima. Perché in questo periodo si mangiava il pesce? Fu la Chiesa ad introdurre questa usanza: concepita come sacrificio, essa significava la privazione di un bene fisico (la carne) per un bene spirituale rappresentato dal pesce. Varrà la pena ricordare che le lettere dell’antico lemma greco di pesce, ICHTHYS, costituivano le iniziali di Gesù: Iesus, CHristos, THeù, HYios, Sotèr, vale a dire: “Gesù Cristo figlio di Dio Salvatore”. Non stupisce quindi che il pesce fosse concepito come alimento religioso per eccellenza nel difficile cammino di purificazione in cui il divieto di mangiar carne significava la rinuncia, temporalmente limitata, a un tipo di alimentazione ritenuto “normale”.

Il riso era un altro alimento assai diffuso a Milano. Proveniente dall’Oriente, esso fu introdotto in Lombardia al tempo di Ludovico il Moro, nella seconda metà del XV secolo. Da allora divenne un elemento basilare nella cucina settentrionale. Le prime testimonianze di ricette a base di riso risalgono ai primi decenni del Settecento: dal risotto al brodo di carne al risotto al burro, dal risotto con salsiccia al mitico risotto allo zafferano. Fino al Novecento esso costituirà un elemento insostituibile nella tavola lombarda.

Ma cosa si mangiava nella Lombardia dell’ancien régime? Nei documenti conservati all’archivio di Stato di Milano abbiamo importanti informazioni al riguardo. Gli elenchi degli alimenti consumati dagli ambasciatori riuniti a Vaprio d’Adda per il trattato del 1754 tra la Repubblica di San Marco e lo Stato di Milano, ci informano che furono consumate carni insaccate (salumi, cotechini, salsicce), pesce di lago (lucci, trote, tinche), formaggi e frutta. Poco rilevante la verdura, definita genericamente come “erbe”. Se vuoi saperne di più, ti consiglio di visitare l’interessante mostra Dal riso alla pastasciutta  allestita presso l’Archivio di Stato di Milano, in via Senato 10, fino al 31 ottobre.

La cucina milanese nel Medioevo: tempo del cibo e tempo dei pasti

Limitare la fame nel mondo è obiettivo centrale di Expo, ben sintetizzato dallo slogan “nutrire il pianeta, energia per la vita”.

Nella storia europea la fame è sempre stata un terribile spettro da cui fuggire ricorrendo ad ogni mezzo. Uno sguardo al Medioevo milanese ci consente alcune riflessioni significative in tema di cucina e alimentazione.

fame carestieNel Medioevo il mangiare era influenzato sostanzialmente da due tempi. Il primo è il tempo della natura. Alcuni cibi erano ricavati da materie prime che si potevano ottenere solo in alcuni mesi dell’anno: sappiamo bene che ogni stagione ha i suoi frutti tipici. Eppure, a ben guardare, c’inganneremmo se pensassimo che gli uomini medievali vivessero unicamente in base ai ritmi della natura, come certa vulgata vorrebbe farci credere. Dobbiamo considerare un secondo tempo, il tempo artificiale dell’uomo garantito dalle tecniche di conservazione dei cibi. Certo, anche gli antichi avevano imparato qualcosa al riguardo. Aristotele raccomandava ad esempio di coprire le mele con l’argilla per farle durare più a lungo. Tuttavia, mai come nel Medioevo l’uomo europeo riuscì ad ingegnarsi per sconfiggere il duro ritmo delle stagioni che costringeva molte famiglie a morire di fame. “O tu che reggi ogni cosa, perché succede che le stagioni non siano sempre uguali a se stesse, distinte solo da quattro numeri?” implora Merlino in un testo di Goffredo di Monmouth risalente al XII secolo. Segno che davvero il mutare delle stagioni costituiva una grande incognita per l’uomo medievale, esposto in tutta la sua fragilità all’incertezza del futuro.

L’uomo riuscì a vincere questa battaglia grazie alla capacità di prevedere il mutamento del tempo. Di qui la necessità di conservare i cibi perché la carestia era dietro l’angolo e, come recitava un antico proverbio milanese: Calastria preveduda, l’è mezza preveduda: carestia prevista, è per metà evitata.

Se riprendiamo due termini citati in un documento toscano del IX secolo dopo Cristo, possiamo quindi concludere che il Medioevo era articolato in un tempus de glande (tempo di ghiande) – in cui si raccoglievano i frutti della vegetazione arborea – e un tempus de laride (tempo di lardo) che non era collegato solo all’allevamento del maiale e alla consumazione della carne, ma anche al tempo in cui si metteva da parte tutto quel che si poteva conservare.

