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Idee per una riforma: la regione metropolitana lombarda

Questo articolo è stato pubblicato su “Il Giorno” del 15/4/2021

Da una ricerca curata da Mario Abis per il Centro Studi Grande Milano sulle condizioni in cui vivono gli abitanti della città metropolitana milanese è emerso come il 60% della popolazione ritiene fondamentale per la ripresa economica una costruzione adeguata dell’ente “Città metropolitana”. E’ evidente che fino ad oggi tale istituzione non ha funzionato: ha sollevato unicamente conflitti tra i municipi. Mai come in questi tempi si rende necessario un intervento legislativo teso a migliorare tale comparto amministrativo.

Nel programma della “Città a 15 minuti” il Sindaco Sala intende garantire nei quartieri migliori servizi pubblici a cittadini che, cessata la pandemia, continueranno in più occasioni a lavorare da casa. Perché questo piano non si riduca a una visione localistica, occorre però un intervento coraggioso: la divisione della città nei suoi antichi comuni. Questi, assieme ai municipi della Città metropolitana, a quelli della provincia di Monza-Brianza, a quelli legati a Milano ma inclusi nelle province di Novara, Varese, Como, Lecco, Pavia, Bergamo, Brescia, Lodi, Cremona, dovranno formare una grande Regione metropolitana. Il Presidente di questo nuovo ente, eletto direttamente dai sette milioni di cittadini che vi abitano, dovrebbe risiedere a Palazzo Marino e dividere con i Sindaci dei municipi l’amministrazione nel campo delle infrastrutture, dei trasporti, dell’urbanistica, dei parchi, della viabilità.

La grande Milano non potrà che essere una Regione amministrativa, al cui interno vi sia un fitto reticolo di comuni integrati nella nuova istituzione. Altrimenti la “Città a 15 minuti” rischia di essere un’idea grettamente municipalista, un po’ come quei milanesi che – come scriveva Ludovico di Breme a Federico Confalonieri in una lettera del 16 maggio 1814 – non sapevano guardare oltre “il borgo degli Ortolani”. 

Capire chi siamo: online una Enciclopedia storica

Un’interessante iniziativa avviata dalla Società Storica Lombarda riguarda la compilazione della Enciclopedia delle famiglie lombarde: si tratta di una piattaforma informatica, già in parte accessibile in rete, i cui contenuti saranno accresciuti nei prossimi mesi. L’obiettivo – come ha ricordato Ottavio De Carli in un incontro organizzato il 22 novembre presso l’Archivio di Stato di Milano – è di mettere a disposizione del pubblico uno strumento di conoscenza storica rivolto non solo a specialisti, ma anche a persone appassionate di storia locale che desiderano disporre su Internet di una piattaforma d’immediata consultazione come avviene con Wikipedia; per quanto concerne la qualità dei contenuti disponibili, il modello sarà invece quello delle garzantine: il lavoro è gestito da una commissione scientifica di storici e specialisti: ricordo il direttore Stefano Levati (Università degli Studi di Milano), il coordinatore Ottavio De Carli, Fabrizio Alemani, Saverio Almini, Paolo Galimberti, Gabriele Medolago e Giovanni Necchi della Silva.

L’opera insisterà su un’area territoriale – la Lombardia – di dimensioni regionali o addirittura macroregionali a seconda del significato che si vorrà dare a questo termine: gli storici hanno infatti dimostrato che il nome “Lombardia” non si riferisce soltanto alla Regione attuale, la cui formazione risale alla fine del Settecento e ai primi anni dell’Ottocento. Occorre tener presente anche la “Lombardia storica”, l’antica area geografica ricordata da Montesquieu, estesa alla pianura padana centro-occidentale, comprendente parte del Piemonte, del Veneto e dell’Emilia Romagna. D’altra parte, non sarà fuori luogo ricordare che lo stesso Ducato di Milano in Età Moderna fu esteso fino ai primi del Settecento a territori che oggi fanno parte della Regione Piemonte: è il caso dell’alto e basso novarese, dell’alessandrino o del tortonese.

L’Enciclopedia è dedicata allo studio delle famiglie lombarde dal Medioevo all’età moderna e contemporanea. Ad essere analizzati, sulla base dei documenti conservati negli archivi pubblici e privati, saranno gli stili di vita, le abitudini, i ruoli politico istituzionali rivestiti dalle persone oggetto d’indagine.

