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Un campione della riforma cattolica: San Carlo Borromeo

Il 4 novembre è stato l’anniversario della morte dell’arcivescovo di Milano San Carlo Borromeo. Quali furono gli ultimi giorni di vita del presule milanese?

Egli soleva trascorrere il tempo libero praticando la preghiera mentale. Una delle sue mete preferite era il Sacro Monte di Varallo: si tratta del celebre santuario all’imbocco della Valsesia, ove un sentiero tra i boschi è intervallato da cappelle affrescate che consentono al cristiano d’immergersi nella preghiera.

Lasciata Varallo mentre era di ritorno da un pellegrinaggio alla Sacra Sindone, salito su un barcone per raggiungere Milano lungo il Naviglio Grande, il Borromeo iniziò ad accusare i primi segni della malattia che doveva condurlo alla morte nella sera del primo novembre 1584. Giunto al palazzo arcivescovile su una lettiga, il cardinale trascorse le ultime ore assorto nella preghiera. Chiese che nella sua camera gli fosse montato un altare composto di alcuni quadri sacri tra i quali il dipinto Orazione nell’orto .

digiuno di san carlo
Daniele Crespi, Il digiuno di San Carlo. Milano, Chiesa di Santa Maria della Passione

Credo che per comprendere il carattere e l’opera del Borromeo sia utile soffermarci sul celebre dipinto di Daniele Crespi, Il digiuno di San Carlo, conservato nella chiesa milanese di Santa Maria della Passione. Il prelato è ritratto nel suo scrittoio mentre è assorto in preghiera negli esercizi spirituali. Il magro pasto, caratterizzato da un pane e da una bottiglia di acqua, passa in secondo piano rispetto ai due protagonisti del dipinto: da un lato il volto piangente del presule, ritratto in un atteggiamento di commozione e di estasi nella lettura del testo sacro, dall’altro il crocifisso collocato sopra un tavolino di legno poco discosto dallo scrittoio, di fronte al santo.

San Carlo può essere considerato l’interprete più coerente dei canoni riformatori fissati dal Concilio di Trento: tali canoni non solo resero il vescovo un vero pastore d’anime, ma gli conferirono poteri incisivi di disciplina e di controllo sulla condotta del clero all’interno della diocesi. Si pensi ad esempio alle visite pastorali, alla convocazione periodica dei sinodi diocesani o dei concili provinciali. Su questo punto il Borromeo fece di Milano una diocesi modello.

Personalità forte, a larghi tratti autoritaria quella di San Carlo che, nel condurre fino in fondo la riforma della chiesa ambrosiana, per contrastare efficacemente quelli che al tempo erano considerati i mali del secolo (dalle sette protestanti alle feste popolari), non esitò a scontrarsi con il potere spagnolo mettendo in difficoltà la Santa Sede. La sua azione zelante, esemplare, instancabile nell’informare la diocesi ai canoni tridentini, rese l’autorità episcopale milanese un corpo intermedio nella chiesa, quasi sottratto al controllo disciplinare di Roma.

Nel ducato di Milano lo scontro con il governatore spagnolo investì il campo religioso. Di fronte all’intenzione del re Filippo II d’introdurre nella capitale ambrosiana l’inquisizione spagnola onde sradicare le sette protestanti, il Borromeo si oppose risolutamente mettendo in campo tutta la sua autorità. Rimasto vincolato a una concezione medievale dei rapporti tra potere pubblico e potere ecclesiastico nella quale il secondo si poneva su un piano di superiorità rispetto al primo, il prelato si oppose fermamente alla politica di Filippo, affermando non solo una netta diversità nei modi di perseguire gli eretici (così ad esempio avversava il metodo spagnolo  delle “denunce anonime”) ma anche la piena autonomia dell’autorità ecclesiastica, che non poteva in alcun modo essere menomata da un intervento dello Stato in una questione religiosa che spettava in via esclusiva all’arcivescovo. San Carlo scriveva a tal proposito nel 1566: “il popolo milanese ha il sospetto che…si cerchi di mettere in questo Stato l’Inquisizione alla foggia di Spagna, non tanto per zelo di religione quanto per interesse di Stato…”.