Quali furono le tecniche di conservazione più usate? Anzitutto il ricorso al sale, che non solo rendeva più gustosi i cibi ma, prosciugandoli, li rendeva secchi, più durevoli nel tempo. Ad essere messi sotto sale furono cibi quali la carne, il pesce, le verdure. Era poi diffusa l’essiccazione del pesce al sole o mediante il fumo. Altre tecniche si affermarono ricorrendo all’olio, all’aceto, al miele e allo zucchero. Quest’ultimo fece tuttavia la sua comparsa alla fine del Medioevo e solo nelle mense signorili europee.  Per restare ancora alla conservazione degli alimenti, un’altra tecnica era la fermentazione, che rese possibile sfruttare a vantaggio dell’uomo un processo tutto naturale come la putrefazione. La fermentazione, assieme alla salatura, venne impiegata in prodotti quali salami, formaggi, prosciutti.  Un caso emblematico era costituito a tal proposito da un genere di verdure, i crauti, tuttora diffusi nell’Europa germanica: erano ottenuti mediante un processo di fermentazione acida.

cucinaUn altro strumento per “addomesticare” il tempo consisteva nel diversificare la coltivazione delle piante. Carlo Magno, nel capitolare De villis, invitava a piantare nelle aziende regie “meli di diverso genere, peri di diverso genere, prugni di diverso genere…” affinché si potesse procedere a una raccolta differenziata nel tempo. Dei sette tipi di mele citate nel documento, sei erano definiti “serbevoli”, conservabili, mentre le “primitiva” potevano essere mangiate subito.

Alcuni frutti ricchi di calorie si mangiavano tutto l’anno e, nel duro inverno, servivano addirittura da ripieno. Era il caso delle noci, che a Milano erano mangiate alla fine di ogni pasto. Bonvesin de la Riva ci fornisce altre preziose informazioni al riguardo nel suo De Magnalibus urbis Mediolani, vero e proprio spot pubblicitario della città ambrosiana nel XIII secolo. Sappiamo così che i milanesi amavano triturare le noci, impastarle con uova, cacio e pepe “unde carnes inde iemali tempore impleantur” (tradotto: affinché potessero costituire un ripieno per le carni nella stagione invernale. Libro IV, paragrafo III).

Nel caso dei cereali – base dell’alimentazione contadina – la tecnica era sempre quella di differenziare le colture, un po’ come facciamo oggi quando investiamo in banca diversificando il nostro portafoglio per limitare il rischio e spalmare nel tempo i frutti dei capitali investiti. I contadini coltivavano segale, miglio, avena, spelta, orzo, frumento perché sapevano che i tempi di crescita propri di ciascuna pianta costituivano un altro mezzo efficace per far fronte all’incertezza del domani.

carniSe dal tempo dei cibi passiamo al tempo della cucina, ci accorgiamo che quest’ultimo era assai più lungo rispetto al nostro perché comprendeva fasi di lavoro oggi inesistenti: ad esempio la pestatura dei cereali, il taglio e la macellazione della carne. La lunghezza e la complessità nella preparazione dei cibi non era tipica soltanto delle cucine signorili. Era una costante della società contadina. Il bollito fu per secoli un tipo di alimentazione tipico dei ceti popolari, mentre l’arrosto – ottenuto con l’utilizzo di griglie o spiedi – era prerogativa delle mense signorili. In quest’ultimo caso ad essere cotte erano le carni giovani degli animali uccisi nelle battute di caccia: attività, quest’ultima, riservata alla nobiltà guerriera del Medioevo (i bellatores), prerogativa di questo ceto ancora nell’antico regime. La carne giovane costituiva la base dell’alimentazione del clero regolare in ricche abbazie come ad esempio, per restare a Milano, quella di Sant’Ambrogio. Da un documento del 1148 sappiamo ad esempio che, nel corso delle innumerevoli liti insorte tra i canonici e i monaci di Sant’Ambrogio, il prevosto pretese dall’abate un pranzo in occasione della festa di San Satiro (17 settembre) composto da svariati tipi di carne: polli freddi e carni di porco fredde, poi polli ripieni e carni di porco pepate, infine polli arrosto, lombetti e porcellini ripieni.

minestraGli animali vecchi, consunti dal tempo e dalla fatica del lavoro agreste, erano destinati invece alle mense popolari: le carni erano bollite in calderoni rimestati dalle donne; spesso venivano messe in pezzi nella minestra, La menestra l’è la biava de l’omm: la minestra è la biada dell’uomo, recitava un altro proverbio milanese. Segno che tale alimento era la base dell’alimentazione contadina.

Le cotture lunghe furono caratteristiche della cucina medievale. La pasta era cotta fin quasi a spappolarsi, un’usanza che si conserva tuttora nelle cucine dei paesi nordici ove è possibile rintracciare molti segni degli antichi usi culinari. La pasta al dente è un’invenzione tutta moderna e italiana.