Una parte importante di questo lavoro riguarderà le famiglie nobili, il cui studio consentirà di comprendere meglio la società d’antico regime focalizzando l’attenzione sulla vita del tempo, sulle relazioni e sul ruolo pubblico dei matrimoni tra famiglie di pari rango; matrimoni che portavano spesso all’accrescimento del patrimonio immobiliare e finanziario del casato.

Federico Confalonieri
Federico Confalonieri (1785-1846)

La storia delle famiglie nobili lombarde consentirà inoltre di cogliere – meglio di quanto si sia fatto finora – il significato di comportamenti e di istituzioni assai diffuse nell’Europa d’ancien régime; situazioni difficilmente comprensibili al giorno d’oggi nelle loro dinamiche interne. Del tutto emblematica, a tal proposito, la figura del “cavalier servente”. Come ha rilevato lo storico Roberto Bizzocchi nell’incontro citato sopra, un esame del carteggio tra il conte Federico Confalonieri e la moglie Teresa Casati, risalente ai primi anni dell’Ottocento, ha consentito di cogliere la crisi del “matrimonio a tre” tipico della società settecentesca; un matrimonio in cui la figura del “cavalier servente”, scelto dal marito affinché la moglie potesse frequentare i salotti culturali al di fuori delle mura domestiche, svolgeva un ruolo importante. L’amore di Teresa per il marito, evidente nelle lettere che gli scriveva, lasciava trasparire una sfera di affetti già compresa nell’amore romantico di coppia formatosi nel XIX secolo. A Federico, assente da Milano, impegnato in un viaggio politico-diplomatico in Francia e in Gran Bretagna, Teresa scriveva affermando di non voler frequentare i teatri milanesi assieme agli accompagnatori che lui stesso le aveva scelto per la vita in società. La donna sentiva fortemente la mancanza del marito, il che lasciava trasparire un forte legame sentimentale tra i due, un affetto di coppia che tendeva ad essere meno presente nella società aristocratica del Settecento.

Per capire la distanza di un tale legame di natura già romantica rispetto ai formali rapporti di coppia dell’antico regime è utile ricordare il ben più saldo “matrimonio a tre” che caratterizzò la relazione settecentesca tra Laura Cotta, il marito Antonio Greppi e il cavalier servente Stefano Lottinger scelto dal marito per accompagnare la donna in società. Diversamente dai Casati e dai Confalonieri, Greppi apparteneva a una famiglia borghese originaria della bergamasca specializzata nel commercio all’ingrosso di lana e tessuti. L’ascesa sociale della famiglia avvenne a metà Settecento, quando Antonio ricevette dal ministro plenipotenziario della Lombardia austriaca, Gian Luca Pallavicini, l’incarico di gestire con altri soci l’appalto di riscossione delle tasse per conto del governo (la Ferma generale). Arricchitosi considerevolmente grazie all’impegno profuso in questa attività, il Greppi si trasferì a Milano ove acquistò una casa in via Sant’Antonio (sestiere di Porta Romana) che fece ristrutturare e ingrandire perché acquisisse i caratteri di una residenza elegante e fastosa. Negli anni Settanta, grazie ai servigi prestati all’imperatrice Maria Teresa, ottenne la nobilitazione della sua famiglia. Dal matrimonio con Laura Cotta aveva avuto sei figli maschi.

Le lettere della donna al marito, impegnato in alcuni viaggi all’estero, mostravano il rapporto d’interesse e di socialità mondana che la univa al Lottinger, importante funzionario asburgico di origine lorenese che ricoprì uffici di rilievo nella Lombardia austriaca: consigliere del Supremo Consiglio di Economia, membro della Giunta interina incaricata di amministrare le finanze, membro della Camera dei conti, dal 1780 al 1796 fu intendente generale di finanza nella Lombardia austriaca. La frequentazione con il Lottinger consentiva alla nobildonna di avere notizie aggiornate sulla politica del governo asburgico nel settore delle finanze; una messe d’informazioni assai utile al marito per il ruolo che questi, assieme ad altri soci, aveva rivestito per molti anni (dal 1750 al 1770) nella gestione della Ferma e per l’ufficio di consigliere nella Camera dei Conti dal 1770 al 1779.

