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I cicisbei nella Milano del ‘700

In un passo dell’ode Il Mattino, all’interno della nota critica alla vita oziosa del nobile signore, Giuseppe Parini prendeva in esame il vincolo del matrimonio, osteggiato dal ricco rampollo cui è rivolta la satira del poeta. Seguiva, poche righe più avanti, un chiaro riferimento all’istituzione tipicamente settecentesca del cicisbeismo, vale a dire alla pratica con cui le donne della nobiltà italiana erano solite frequentare i salotti culturali accompagnate da un uomo cui erano legate da sentimenti di affetto e – in alcuni casi – di amore.

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Giuseppe Parini (1729-1799)

Assai pensasti a te medesimo: or volgi

Le tue cure per poco ad altro obbietto

Non indegno di te. Sai che compagna,

con cui divider possa il lungo peso

di quest’inerte vita, il ciel destina

Al giovane signore. Impallidisci?

No, non parlo di nozze: antiquo e vieto

Dottor sarei, se così folle io dessi

A te consiglio. Di tant’altre doti

Tu non orni così lo spirto e i membri

Perché in mezzo alla tuo nobil carriera

Sospender debbi ’l corso, e fuora uscendo

Di cotesto a ragion detto Bel Mondo,

Intra i severi di famiglia padri

Relegato ti giacci, a un nodo avvinto

Di giorno in giorno più penoso e fatto

Stallone ignobil della razza umana. […]

Pera dunque chi a te nozze consiglia,

Ma non però senza compagna andrai,

Che fia giovane dama e d’altrui sposa;

Poiché si vuole inviolabil rito

Del Bel Mondo onde tu se’ cittadino.

 

[Hai pensato molto a te stesso: ora concentra un poco la tua attenzione ad un altro tema degno di te. Tu sai il cielo assegna al giovin signore una compagna con cui possa dividere questa vita inoperosa. Impallidisci? No, non parlo di matrimonio: sarei un poeta vecchio e inutile se dessi a te un consiglio così folle. Il tuo spirito e le tue membra non sono così provviste di tante doti perché tu debba sospendere a metà il corso della tua carriera nobile e, lasciando quel che a ragione si dice “bel mondo”, tu finisca relegato tra i severi padri di famiglia, avvinto a un nodo che ogni giorno diviene più penoso, ridotto a stallone ignobile della razza umana. […] Muoia dunque chi a te consiglia il matrimonio, ma non per questo andrai senza compagna, la quale sarà una giovane donna e maritata con un altro uomo; perché così vuole il rito inviolabile del bel mondo di cui sei cittadino].

 [G. Parini, Il Mattino in G. Parini, Poesie, a cura di Guido Mazzoni, Istituto Editoriale Italiano, Classici Italiani Novissima Biblioteca diretta da Ferdinando Martini, Milano, s.d., pp.38-39].

Il quadro della società milanese settecentesca che Parini tratteggiava in questi versi era assai diffuso tra la nobiltà. Occorre ricordare che nei secoli precedenti, tra il Cinquecento e il Seicento, la vita sociale della donna si era svolta per lo più all’interno delle mura domestiche, in una condizione di completa sottomissione al marito. La nobildonna si trovava al suo fianco nei momenti per così dire istituzionali della famiglia, ad esempio nelle riunioni dei casati nobiliari con i quali si era imparentati: pochi momenti di apparizione “in pubblico” in un’esistenza che si svolgeva entro le spesse mura del palazzo nobiliare.

Alla fine del Seicento e nel corso del Settecento la moda francese imposta dalla vita di corte di Versailles si diffuse progressivamente in Europa, il che contribuì a mutare la condizione della donna nobile cui fu consentita una maggiore libertà di movimento. Le conversazioni nei salotti culturali, spesso tenuti dalle nobildonne nei palazzi ove vivevano, contribuirono a una certa emancipazione. Varrà la pena ricordare, a tal proposito, il celebre salotto milanese della contessa Clelia Borromeo del Grillo che si tenne nella prima metà del Settecento nel palazzo Borromeo di via Rugabella.