Veniamo ora al tempo dei pasti. Quante volte si mangiava e quando? Anche qui gli usi erano diversi. Il pranzo cadeva in tarda mattinata, mentre la cena al tramonto del sole: tempi che erano in linea con i ritmi della civiltà contadina. E’ possibile che i nostri antenati mangiassero qualcosa di mattina ma è poco probabile che ricorressero a cibi dolci come pane e marmellata. Una chiave di lettura può esserci offerta dalla cucina germanica, che mantiene molte usanze medievali. La mattina si ricorreva probabilmente a piccole porzioni di cibi presenti nei pasti ordinari: salumi, formaggi, prosciutti, carni.

La durata dei pasti era senza dubbio un segno di status. I pranzi signorili potevano durare ore se non addirittura giorni interi. Se vuoi saperne di più sulla cucina medievale a Milano, clicca qui.

Un’antica eccellenza milanese: le botteghe di armaioli

Le vie Spadari e Armorari sono a pochi passi da piazza Duomo. Oggi non resta alcun vecchio edificio che possa aiutarci a capire quale fosse la vita sociale in quelle contrade. Tuttavia la loro antica denominazione ci consente di risalire a una bella pagina di storia milanese. I nomi hanno origine dalle botteghe di artigiani specializzati nella fabbricazione di corazze, armature, spade, lance ed elmi. Fino al 1902, in via Spadari, ai numeri 10 e 12, era possibile visitare la casa dei Missaglia, una famiglia di magistri armorum: l’edificio venne abbattuto nel corso dei lavori che portarono alla demolizione delle case tra via Orefici, via Spadari e l’antica via Ratti.

casa Missaglia
Facciata della Casa dei Missaglia, demolita nei primi anni del Novecento.

Nel centro medievale di Milano era presente fin dal Medioevo una ricca borghesia di artigiani e commercianti. Ricordiamo le vie Orefici, Speronari e, nel primo tratto di via Torino, le contrade (oggi scomparse) dei Mercanti d’Oro, dei Pennacchiari, o ancora – nella parte occidentale dell’attuale piazza Duomo – le vie dei Profumieri e dei Cappellari.

Fino al tardo Cinquecento Milano era famosa non solo per i capi di alta moda – come ad esempio i tessuti auro-serici di cui mi sono occupato in un precedente articolo – ma anche per le fabbriche artigianali di spade e armature. Bonvesin de la Riva, nella celebre opera De magnalibus Mediolani risalente alla seconda metà del XIII secolo, al capitolo quinto ove parla del valore dei milanesi in guerra, ricordava con forza la presenza in città di molte botteghe di artigiani specializzati nella produzione di materiali bellici:

Nella nostra città e nel suo contado vi è fior fiore e abbondanza di fabbri, i quali ogni giorno fabbricano armature di ogni tipo, che poi i mercanti vendono in mirabile abbondanza nelle città vicine e anche in quelle lontane. I principali fabbri di corazze superano infatti il numero di cento e ciascuno di essi tiene sotto di sé moltissimi operai che si dedicano ogni giorno alla lavorazione mirabile delle macchie. Vi sono anche moltissimi fabbricanti di scudi e infine di ogni tipo di armi, del cui numero non faccio neanche menzione.

Le “macchie” erano complesse raffigurazioni che venivano incise nelle armature di acciaio. Si noti quanto scriveva Bonvesin a proposito della localizzazione delle fabbriche e del commercio di queste armi: i fabbri specializzati si trovavano non solo in città, ma anche nel contado circostante. La vendita dei prodotti si spingeva fino a coinvolgere le città lontane: segno che l’industria milanese delle armi era molto apprezzata in Europa.

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Tommaso e Antonio Missaglia con Pier Innocenzo da Faerno e Antonio Seroni, Armatura alla francese in acciaio per l’imperatore Federico III di Asburgo, 1450.

Nel corso del Quattrocento l’industria bellica raggiunse il vertice della sua fortuna, specializzandosi nella produzione di armature all’avanguardia. Milanese è l’invenzione dell’armatura completa in piastra che consentiva un’adeguata protezione del soldato, consentendogli piena agilità nei movimenti. Pressoché contemporaneo è il nuovo tipo di elmo: diversamente da quelli precedenti, presentava una visiera in grado di proteggere completamente la testa. Altra caratteristica delle armature ambrosiane – prodotto di una vera e propria scuola milanese alternativa rispetto a quelle tedesche e francesi – fu la sproporzione, nell’armatura degli arti superiori, tra la parte sinistra e quella destra: la sinistra (dalla copertura della spalla a quella del braccio fusa il più delle volte in solo pezzo fino all’altezza della mano) era molto più grande rispetto all’altra; in tal modo l’uomo d’arme poteva servirsi di questa parte del corpo per la difesa dai colpi del nemico, lasciando al braccio destro il compito di offendere maneggiando la lancia o la spada.