Un’altra riflessione importante sulla storia delle famiglie lombarde nei secoli dell’Età Medievale e Moderna investe la sfera dei sentimenti tra genitori e figli. L’elevata mortalità infantile unita all’alto tasso di natalità rendeva tenue il legame di affetto dei padri verso i piccoli; un sentimento che tendeva a privilegiare per lo più i maschi primogeniti, sui quali si appuntavano i progetti di discendenza e di trasmissione patrimoniale del casato. Non stupisce a tal proposito, come fa notare ancora Bizzocchi, che nel diario compilato da un nobile lucchese (appartenente alla famiglia Bracci Cambini) la notazione più struggente sia quella riguardante la morte di un figlio di pochi anni, mentre la scomparsa della sorellina sia ricordata in modo quasi anonimo.

L’Enciclopedia sarà anche dedicata allo studio di famiglie borghesi che, soprattutto negli ultimi secoli dell’Età Moderna, hanno contribuito alla crescita culturale ed economica della società lombarda. Le carte conservate negli archivi riguardano non solo uomini, ma anche donne che hanno reso grande Milano in campi di grande attualità quali la moda, il design, l’architettura. Come ha sottolineato la storica Maria Canella, l’opera di valorizzazione di queste “carte politecniche” consentirà di dare voce “a persone che la storiografia ha trascurato finora”.

Un altro terreno d’indagine sarà dedicato alla storia di famiglie i cui membri si distinsero nell’atletica agonistica tra Otto e Novecento.

L’Enciclopedia della Famiglie Lombarde è liberamente accessibile a questo indirizzo.

Confalonieri e le scuole di mutuo insegnamento

In un post pubblicato nel gennaio del 2015, ho preso in esame il mondo dell’associazionismo nella Milano dei primi anni della Restaurazione. Oggi desidero ricordare una interessante iniziativa, poco conosciuta, che il conte Federico Confalonieri  intraprese negli anni precedenti ai moti del 1820-21.

Nel campo dell’istruzione elementare, Confalonieri fondò una società il cui fine risiedeva nell’istituire in Lombardia le scuole di “mutuo insegnamento”, istituti già operanti a quei tempi in Stati europei quali l’Inghilterra, la Francia, l’Austria, la Toscana, il Regno di Napoli. In Lombardia l’insegnamento elementare obbligatorio – “normale” come si diceva a quei tempi – era stato introdotto fin dagli anni Ottanta del Settecento sotto il regno di Giuseppe II. Qual era pertanto la novità delle scuole che il patrizio milanese intendeva costituire in Lombardia?

mutuo-insegnamento-2Gli istituti di Confalonieri avrebbero seguito il metodo sperimentato in Inghilterra da Andrea Bell e Joseph Lancaster che consisteva nell’educare i bambini all’impegno nello studio assegnando come premio ai più meritevoli la responsabilità di insegnare agli alunni delle classi inferiori. Un metodo quindi ove la disciplina e l’obbedienza ai maestri era premiata con l’assegnazione di ruoli di responsabilità in campo didattico agli scolari più diligenti. Questo metodo presentava il vantaggio d’impiegare pochi maestri e di risparmiare le spese per la gestione dei corsi. La scuola cui pensava Confalonieri era una scuola cattolica che sembrava ispirata più ai metodi del cappellano Bell che a quelli aconfessionali del quacchero Lancaster. Alle scuole di mutuo insegnamento potevano essere iscritti gratuitamente bambini di un’età non inferiore ai sei anni, ai quali sarebbe stato insegnato a leggere, a scrivere e a svolgere le operazioni aritmetiche mediante l’ausilio di apposite tavole.

Per reperire i fondi con cui aprire queste scuole, Confalonieri ricorse principalmente all’aiuto delle famiglie nobili con cui aveva rapporti. I primi azionisti furono in tutto 31, che accettarono di versare 80 lire all’anno per quattro anni affinché la società potesse aprire i suoi istituti educativi. Molti di loro appartenevano alle famiglie dell’antica nobiltà ed erano amici di lunga data: ad esempio Luigi Porro Lambertenghi, Giulio Beccaria (figlio del famoso Cesare), Alessandro Visconti d’Aragona, Gian Battista Litta Modigliani. La prima scuola di mutuo insegnamento, riconosciuta dalle autorità, fu aperta a Milano l’11 marzo 1820 nell’oratorio di Santa Caterina, una cappella – oggi visitabile – interna alla chiesa di San Nazzaro, nel sestiere di Porta Romana.  Vi furono iscritti 300 alunni. In realtà, un’altra scuola era stata aperta fin dal primo ottobre 1818, quasi due anni prima, nell’antico monastero di Sant’Agostino in via Monte di Pietà nel sestiere di Porta Nuova, vicino alla casa di Confalonieri: gli iscritti erano 200. Il costo delle singole azioni, già alquanto ridotto se rapportato ad altre associazioni costituite dal patrizio milanese in quegli anni, venne abbassato nel regolamento del 1819 a 20 lire ciascuna. L’acquisto di un’azione conferiva il diritto d’iscrivere gratuitamente tre bambini.