Il permanere di logiche tradizionali in base alle quali i matrimoni erano combinati dalle famiglie nobili in base ad interessi cetuali, patrimoniali e finanziari senza alcuna importanza alle inclinazioni delle persone, finì con il favorire, nell’Italia del Settecento, l’instaurarsi di legami affettivi esterni al vincolo coniugale, legami stretti dalle nobildonne con uomini di pari ceto spesso con il consenso dei mariti. Si trattava in fondo di una forma di compensazione nella sfera degli affetti per una donna che veniva spesso unita a un marito assai più anziano, sprovvisto di bellezza fisica e di doti intellettuali.

E’ opportuno chiedersi per quale motivo il fenomeno del cicisbeismo fosse più diffuso in Italia e meno in Francia, nei principati e città del Sacro Romano Impero Germanico e più in generale dell’Europa del Nord. Credo che la risposta sia da ricercare nella maggiore libertà di movimento consentita alla donna europea del Settecento, mentre in Italia si sentì l’esigenza di controllare le sue uscite in pubblico accompagnandola ad un uomo che potesse garantire la sua onorabilità e sicurezza. Nelle città italiane il potere delle famiglie patrizie, radicato nelle istituzioni degli antichi Stati, contava ancora molto, tanto nelle repubbliche quanto nei regni informati alla vita di corte dei sovrani illuminati.

A Milano credo che il fenomeno riguardasse in molti casi i cadetti dell’aristocrazia: questi, non potendo fruire delle pingui rendite patrimoniali riservate al primogenito, educati alle lettere e alle armi più che al lavoro per l’appartenenza all’ordine nobiliare, dovevano accontentarsi di una piccola rendita che era però insufficiente a mantenere una famiglia. Di qui la vita celibe di modesti redditieri, allietata dall’affetto che li legava alle dame di pari ceto in forza del ruolo di cicisbei o di cavalier serventi che accettavano di ricoprire.

Per molti si trattava di una condizione sicuramente preferibile rispetto a quella degli altri cadetti economicamente meno fortunati: alcuni di questi nobili erano costretti ad entrare nell’ordine ecclesiastico rinunciando al mondo secolare per vivere nel celibato religioso, protetti dalla sicurezza economica che conferiva loro il beneficio. Altri invece si arruolavano nell’esercito dedicandosi – com’era tradizione – a una carriera militare che, nel Settecento, li costringeva a lunghe campagne lontano dalla patria di origine.

Cesare Beccaria, nelle Lezioni di economia pubblica tenute nelle Scuole Palatine di Milano dal 1769 al 1773, non esitò ad esprimere tutta la sua avversione per questi celibi: essi erano colpevoli di assumere comportamenti libertini e di mancare ai doveri della procreazione legati alla formazione e al mantenimento della famiglia. Le sue critiche erano mosse all’utilizzo infruttuoso delle piccole rendite di posizione, ristrette al puro e semplice mantenimento del nobile, non impiegate ai fini della ricchezza e della prosperità della nazione. Non faceva un’esplicita menzione dei cicisbei ma non era difficile capire a quali persone si riferisse quando condannava il celibato dei nobili. L’illuminista lombardo mostrava invece un profondo rispetto per il celibato religioso e la dura vita dei soldati.

Cesare Beccaria (1738-1794)
Cesare Beccaria (1738-1794)

Se questo stato (il celibato) si diffonde di troppo, egli diventa piuttosto apparente che reale; le facili e tenebrose risorse del libertinaggio compensano una privazione, e la natura si rivendica, ma a carico altrui, e senza raccoglierne alcun frutto. Non parlo di quel sacro celibato che nelle più auguste funzioni della religione si occupa; non parlo di quello che lontano dal tumulto seducente della frequenza si conserva, incontaminato, fra gli appartati ritiri d’una mesta solitudine; ma parlo di quello che, usurpando la considerazione dovuta al vero celibato religioso, grandeggia nella società soltanto per la scelta calcolatrice d’interesse, non per intima superiore spinta di motivi sovraumani. Dico che in questo caso il celibato o è religioso affatto, e le distinzioni mondane e i premi sociali sono alieni del tutto dal suo scopo, o è secolare e realmente profano, e allora dovrebbe cedere in tutte le occasioni alla classe perpetuatrice [la famiglia unita in matrimonio finalizzata alla procreazione NdR]. […]