carlo borromeoIl Borromeo, appoggiato dal papa, ebbe successo in tale azione di contrasto alla politica spagnola. Agli organi della curia ambrosiana fu riservato il compito di respingere il protestantesimo, il che avvenne mediante un vasto programma di evangelizzazione nella diocesi. Si deve a San Carlo la fondazione del Seminario arcivescovile (tuttora esistente in Corso Venezia 11) affinché il clero, ricevendo una formazione rigorosa, potesse svolgere una migliore azione di evangelizzazione. Interprete inflessibile del modello tridentino per la formazione di una chiesa ordinata, tesa al disprezzo dei beni mondani, tutta lanciata verso l’elevazione morale della comunità e la salvezza spirituale delle anime, l’arcivescovo istituì confraternite per promuovere la religiosità nel popolo favorendo una concreta opera di apostolato presso il laicato.

Celebri le sue battaglie contro le feste popolari, colpevoli di allontanare i cattolici dalla cura dell’anima. Dal carnevale alle feste di quaresima, la sua posizione fu intransigente: anche qui essa provocò uno scontro con le autorità civili milanesi. Il governatore spagnolo, il marchese di Ayamonte, alla fine degli anni Settanta chiese al papa l’allontanamento di un arcivescovo tanto scomodo: richiesta ovviamente respinta.

Per tornare alla formazione del clero, l’opera di San Carlo fu davvero fondamentale. Ricordiamo la fondazione del Collegio Elvetico (oggi palazzo dell’Archivio di Stato di Milano in via Senato 10) per la formazione di preti da inviare in missione nei cantoni svizzeri, oppure l’apertura di istituti quali la fondazione di San Giovanni Decollato per le vocazioni tardive, la fondazione della Beata Maria presso la Canonica arcivescovile per il clero di campagna, o ancora i piccoli seminari di Inverigo e Celana. Ad Arona fu istituita una sezione distaccata del Seminario milanese.

Nella riforma del clero, vietò il cumulo di benefici in capo a una sola persona. I benefici erano beni immobili concessi in origine dal signore per il mantenimento del suo vassallo. In tal modo il clero fu privato di numerose rendite, il che lo rese più povero allontanandolo da quella ricchezza che era stata la causa principale della corruzione della chiesa. Il clero lombardo formato dal Borromeo operò in un clima di austerità e semplicità dedito esclusivamente alla predicazione e alle opere di carità.

Segno di una religiosità combattiva fu la decisione di fondare l’ordine degli Oblati di Sant’Ambrogio, una congregazione di preti a dimensione diocesana il cui obiettivo consisteva nel lavorare instancabilmente perché la pastorale del vescovo venisse attuata fin nei più remoti interstizi della società milanese e più in generale lombarda. D’altra parte, per l’efficace contrasto alla superstizione e al movimento ereticale, l’arcivescovo poteva contare sui “crocesignati”, una congregazione composta da 40 nobili milanesi che avevano giurato di sterminare gli eretici. Si trattava di una compagnia che operava con mezzi violenti, alla quale il Borromeo fece ricorso assai raramente, in circostanze eccezionali. Per l’esecuzione delle sentenze arcivescovili esisteva inoltre una “famiglia armata”, quasi un corpo di polizia incaricato di rendere esecutive le disposizioni della curia ambrosiana.

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Colosso di San Carlo Borromeo ad Arona. I lavori, iniziati nel 1624 per volontà del cardinale Federico Borromeo, terminarono nel 1698. Il disegno della statua è di Giovanni Battista Crespi detto “Il Cerano”

San Carlo si conquistò l’affetto dei milanesi in occasione della peste che imperversò in città nel 1576. La sua azione a sostegno dei malati, dei moribondi, dei poveri fu totale. Forse il ritratto migliore di questa grande personalità della storia milanese ci è offerto dalla gigantesca statua del santo che si trova ad Arona: alto 28 metri, il celebre “Carlone” incarna davvero il modello stoico dell’uomo che obbedisce con umiltà e disciplina ai doveri del suo ministero, operando con coraggio per il bene della comunità.