I fondi così ottenuti consentirono di pagare i maestri, l’affitto dei locali, i materiali per l’insegnamento e , come scritto nel regolamento della Società “piccoli premi d’incoraggiamento mensili ed annuali da darsi a quegli allievi che colla loro condotta avranno meglio meritato”.

In quale modo sarebbe avvenuto concretamente l’esercizio dell’attività didattica? Scriveva Confalonieri:

Federico Confalonieri
Federico Confalonieri (1785-1846)

Gi allievi non potranno essere ammessi prima degli anni 6 compiti e dovranno presentarsi muniti dell’attestato di vaccinazione. Essi saranno ogni mese visitati nella scuola da un medico delegato a sopravvegliare alla salubrità del locale, allo stato di loro salute, ed a prevenire e a riparare a quegli inconvenienti cui possono essere specialmente esposte le numerose riunioni di fanciulli.

Le pene corporali d’ogni genere saranno escluse, ed i castighi s’aggireranno sul perno dell’emulazione che saggiamente e moderatamente impiegata forma la base principale del sistema.

Si daranno nella giornata circa cinque ore di insegnamento, diversamente distribuite secondo le varie stagioni. La preghiera precederà e chiuderà gli esercizi giornalieri, e la domenica sarà divisa tra gli atti della religione ed un’utile ricreazione propria a sollevare l’animo della gioventù ed a meglio prepararla al successivo studio.

Quantunque non abbiano queste scuole per iscopo l’addottrinamento religioso, pure essendo interessantissima cosa l’istillare nel cuore dei fanciulli coi primi elementi dell’istruzione i principi della religione e della morale, le tabelle che dovranno servire d’esempio per la scrittura, e di esercizio per la letteratura conterranno per lo più massime e precetti religiosi e morali, e per le classi più avanzate il catechismo e gli elementi della storia sacra e profana. Tutte queste tabelle stampate ed uniformi saranno sottoposte alla approvazione dell’autorità superiore.

[Società fondatrice delle scuole gratuite di mutuo insegnamento formatasi in Milano il 1° gennaio 1819 in F. Confalonieri, Memorie e lettere, a cura di Gabrio Casati, Milano Hoepli, 1889, vol.I., pp.277-279].

Il governo austriaco riconobbe inizialmente la bontà di queste scuole. L’autorizzazione arrivò con decreto del Viceré Ranieri del 13 marzo 1819. Altre scuole furono aperte in Lombardia. Quantunque le autorità avessero i mezzi per esercitare un ferreo controllo sui contenuti dell’insegnamento – come previsto dallo stesso Confalonieri nel regolamento che si è appena citato – le scuole di mutuo insegnamento furono chiuse pochi mesi dopo, fra l’autunno del 1820 e l’inverno del 1821. Le paure legate allo scoppio delle rivoluzioni liberali a Napoli e a Torino spinsero gradualmente i governi europei a cessare questo esperimento e a tornare al metodo tradizionale delle scuole “normali”: metodo fondato sul ruolo del maestro, unico titolare dell’attività didattica senza alcun coinvolgimento dei discenti. Scriveva sconsolato Confalonieri in una lettera all’amico Gino Capponi del 25 settembre 1820:

Le scuole di mutuo insegnamento furono tutte fulminate in Lombardia, meno le due nostre in Milano perché venturatamente sacramentate con superiore decreto nel loro nascere. Non è peraltro consentita la loro conservazione che fino alla completa attivazione del precellente (sic!) metodo austriaco.