Oltre a ciò è necessario che questo stato perpetuatore del genere umano [la famiglia] sia…sopra ogn’altro onorato. Perché abbandonarlo totalmente ai sentimenti della natura o alla calcolatrice indagine dell’interesse, mentre taluni, senza i gravi e più sublimi motivi, per un volubile entusiasmo o per una libertina avversione ad ogni legame, osano sottrarre una serie di generazioni che aspettano di respirar aura vitale dagli oscuri recessi dell’insensibilità ed inazione, carpiscono le distinzioni le più lusinghiere, mentre dovrebbono sovente a quella oscurità condannarsi, cui condannano una numerosa posterità?

[C. Beccaria, Elementi di economia pubblica in ID., Scritti economici, vol.III dell’Edizione Nazionale delle Opere di Cesare Beccaria, Milano, Mediobanca 2014, pp.139-140]

Dalle ‘vaganti latrine’ agli smart bins di Amsa

Il rapporto dei milanesi con la spazzatura è sempre stato controverso. In età moderna la condizione delle strade era a dir poco misera se considerata con gli standard di pulizia cui siamo abituati oggi. Chi camminava nel XVI o nel XVII secolo per le vie del centro, perfino lungo i corsi principali, doveva fare i conti con una situazione ambientale assai misera: strade lordate da escrementi di ogni tipo, il suolo bagnato dell’urina dei vasi da notte che venivano svuotati dalle finestre.

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Il poeta Giuseppe Parini (1729-1799)

Ancora in pieno Settecento, nel periodo in cui il riformismo illuminato accendeva i suoi “lumi” e si adoperavano le prime misure tese a conferire pubblico decoro alla città, poteva capitare che la sporcizia restasse per giorni ai bordi delle vie. I rifiuti restavano per giorni in strada, tanto che in milanese la radice del lemma che indicava la spazzatura (ruera) era lo stesso di strada (ruga….da cui via Rugabella: bella strada): la competenza del “rüè”, dello spazzino, consisteva nel raccogliere questi rifiuti nella grande gerla che reggeva sulle spalle e nel portarli fuori dalle mura, in aperta campagna. Questo però non avveniva regolarmente, il che finiva con il rendere l’aria irrespirabile. L’abate Giuseppe Parini fu uno dei primi a denunciare, in una famosa ode del 1754, il misero stato in cui versavano le strade milanesi. Nello scritto Sulla salubrità dell’aria il poeta non esitava a preferire l’aria della sua Brianza ai fetori immondi di Milano:

Ma al pié de’ gran palagi/ Là il fimo alto fermenta;/ E di sali malvagi/ Ammorba l’aria lenta,/ che a stagnar si rimase/ tra le sublimi case./ Quivi i lari plebei/ Da le spregiate crete/ D’umor fracidi e rei/ Versan fonti indiscrete;/ Onde il vapor s’aggira,/ e col fiato s’inspira./ Spenti animai, ridotti/ Per le frequenti vie,/ De gli aliti corrotti/ Empion l’estivo die:/ Spettacol deforme/ Del cittadin sull’orme./ Né a pena cadde il Sole,/ che vaganti latrine/ con spalancate gole/ lustran ogni confine/ De la città, che desta/ Beve l’aura molesta.

  “Ma ai piedi dei grandi palazzi fermenta il tanto letame. E di odori nocivi ammorba l’aria fetida, che rimase a stagnare tra queste case sublimi. Qui gli abitanti delle case popolari gettano in strada le acque sporche dei vasi da notte (le spregiate crete) per cui i miasmi si aggirano per l’aria e si respirano dai passanti. Animali morti, che giacciono sulle vie frequentate, riempiono l’aria estiva del puzzo della carcasse in decomposizione: informe spettacolo ai piedi del cittadino. E poco prima del tramonto i carri dei rifiuti spinti dagli spazzini (latrine vaganti) con i loro coperchi spalancati puliscono ogni lato della città, che al risveglio si deve ancora sorbire quell’aria fetida”.