Un’antica eccellenza milanese: le botteghe di armaioli

Le vie Spadari e Armorari sono a pochi passi da piazza Duomo. Oggi non resta alcun vecchio edificio che possa aiutarci a capire quale fosse la vita sociale in quelle contrade. Tuttavia la loro antica denominazione ci consente di risalire a una bella pagina di storia milanese. I nomi hanno origine dalle botteghe di artigiani specializzati nella fabbricazione di corazze, armature, spade, lance ed elmi. Fino al 1902, in via Spadari, ai numeri 10 e 12, era possibile visitare la casa dei Missaglia, una famiglia di magistri armorum: l’edificio venne abbattuto nel corso dei lavori che portarono alla demolizione delle case tra via Orefici, via Spadari e l’antica via Ratti.

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Facciata della Casa dei Missaglia, demolita nei primi anni del Novecento.

Nel centro medievale di Milano era presente fin dal Medioevo una ricca borghesia di artigiani e commercianti. Ricordiamo le vie Orefici, Speronari e, nel primo tratto di via Torino, le contrade (oggi scomparse) dei Mercanti d’Oro, dei Pennacchiari, o ancora – nella parte occidentale dell’attuale piazza Duomo – le vie dei Profumieri e dei Cappellari.

Fino al tardo Cinquecento Milano era famosa non solo per i capi di alta moda – come ad esempio i tessuti auro-serici di cui mi sono occupato in un precedente articolo – ma anche per le fabbriche artigianali di spade e armature. Bonvesin de la Riva, nella celebre opera De magnalibus Mediolani risalente alla seconda metà del XIII secolo, al capitolo quinto ove parla del valore dei milanesi in guerra, ricordava con forza la presenza in città di molte botteghe di artigiani specializzati nella produzione di materiali bellici:

Nella nostra città e nel suo contado vi è fior fiore e abbondanza di fabbri, i quali ogni giorno fabbricano armature di ogni tipo, che poi i mercanti vendono in mirabile abbondanza nelle città vicine e anche in quelle lontane. I principali fabbri di corazze superano infatti il numero di cento e ciascuno di essi tiene sotto di sé moltissimi operai che si dedicano ogni giorno alla lavorazione mirabile delle macchie. Vi sono anche moltissimi fabbricanti di scudi e infine di ogni tipo di armi, del cui numero non faccio neanche menzione.

Le “macchie” erano complesse raffigurazioni che venivano incise nelle armature di acciaio. Si noti quanto scriveva Bonvesin a proposito della localizzazione delle fabbriche e del commercio di queste armi: i fabbri specializzati si trovavano non solo in città, ma anche nel contado circostante. La vendita dei prodotti si spingeva fino a coinvolgere le città lontane: segno che l’industria milanese delle armi era molto apprezzata in Europa.

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Tommaso e Antonio Missaglia con Pier Innocenzo da Faerno e Antonio Seroni, Armatura alla francese in acciaio per l’imperatore Federico III di Asburgo, 1450.

Nel corso del Quattrocento l’industria bellica raggiunse il vertice della sua fortuna, specializzandosi nella produzione di armature all’avanguardia. Milanese è l’invenzione dell’armatura completa in piastra che consentiva un’adeguata protezione del soldato, consentendogli piena agilità nei movimenti. Pressoché contemporaneo è il nuovo tipo di elmo: diversamente da quelli precedenti, presentava una visiera in grado di proteggere completamente la testa. Altra caratteristica delle armature ambrosiane – prodotto di una vera e propria scuola milanese alternativa rispetto a quelle tedesche e francesi – fu la sproporzione, nell’armatura degli arti superiori, tra la parte sinistra e quella destra: la sinistra (dalla copertura della spalla a quella del braccio fusa il più delle volte in solo pezzo fino all’altezza della mano) era molto più grande rispetto all’altra; in tal modo l’uomo d’arme poteva servirsi di questa parte del corpo per la difesa dai colpi del nemico, lasciando al braccio destro il compito di offendere maneggiando la lancia o la spada.

Tra la fine del Quattrocento e il primo Cinquecento l’avvento delle armi da fuoco (dalle bombarde ai falconetti), l’introduzione della picca alla svizzera nei combattimenti campali ove era nettamente prevalente l’uso della fanteria sulla cavalleria, produssero alcuni cambiamenti significativi nel modo di fare la guerra.

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Resti di armatura. 1490 ca.