[Dalla lettera di Federico Confalonieri all’amico fiorentino Gino Capponi, 25 settembre 1820, in F. Confalonieri, Memorie e lettere, a cura di Gabrio Casati, Milano Hoepli, 1889, vol.II., pag.92]

Alla scoperta del Borgo degli Ortolani

In una celebre lettera a Federico Confalonieri, scritta poche settimane dopo il tumulto del 20 aprile 1814 che portò alla feroce uccisione del ministro delle finanze Giuseppe Prina, lo scrittore piemontese Ludovico di Breme descriveva la cupa atmosfera che si respirava a Milano in quei giorni drammatici seguiti al crollo del Regno d’Italia napoleonico. (Se vuoi saperne di più, clicca qui). La Reggenza, l’istituzione subentrata al cessato governo italico, era composta in prevalenza da nobili lombardi che amministrarono la cosa pubblica seguendo una politica fieramente municipalista. Scriveva Di Breme:

Federico mio, nobilissimo amico, qui si è troppo municipali nel governare, e troppo anzi intemperanti e colossali nei desideri. Vorrebbero tutta l’Italia qui soggetta, e poi quando si viene a’ fatti, codesta Italia non s’estende quasi oltre il Borgo degli Ortolani.

[Ludovico Di Breme a Federico Confalonieri, Milano 16 maggio 1814 in L. Di Breme, Lettere, edizione a cura di Piero Camporesi, Torino, Einaudi 1966, pag.227].

L’espulsione di molti impiegati pubblici dai ministeri milanesi perché non originari dell’“antica austriaca Lombardia” fu uno dei provvedimenti più odiati e criticati di quel governo a forte trazione patrizio nobiliare: un governo che nel breve periodo della sua attività (20 aprile-25 maggio 1814) operò in netta discontinuità rispetto agli ideali nazionali che avevano animato il Regno d’Italia napoleonico.

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Napoleone incoronato re del Regno Italico con la corona ferrea (26 maggio 1805)

La Milano di Napoleone, la Milano capitale di uno Stato quasi nazionale esteso a una parte importante dell’Italia centro-settentrionale, sembrava distante anni luce dalla Milano municipalista “post-20 aprile” che faceva sdegnare Di Breme. Sotto Napoleone, tanti giovani provenienti da ogni parte d’Italia si erano conosciuti nella città ambrosiana e avevano lavorato assieme. Alcuni di loro si erano distinti come zelanti impiegati nei ministeri e negli uffici dello Stato.  La Milano di Napoleone era stata un cantiere di opere pubbliche: dall’Arena civica all’Arco del Sempione,  dal Foro Bonaparte concepito originariamente come quartiere sede dei ministeri dello Stato italico alla Caserma dei Veliti dietro Sant’Ambrogio, per arrivare fino ai lavori tesi all’apertura del Naviglio pavese  (ultimati sotto gli austriaci).

Dopo la rivolta del 20 aprile la situazione pareva mutata radicalmente. Di Breme stigmatizzava il municipalismo dei milanesi, evidente anche in politica estera. I nuovi governanti chiedevano alle potenze che avevano sconfitto Napoleone il riconoscimento internazionale di uno Stato lombardo ristretto nei suoi antichi confini regionali. Manie di grandezza animate da un amor di patria ambiguamente unito ad aneliti regionalisti che gli faceva esclamare, nella citata lettera al Confalonieri: “Codesta Italia non s’estende quasi oltre il Borgo degli Ortolani”.

 Cosa intendeva lo scrittore piemontese quando si riferiva al Borgo degli Ortolani?

Il Borgo degli Ortolani era un villaggio situato a Nord, fuori dalle mura ma quasi attaccato ad esse, nei Corpi Santi di Porta Comasina. Difficile delimitarne esattamente i confini. E’ però possibile individuarne l’estensione con un certo grado di attendibilità: il borgo comprendeva un territorio oggi compreso nel tratto tra via Canonica, piazza Gramsci, e via Piero della Francesca fino all’incrocio con via Cenisio nei pressi di piazza Firenze. Era un piccolo borgo rurale la cui strada principale si collegava a nord con la strada postale per Varese.

In un articolo scritto recentemente a proposito di via Muratori, ho insistito sul ruolo importante che quella zona fuori di Porta Romana ebbe quale via di transito. Possiamo dire che il Borgo degli Ortolani rivestiva una funzione analoga a nord della città: costituiva una via di accesso a Milano per chi proveniva dai territori del comasco e del varesotto.