 

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Eugenio Beauharnais (1781-1824), vicerè del Regno Italico dal 1805 al 1814

Nel 1781 il magistrato di sanità, l’istituzione del ducato incaricata di vigilare sulla salute pubblica, emanò disposizioni precise sulla pulizia delle strade. La cura dell’igiene pubblica restò però inefficace per molti anni perché i milanesi violavano i regolamenti. I primi provvedimenti incisivi arrivarono quando Milano fu capitale del Regno d’Italia napoleonico. Un decreto del viceré Eugenio Beauharnais, firmato dal Palazzo Reale l’8 gennaio 1811, nel denunciare la pessima abitudine di depositare nelle cantine o nei cortili domestici il letame delle stalle e ogni specie di rifiuti, vietava tali pratiche sotto pena di una multa di 200 lire italiane, che saliva a 300 lire in caso di recidiva. Pochi mesi dopo, un’ordinanza del prefetto di polizia dell’Olona, Villa, obbligava i cittadini a trasportare l’immondizia fuori città assicurandosi che il luogo prescelto si trovasse a una distanza dalla strada e dall’abitato non inferiore ai 100 metri.

Da allora è passata molta acqua sotto i ponti. Oggi Milano si trova all’avanguardia nella pulizia delle strade e nella gestione dell’immondizia. La raccolta differenziata, pari al 54% del totale, seconda in Europa solo a quella di Vienna, consente di produrre fonti di calore per 24.000 famiglie ed energia elettrica per 130.000 nuclei familiari. In un interessante incontro tenuto tre giorni fa all’Urban Center in Galleria Vittorio Emanuele, una delegazione di operatori ecologici di New York si è incontrata con gli amministratori del Comune, di A2A e di Amsa per scambiarsi il proprio know-how e condividere obiettivi ambiziosi. Nella Grande Mela il sindaco De Blasio ha dichiarato di voler raggiungere entro il 2030 l’azzeramento della produzione di immondizia indifferenziata. La giunta Sala, che intende portare nei prossimi anni la raccolta differenziata al 65%, si pone lo stesso traguardo potendo contare su un servizio di gestione dei rifiuti – quello di Amsa, dal 2008 controllata da A2A – tra i più avanzati in Europa.

 

Dennis Diggins, First Deputy Commissioner del New York City Department of Sanitation, ha mostrato come raggiungere l’obiettivo del “zero waste” sia un obiettivo difficile ma non impossibile se l’amministrazione riesce a gestire bene i processi di smaltimento per ogni tipologia di rifiuto come avviene in larga parte già a Milano.

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Marco Granelli, assessore all’ambiente del Comune di Milano

D’altra parte, “prendendo ad esempio l’esperienza di New York” ha spiegato l’assessore all’ambiente del Comune di Milano, Marco Granelli – crediamo che Milano possa puntare ancor più in alto recuperando una componente importante come i tessuti che oggi vanno nell’indifferenziato. Siamo poi consapevoli che l’attività educativa nelle scuole è fondamentale: applicare la differenziata nei cestini pubblici in strada – come è stato fatto ad Expo 2015 – richiede un’educazione civica diffusa sul territorio. A Milano è poi cruciale coinvolgere maggiormente i condomini mettendo in atto misure  – come ad esempio sconti sulla Tari – atte a premiare chi dimostrerà di prendersi cura dello spazio comune”.

Valerio Camerano, amministratore delegato di A2A, ha confermato come anche per Milano l’obiettivo sia di arrivare al 100% della raccolta differenziata entro il 2030. Investimenti significativi sono previsti per nuovi impianti tesi allo smaltimento del vetro, carta, plastica e organico. Il servizio si estenderà nei prossimi anni all’area metropolitana garantendo ai Comuni dell’hinterland un servizio che sia allo stesso livello di quello presente a Milano. Il responsabile operativo di Amsa, Mauro De Cillis, ha annunciato che dal 2017 verranno introdotti in città gli smart bins, i cestini intelligenti: dotati di un chip elettronico, invieranno alla centrale informazioni sui rifiuti accumulati consentendo agli operatori di tracciare la produzione storica per ogni isolato. Entro il 2018 quindicimila cestoni saranno smart sui ventiquattromila complessivi.

Tra le novità dei prossimi anni vi sarà il rinnovamento ecologico del parco mezzi con una flotta che sarà pienamente ecocompatibile entro il 2018; l’unione del cartone alla carta a seguito dell’elevata diffusione degli acquisti via internet; la riduzione della raccolta indifferenziata ad una volta alla settimana per indurre i cittadini ad impegnarsi maggiormente nella separazione dei vari tipi di rifiuti.