Questi cambiamenti non devono però ingannarci. Le armature pesanti continuarono ad essere utilizzate. Certo, il netto prevalere della fanteria – che nel corso del Cinquecento vide un progressivo impoverimento del suo personale, sempre meno pagato – finì con il rendere meno diffusa questo tipo di armatura (troppo costosa), a vantaggio di un armamento agile e leggero. Ciononostante, le armature pesanti continuarono ad essere richieste, anche se persero quella funzione militare che avevano rivestito anticamente. I fabbri del quartiere tra le antiche parrocchie di Santa Maria Segreta, Santa Maria Beltrade e San Michele al Gallo (tra le vie Spadari e Armorari) ricevettero lucrose commissioni da una nobiltà desiderosa di partecipare alle parate e alle solenni adunanze sfoggiando armature finemente decorate: tali manufatti furono realizzati con tale precisione e cura dei dettagli – ad esempio nell’incisione dello stemma gentilizio – da costituire un vero e proprio segno di status per il casato.

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Fra Paolo Morigia (1525-1604)

Ma chi erano questi fabbri di armature? Ricordiamo Bartolomeo Piatti, la cui famiglia – acquisita ben presto la nobiltà – si stabilì in un bel palazzo nella via omonima (tuttora esistente) che incrocia via Torino; Giovanni Pietro Figino; Giovanni Antonio Biancardi; Antonio Piccinino con i figli Federico e Lucio. Erano artigiani rinomati, chiamati a lavorare per molti principi europei. Paolo Morigia, nella sua Nobiltà di Milano pubblicata nel 1595, scrisse, a proposito di Antonio Piccinino, “che morse l’anno 1589 nell’età di anni 80, fu il primo huomo non solo della nostra Italia ma anco di tutta Europa, per far’una lama di spada, o pugnale, o coltello, o qualunque arma da tagliare, che tagliava ogni sorte di ferro senza lesione delle sue lame; e però [per questo motivo, NdR] era conosciuto e nominatissimo appresso dei maggiori principi de’ Christiani e alli professori d’arme”. Il figlio Lucio “nel lavorar di rilievo in ferro e in argento, sì di figure come di groteschi [grottesche: tipo di decorazione] e altre bizzarrie d’animali, fogliami, e paesi, è molto eccellente e rarissimo nella Gemina e ha fatto armature di gran pregio al Serenissimo Duca di Parma Alessandro Farnese, ed altri Prencipi, che sono tenute per cose rare”.

Se nella seconda metà del Quattrocento gli Sforza praticarono una politica tesa a mantenere in patria queste botteghe rinomate vietando agli artigiani di stabilirsi all’estero, nel corso del Cinquecento, molte famiglie di fabbri e armaioli si stabilirono oltralpe. Così ad esempio, Filippo de Grampi e Giovan Angelo Litta, che nel 1511 lasciarono Milano per stabilirsi in Inghilterra con altri tre operai invitati dai Tudor a fondare una fabbrica di armature per la corte. Fu anche il caso di alcuni membri della famiglia Piatti: Matteo si trasferì a Firenze tra il 1568 e il 1569, ove aprì una bottega in cui lavoravano dodici maestri e operai milanesi; il nipote Giacomo Filippo fece lo stesso nel 1592. Nel Milanese la presenza di queste botteghe si andò assottigliando. Durante la dominazione spagnola, Filippo II chiamò ad Eugui, nel regno di Navarra, molti armaioli milanesi per costituire una fabbrica di armature di lusso in grado di eccellere come le celebri botteghe di Milano.

La manifattura delle armi era ancora fiorente a Milano alla fine del Seicento. Il nobile russo  Peter Andreevic Tolstoj, in un diario di viaggio risalente al 1698, forniva questo quadro interessante dei negozi milanesi:

La città è ricca di negozi forniti d’ogni tipo di merce, e vi si trovano i più svariati oggetti di ferro e armi: pistole, fucili molto belli, stupende spade. Però questi oggetti, se ben lavorati, si comperano a prezzo piuttosto alto.

Era tuttavia il canto del cigno. Nel corso del Settecento tali fabbriche scomparirono progressivamente lasciando alle vie il compito di ricordare ai milanesi i loro antichi successi nell’industria bellica.