Tra la fine del Quattrocento e il primo Cinquecento l’avvento delle armi da fuoco (dalle bombarde ai falconetti), l’introduzione della picca alla svizzera nei combattimenti campali ove era nettamente prevalente l’uso della fanteria sulla cavalleria, produssero alcuni cambiamenti significativi nel modo di fare la guerra.

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Resti di armatura. 1490 ca.

Questi cambiamenti non devono però ingannarci. Le armature pesanti continuarono ad essere utilizzate. Certo, il netto prevalere della fanteria – che nel corso del Cinquecento vide un progressivo impoverimento del suo personale, sempre meno pagato – finì con il rendere meno diffusa questo tipo di armatura (troppo costosa), a vantaggio di un armamento agile e leggero. Ciononostante, le armature pesanti continuarono ad essere richieste, anche se persero quella funzione militare che avevano rivestito anticamente. I fabbri del quartiere tra le antiche parrocchie di Santa Maria Segreta, Santa Maria Beltrade e San Michele al Gallo (tra le vie Spadari e Armorari) ricevettero lucrose commissioni da una nobiltà desiderosa di partecipare alle parate e alle solenni adunanze sfoggiando armature finemente decorate: tali manufatti furono realizzati con tale precisione e cura dei dettagli – ad esempio nell’incisione dello stemma gentilizio – da costituire un vero e proprio segno di status per il casato.

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Fra Paolo Morigia (1525-1604)

Ma chi erano questi fabbri di armature? Ricordiamo Bartolomeo Piatti, la cui famiglia – acquisita ben presto la nobiltà – si stabilì in un bel palazzo nella via omonima (tuttora esistente) che incrocia via Torino; Giovanni Pietro Figino; Giovanni Antonio Biancardi; Antonio Piccinino con i figli Federico e Lucio. Erano artigiani rinomati, chiamati a lavorare per molti principi europei. Paolo Morigia, nella sua Nobiltà di Milano pubblicata nel 1595, scrisse, a proposito di Antonio Piccinino, “che morse l’anno 1589 nell’età di anni 80, fu il primo huomo non solo della nostra Italia ma anco di tutta Europa, per far’una lama di spada, o pugnale, o coltello, o qualunque arma da tagliare, che tagliava ogni sorte di ferro senza lesione delle sue lame; e però [per questo motivo, NdR] era conosciuto e nominatissimo appresso dei maggiori principi de’ Christiani e alli professori d’arme”. Il figlio Lucio “nel lavorar di rilievo in ferro e in argento, sì di figure come di groteschi [grottesche: tipo di decorazione] e altre bizzarrie d’animali, fogliami, e paesi, è molto eccellente e rarissimo nella Gemina e ha fatto armature di gran pregio al Serenissimo Duca di Parma Alessandro Farnese, ed altri Prencipi, che sono tenute per cose rare”.

Se nella seconda metà del Quattrocento gli Sforza praticarono una politica tesa a mantenere in patria queste botteghe rinomate vietando agli artigiani di stabilirsi all’estero, nel corso del Cinquecento, molte famiglie di fabbri e armaioli si stabilirono oltralpe. Così ad esempio, Filippo de Grampi e Giovan Angelo Litta, che nel 1511 lasciarono Milano per stabilirsi in Inghilterra con altri tre operai invitati dai Tudor a fondare una fabbrica di armature per la corte. Fu anche il caso di alcuni membri della famiglia Piatti: Matteo si trasferì a Firenze tra il 1568 e il 1569, ove aprì una bottega in cui lavoravano dodici maestri e operai milanesi; il nipote Giacomo Filippo fece lo stesso nel 1592. Nel Milanese la presenza di queste botteghe si andò assottigliando. Durante la dominazione spagnola, Filippo II chiamò ad Eugui, nel regno di Navarra, molti armaioli milanesi per costituire una fabbrica di armature di lusso in grado di eccellere come le celebri botteghe di Milano.

La manifattura delle armi era ancora fiorente a Milano alla fine del Seicento. Il nobile russo  Peter Andreevic Tolstoj, in un diario di viaggio risalente al 1698, forniva questo quadro interessante dei negozi milanesi:

La città è ricca di negozi forniti d’ogni tipo di merce, e vi si trovano i più svariati oggetti di ferro e armi: pistole, fucili molto belli, stupende spade. Però questi oggetti, se ben lavorati, si comperano a prezzo piuttosto alto.

Era tuttavia il canto del cigno. Nel corso del Settecento tali fabbriche scomparirono progressivamente lasciando alle vie il compito di ricordare ai milanesi i loro antichi successi nell’industria bellica.