L’alta istruzione a Milano: Accademia e Politecnico

Il 15 gennaio 1861 Terenzio Mamiani, ministro della pubblica istruzione, tenne nei locali del palazzo di Brera un solenne discorso per inaugurare l’inizio delle lezioni dell’Accademia Scientifico Letteraria. Di cosa si trattava?

Casati
Gabrio Casati (1798-1873)

La fondazione dell’Accademia era prevista dalla legge 13 novembre 1859 conosciuta come Legge Casati dal nome del relatore, il moderato lombardo Gabrio Casati. In fondo possiamo dire che grazie a questa normativa Milano poté disporre di un istituto che per la prima volta somigliava a una università. Com’è noto, dal 1361 l’università di Pavia era la più antica istituzione accademica esistente in Lombardia. Milano si trovava quindi in una posizione d’inferiorità.

Milano aveva una sua tradizione di studi più frammentata ma non meno importante. Nella seconda metà del Settecento, sotto il governo dell’imperatrice Maria Teresa e di Giuseppe II di Asburgo Lorena, l’innalzamento qualitativo degli insegnamenti era stato ottenuto mediante una riforma incisiva degli studi superiori: dal rinnovamento delle Scuole Palatine alla fondazione della Società Patriottica, avvenuta nel 1776, per la promozione dell’agricoltura e delle arti.  Le riforme asburgiche avevano quindi innalzato il livello dell’alta formazione a Milano, facendone una città della cultura e del sapere utile. La Società Patriottica, specializzata nello studio delle scienze agronomiche,  Basti ricordare, per restare al caso delle Scuole Palatine (situate in piazza dei Mercanti, poi trasferite nel palazzo ex gesuitico di Brera) che dal 1768 al 1773 Cesare Beccaria vi tenne i suoi celebri corsi di economia pubblica; in quegli stessi anni Giuseppe Parini vi insegnò eloquenza e belle lettere, Paolo Frisi meccanica, idrostatica e idraulica.

Si faceva sentire tuttavia la mancanza di una vera e propria Università. La ricordata legge Casati tentò di colmare questo vuoto operando in due direzioni. Anzitutto istituì l’Accademia scientifico letteraria mediante il trasferimento di alcuni insegnanti dall’ateneo pavese. Furono poi concentrate nel nuovo istituto alcune discipline presenti in istituti diversi della città: ad esempio la paleografia e la diplomatica insegnate negli archivi regi o l’astronomia attiva presso il celebre Osservatorio di Brera. I primi locali di quella che può essere considerata l’antesignana dell’Università degli Studi di Milano, furono stabiliti nel palazzo di fronte al naviglio interno di via Senato, ove oggi ha sede l’Archivio di Stato.

I primi anni furono però tormentati. Difatti il trasferimento a Milano degli insegnamenti nelle discipline letterarie finì per provocare le proteste degli studenti: questi si lamentavano delle elevate tasse d’iscrizione, cui si aggiungevano le spese di viaggio perr venire a Milano in un’epoca in cui gli spostamenti non erano certo veloci come quelli odierni. Alcuni studenti preferirono iscriversi nelle università emiliane, ove le tasse d’iscrizione erano abbordabili e gli esami più facili da superare. Per evitare un drastico calo di iscritti, nell’anno accademico 1861-62 i vertici dell’ateneo ticinese decisero di richiamare a Pavia quattro insegnanti. La situazione era critica e tutto faceva pensare che l’accademia fosse destinata a chiudere.

Giuseppe Ferrari
Giuseppe Ferrari (1812-1876)

Le autorità locali e l’opinione pubblica milanese protestarono contro i provvedimenti dell’ateneo pavese. Scrissero al ministro dell’istruzione chiedendo la conservazione dell’Accademia scientifico letteraria. Il ministro Amari acconsentì alle richieste dei milanesi. Con regio decreto 8 novembre 1863, egli riformò in profondità l’amministrazione di questo istituto educativo. La normativa stabiliva l’apertura di una “scuola normale” per la formazione degli insegnanti delle scuole secondarie superiori nelle materie classiche di storia e filosofia. Inoltre fu istituita una scuola di alta cultura specializzata nelle scienze storiche e filosofiche. L’accademia divenne quindi un luogo in cui si affrontavano i problemi della didattica e le esigenze della ricerca scientifica in campo umanistico. Tra gli insegnanti più celebri nell’istituto di via Senato varrà la pena ricordare il deputato federalista Giuseppe Ferrari, docente di filosofia della storia e il celebre filologo Graziadio Ascoli.