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Il Borgo degli Ortolani in una carta di metà Ottocento

Questo però non basta a spiegare la curiosa metafora del Di Breme. Cosa lo spinse a pensare al Borgo degli Ortolani per stigmatizzare il municipalismo, il particolarismo, la chiusura dei milanesi nei confronti dei forestieri? In effetti, quantunque fosse una via di transito per tanti lombardi e svizzeri diretti verso Milano, il borgo degli Ortolani presentava una spiccata fisionomia, tale da farne un corpo a sé stante rispetto alla città e ai villaggi circostanti. Sul lungo corso che lo attraversava da Nord-Ovest a Sud-Est si affacciavano alcune case di contadini. I campi, bonificati dall’ordine religioso degli Umiliati fin dalla metà del XIII secolo, erano ricchi di orti e di frutteti. Si segnalava in particolar modo la produzione di cipolle, che rifornivano i mercati cittadini del sestiere di Porta Comasina: nei documenti il quartiere era spesso definito “Borg di Scigolatt” (borgo di produttori e venditori di cipolle). Un altro termine assai diffuso per identificare il borgo degli Ortolani era quello di “Borg di Goss”: borgo di gozzuti. Il Cherubini, nell’edizione del suo celebre “Dizionario Milanese Italiano” risalente al 1843, spiegava l’origine del soprannome facendo riferimento alle parti di animali che venivano lavorate nelle case del villaggio:

El Borg di goss noi chiamiamo…il borgo degli Ortolani che è attiguo alla nostra città da ovest/ovest-nord e ciò per le molte vesciche o gozzaie d’agnelli, castrati…che vi si sogliono conciare.

[L. Cherubini, Vocabolario milanese-italiano, Milano, Imperial Regia Stamperia, 1841, pag.249].

In quale periodo si passò dal Borgo degli Ortolani alle attuali vie Canonica e Piero della Francesca? Tale trasformazione avvenne in due tempi. Nel 1878, pochi anni dopo l’annessione a Milano del Comune di Corpi Santi (entro il quale era compreso il Borgo degli Ortolani), il quartiere venne inglobato nella città: la giunta Belizaghi diede al lungo corso il nome di via Luigi Canonica, richiamandosi alla vicina Arena che l’architetto svizzero aveva costruito nell’antica piazza d’armi (oggi parco Sempione) a pochi passi dalla Porta Tenaglia, vicino al borgo degli Ortolani. Il secondo tempo arrivò con il fascismo quando, in seguito all’urbanizzazione che aveva interessato l’isolato negli anni Venti del secolo scorso, fu deciso di spezzare la via in due tronconi: il primo da Piazza Firenze a Piazza Crespi (oggi piazza Gramsci) fu intitolato a Piero della Francesca, il resto della strada conservò il nome del celebre architetto napoleonico.

Il “caso Confalonieri” e alcune note sulla giustizia austriaca del primo ‘800

Se camminate per via Monte di Pietà partendo da via dei Giardini, vedrete sulla sinistra, al civico 14, il palazzo Confalonieri. Lo si riconosce per il colore giallognolo della facciata.  Qui, nei primi decenni dell’Ottocento, abitò il conte Federico con la moglie Teresa Casati. Sulla facciata dell’edificio una lapide ricorda il drammatico arresto del nobile milanese ad opera della polizia austriaca:

“IL CONTE FEDERICO CONFALONIERI CHE CON L’INDOMITA FORTEZZA D’ANIMO E CON LUNGO MARTIRIO DELLO SPIELBERG INSEGNO’ AI SUOI CONCITTADINI CON QUALI SACRIFICI E CON QUALI VIRTU’ SI PREPARANO MIGLIORI DESTINI ALLA PATRIA FU IN QUESTA CASA ARRESTATO LA NOTTE DEL 13 DICEMBRE DELL’ANNO 1821 IL COMUNE POSE”.

La lapide fa riferimento al lungo periodo di prigionia trascorso dal Confalonieri nella fortezza morava dello Spielberg (oggi situata nel comune ceco di Brno): qui il patrizio milanese fu recluso dal 1824 al 1835, anno della grazia concessagli dall’imperatore d’Austria Ferdinando I. Perché il Confalonieri fu arrestato? L’accusa era di alto tradimento per aver congiurato con alcuni patrioti allo scopo di sovvertire l’ordinamento politico vigente nel regno lombardo veneto, che era parte integrante dell’impero d’Austria.

Il Confalonieri era una della persone più in vista della società lombarda. Nel 1818, assieme all’amico Luigi Porro Lambertenghi che abitava nel palazzo di fronte (oggi al civico 15), aveva fondato la celebre rivista Il Conciliatore, un giornale di scienza, letteratura, politica, arte, che la censura fece chiudere ben presto per le idee liberali che vi venivano esposte.