Brioschi
Francesco Brioschi (1824-1897)

Nello stesso palazzo di via Senato ebbe sede in quegli stessi anni un’altra importante istituzione di alta formazione, specializzata nelle materie scientifiche applicative. Sulla scia della lezione cattaneana incentrata sul sapere produttivo, sul sapere utile all’economia, sul sapere teso al miglioramento delle vita sociale, la legge Casati, all’articolo 310, stabilì che a Milano fosse aperto un istituto tecnico superiore (il futuro Politecnico) per la formazione di ingegneri e architetti. Il regio decreto 13 novembre 1862 scendeva ancor più nel dettaglio, chiarendo che nell’istituto sarebbe stata attivata una Scuola d’applicazione per ingegneri meccanici e ingegneri agronomici. Il primo direttore fu il professor Francesco Brioschi, celebre patriota milanese che aveva partecipato alle Cinque Giornate di Milano. Negli anni Cinquanta Brioschi aveva tenuto gli insegnamenti di matematica applicata, idraulica e analisi superiore all’ateneo di Pavia. Nel 1851 si era recato all’estero in un viaggio di studio per conoscere la condizione di alcuni atenei, acquisendo una conoscenza approfondita del livello delle istituzioni scientifiche europee. Nominato direttore con decreto 12 febbraio 1863, Brioschi ebbe un ruolo fondamentale nel portare il Politecnico a livelli di eccellenza, il che fece di Milano una città leader nella formazione tecnico-industriale.

Occorre precisare che queste istituzioni di alta formazione, l’Accademia scientifico letteraria e l’Istituto tecnico superiore, ebbero sede nel palazzo di via Senato solo nei primi anni Sessanta dell’Ottocento. Già nell’anno accademico 1865-66 il Politecnico fu trasferito nel palazzo della canonica in piazza Cavour ove sarebbe rimasto fino al 1927. Lo stesso era avvenuto per l’Accademia.

Abbiamo accennato alla storia di queste istituzioni di alta formazione.  Delle due, quella destinata a maggior successo era certamente il Politecnico.

In una rassegna degli istituti d’istruzione esistenti a Milano nell’anno della Esposizione Nazionale del 1881, l’erudito Isaiah Ghiron scriveva a proposito dell’Istituto tecnico:

Apertosi nel 1863 coll’insegnamento della Meccanica razionale e industriale, della Geodesia, della Geologia e Mineralogia applicata, della Topografia, della Geometria descrittiva, della Fisica tecnologica, della Scienza delle costruzioni, della Chimica analitica dell’Idraulica e delle Costruzioni Idrauliche, dell’Agronomia e dell’Economia rurale, vi fu aggiunto nel 1865 quello di architettura e quindi la facoltà di conferire anche il diploma di architetto civile. Più tardi vi s’introdusse l’insegnamento di chimica tecnologica e di metallurgia e gli fu data la facoltà di concedere la laurea d’ingegnere industriale.

Il numero crescente degli alunni d’ogni parte d’Italia e gli uffici che occupano con onore gli allievi che ne sono usciti, rivelano tutta la valentia dei professori e la bontà dell’insegnamento di questo istituto”.

Diverso il commento a proposito dell’Accademia scientifico letteraria, la cui modesta attività era messa in relazione alla deprecata decadenza degli studi classici in una Milano ormai dominata dal clima positivista:

L’età nostra non corre favorevole agli studi classici, e Milano, che più delle altre città italiane rivolse il pensiero alle industrie, deve forse deplorarne maggiormente l’abbandono, desiderare più delle altre che non vadano perdute tutte le antiche tradizioni nazionali, e si conservi tra noi il culto di quelle discipline in cui essa fu maestra al mondo.