La polizia austriaca non ebbe molta difficoltà a dimostrare, grazie ad alcuni interrogatori abilmente condotti, che il Confalonieri era coinvolto in un piano – ordito dall’associazione segreta dei Federati – teso a favorire la costituzione di un regno italiano indipendente esteso alla Lombardia e al Piemonte sabaudo.

Ma torniamo a quel 13 dicembre 1821, quando il commissario di polizia austriaco, assieme ad alcuni gendarmi, arrestò il patrizio milanese. Il conte Confalonieri ricordava nelle sue memorie di essere stato arrestato con l’imputazione di alto tradimento. Il nobile lombardo fu rinchiuso nelle carceri della polizia – che si trovavano nell’ex convento di Santa Margherita, nella via omonima (oggi scomparse) – tenuto in cella per quasi due anni fino alla sentenza di condanna a morte, spiccata nel novembre del 1823. Grazie alle suppliche rivolte all’imperatore d’Austria dai familiari e da molti esponenti della nobiltà lombarda, la condanna fu commutata nel gennaio del 1824 nel carcere duro a vita. Torneremo in chiusura di questo articolo sul significato della locuzione “carcere duro”.

Il capo d’imputazione era il delitto di alto tradimento, un reato – ricordava Confalonieri – formulato dal codice penale austriaco in termini tanto vaghi e generici da consentire allo Stato un ampio margine di discrezionalità nell’interpretazione e nell’applicabilità della norma ai casi concreti.

Si tratta, come si può facilmente comprendere, di critiche assai dure ed esplicite nei confronti dell’ordinamento imperiale austriaco. Qual era la situazione effettiva della giustizia asburgica nel regno lombardo veneto del primo Ottocento? Aveva ragione il Confalonieri e tanti altri patrioti, quali ad esempio Silvio Pellico (arrestato nell’ottobre 1820 in casa Porro e detenuto anch’egli allo Spielberg), a ritenere particolarmente duro il sistema giudiziario austriaco?

Francesco I di Asburgo Lorena
Francesco I imperatore d’Austria (1768-1835)

All’epoca in cui si verificò l’arresto di Confalonieri era in vigore il Codice dei delitti e delle gravi trasgressioni politiche. Emanato dall’imperatore Francesco I d’Austria nel 1815, entrato in vigore in Lombardia il primo gennaio 1816, esso si differenziava notevolmente da larga parte dei codici penali del Vecchio Continente che si rifanno al modello franco napoleonico. Se questi si fondano su un elenco di reati formulati in modo rigoroso e si concentrano sul tipo di reato commesso più che sul soggetto che lo commette, il codice austriaco era completamente diverso. Esso assumeva le caratteristiche di un trattato ove largo spazio era dato alla “soggettività”, vale a dire alla verifica della malvagità del presunto reo. Se il nostro codice penale riflette un impianto accusatorio in cui l’imputato ha diritto di difendersi in un processo orale valendosi di un avvocato, il codice austriaco del primo Ottocento aveva un impianto inquisitorio: il processo era scritto, segreto, teso ad ottenere la confessione dell’imputato mediante lo strumento della carcerazione preventiva. Spettava al giudice, che agiva in base a una procedura rigidamente formalizzata a tutela dell’imputato, verificare la “pravità d’intenzione”, ossia la malvagità del presunto reo. L’interrogatorio – definito “costituto” – era verbalizzato.

Nei tribunali di prima istanza il magistrato inquirente coincideva con il magistrato giudicante. Anzi, a voler essere più precisi, si può dire che nel giudice austriaco fossero concentrate tre funzioni. Egli era un po’ un giudice factotum. Nello svolgere le funzioni dell’accusa, il giudice di prima istanza impostava la causa: fase delicata e decisiva perché solo nel primo grado era consentito raccogliere le prove. Il giudice, attenendosi alle norme procedurali del codice, istruiva il processo seguendo un metodo rigoroso in cui, senza la confessione della persona arrestata, era molto difficile ottenere la prova legale della colpevolezza. Inoltre, affinché i diritti dell’imputato fossero salvaguardati, la corte era composta non già da un solo giudice, bensì da tre (tra i quali il giudice capo che istruiva il processo); a questi tre magistrati si aggiungevano due probiviri o assessori giudiziali a garanzia ulteriore dell’imputato. Ciascun membro del tribunale così composto aveva diritto a un voto e la sentenza era data in base alla regola della maggioranza. Se il tribunale di prima istanza rivestiva un ruolo primario nell’ordinamento austriaco, il tribunale di seconda istanza era chiamato solo a confermare o ad annullare la sentenza di primo grado. Tuttavia, se la sentenza fosse stata confermata, non era previsto il ricorso alla terza istanza – il Senato lombardo-veneto con sede a Verona – che interveniva unicamente in caso di disaccordo tra le sentenze di grado inferiore.

Confalonieri aveva torto quando sosteneva che il capo d’imputazione di alto tradimento fosse formulato dal codice penale austriaco in termini generici. Aveva ragione però quando sottolineava le numerose violazioni del codice compiute dal giudice di prima istanza, il trentino Antonio Salvotti. Inoltre, come ricordava il patrizio milanese nelle sue memorie, l’imperatore aveva nominato una commissione speciale per istruire il processo, sottraendo in tal modo gli imputati alla giustizia ordinaria. Tuttavia, la procedura a tutela dell’imputato restava quella fissata dal codice penale. Confalonieri, ricordando la sua vicenda a distanza di molti anni, denunciò le violazioni della legge commesse dal magistrato inquirente.

Ricordo che le pene previste dal codice penale austriaco del 1815 erano particolarmente dure, anche se passi in avanti erano stati compiuti rispetto alle normative precedenti. Oltre alla pena di morte, il codice austriaco prevedeva la reclusione del reo in un carcere che poteva essere a vita o a tempo determinato. In questi casi, vi erano tre tipi di condanne: carcere, carcere duro, carcere durissimo. Nella condanna al carcere, il detenuto era imprigionato senza i ferri, aveva diritto a un vitto normale con solo acqua come bevanda, poteva avere colloqui in presenza di un custode del carcere e in una lingua di sua conoscenza.

Il carcere duro prevedeva invece ferri ai piedi, cibo caldo con esclusione della carne, letto fatto di nude tavole, nessun colloquio eccetto quello con gli addetti alla custodia. Il carcere durissimo, convertito in carcere duro con risoluzione 10 gennaio 1833, obbligava il detenuto ad essere legato alla parete con ferri pesanti alle mani e ai piedi; aveva inoltre un cerchio di ferro attorno al corpo dal quale era liberato solo nei periodi di lavoro forzato. Il cibo era solo di pane e acqua. Vitto caldo senza carne ogni due giorni. Letto di nude tavole con esclusione di ogni colloquio.

Confalonieri fu condannato a scontare la pena del carcere duro nella fortezza dello Spielberg per nove anni. Tuttavia, nei mesi della carcerazione preventiva nelle prigioni di Santa Margherita, aveva già presentito quali fossero le condizioni che avrebbe dovuto sopportare nei lunghi anni di detenzione allo Spielberg.

Scriveva nelle sue Memorie ricordando i primi mesi di arresto nel periodo invernale:

Federico Confalonieri
Federico Confalonieri (1785-1846)

Io fui per due mesi nel verno tenuto espressamente in un carcere ove eravi un muro maestro ed il pavimento di fresco fatti; già malato com’era, ne contrassi un riattacco d’artrite che mi lasciò le membra lungamente rattratte, ed il destro braccio all’uso perduto. Trattamenti ancora più duri e prolungati furono da altri incontrati. Teneasi il prigioniero alle segrete quanto tempo piaceva, anche per tutto il processo. Io vi fui tenuto per un anno e tre mesi, infino alla prima chiusura del mio processo, poi rimessovi dopo la riapertura per gli otto ultimi mesi. Durante il processo, non vedeasi nessuno de’ parenti; non escivasi mai dal carcere né per prendere aria, né per fare moto; si era tenuto privo di mezzi da scrivere…visite sulla persona venivano impudentemente eseguite, e sovente dopo di esse erasi spogliato di tutto il necessario.

In realtà, come ammise lo stesso Confalonieri, la sentenza di condanna per la sua “immischianza nelle cose politiche” era inevitabile. Tuttavia, una conoscenza più approfondita del Codice penale austriaco gli avrebbe consentito di sfuggire facilmente alla condanna a morte, come era accaduto a Gian Domenico Romagnosi. Questi, fine giurista, profondo conoscitore delle leggi austriache, arrestato dalla polizia con l’accusa di non aver denunciato alle autorità i patrioti liberali Pellico, Maroncelli, Confalonieri con cui era in contatto, negando recisamente ogni collusione con le sette dei Carbonari e dei Federati, venne scarcerato per difetto di prove legali.