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Il “caso Confalonieri” e alcune note sulla giustizia austriaca del primo ‘800

Se camminate per via Monte di Pietà partendo da via dei Giardini, vedrete sulla sinistra, al civico 14, il palazzo Confalonieri. Lo si riconosce per il colore giallognolo della facciata.  Qui, nei primi decenni dell’Ottocento, abitò il conte Federico con la moglie Teresa Casati. Sulla facciata dell’edificio una lapide ricorda il drammatico arresto del nobile milanese ad opera della polizia austriaca:

“IL CONTE FEDERICO CONFALONIERI CHE CON L’INDOMITA FORTEZZA D’ANIMO E CON LUNGO MARTIRIO DELLO SPIELBERG INSEGNO’ AI SUOI CONCITTADINI CON QUALI SACRIFICI E CON QUALI VIRTU’ SI PREPARANO MIGLIORI DESTINI ALLA PATRIA FU IN QUESTA CASA ARRESTATO LA NOTTE DEL 13 DICEMBRE DELL’ANNO 1821 IL COMUNE POSE”.

La lapide fa riferimento al lungo periodo di prigionia trascorso dal Confalonieri nella fortezza morava dello Spielberg (oggi situata nel comune ceco di Brno): qui il patrizio milanese fu recluso dal 1824 al 1835, anno della grazia concessagli dall’imperatore d’Austria Ferdinando I. Perché il Confalonieri fu arrestato? L’accusa era di alto tradimento per aver congiurato con alcuni patrioti allo scopo di sovvertire l’ordinamento politico vigente nel regno lombardo veneto, che era parte integrante dell’impero d’Austria.

Il Confalonieri era una della persone più in vista della società lombarda. Nel 1818, assieme all’amico Luigi Porro Lambertenghi che abitava nel palazzo di fronte (oggi al civico 15), aveva fondato la celebre rivista Il Conciliatore, un giornale di scienza, letteratura, politica, arte, che la censura fece chiudere ben presto per le idee liberali che vi venivano esposte.

La polizia austriaca non ebbe molta difficoltà a dimostrare, grazie ad alcuni interrogatori abilmente condotti, che il Confalonieri era coinvolto in un piano – ordito dall’associazione segreta dei Federati – teso a favorire la costituzione di un regno italiano indipendente esteso alla Lombardia e al Piemonte sabaudo.

Ma torniamo a quel 13 dicembre 1821, quando il commissario di polizia austriaco, assieme ad alcuni gendarmi, arrestò il patrizio milanese. Il conte Confalonieri ricordava nelle sue memorie di essere stato arrestato con l’imputazione di alto tradimento. Il nobile lombardo fu rinchiuso nelle carceri della polizia – che si trovavano nell’ex convento di Santa Margherita, nella via omonima (oggi scomparse) – tenuto in cella per quasi due anni fino alla sentenza di condanna a morte, spiccata nel novembre del 1823. Grazie alle suppliche rivolte all’imperatore d’Austria dai familiari e da molti esponenti della nobiltà lombarda, la condanna fu commutata nel gennaio del 1824 nel carcere duro a vita. Torneremo in chiusura di questo articolo sul significato della locuzione “carcere duro”.

Il capo d’imputazione era il delitto di alto tradimento, un reato – ricordava Confalonieri – formulato dal codice penale austriaco in termini tanto vaghi e generici da consentire allo Stato un ampio margine di discrezionalità nell’interpretazione e nell’applicabilità della norma ai casi concreti.

Si tratta, come si può facilmente comprendere, di critiche assai dure ed esplicite nei confronti dell’ordinamento imperiale austriaco. Qual era la situazione effettiva della giustizia asburgica nel regno lombardo veneto del primo Ottocento? Aveva ragione il Confalonieri e tanti altri patrioti, quali ad esempio Silvio Pellico (arrestato nell’ottobre 1820 in casa Porro e detenuto anch’egli allo Spielberg), a ritenere particolarmente duro il sistema giudiziario austriaco?

Francesco I di Asburgo Lorena
Francesco I imperatore d’Austria (1768-1835)

All’epoca in cui si verificò l’arresto di Confalonieri era in vigore il Codice dei delitti e delle gravi trasgressioni politiche. Emanato dall’imperatore Francesco I d’Austria nel 1815, entrato in vigore in Lombardia il primo gennaio 1816, esso si differenziava notevolmente da larga parte dei codici penali del Vecchio Continente che si rifanno al modello franco napoleonico. Se questi si fondano su un elenco di reati formulati in modo rigoroso e si concentrano sul tipo di reato commesso più che sul soggetto che lo commette, il codice austriaco era completamente diverso. Esso assumeva le caratteristiche di un trattato ove largo spazio era dato alla “soggettività”, vale a dire alla verifica della malvagità del presunto reo. Se il nostro codice penale riflette un impianto accusatorio in cui l’imputato ha diritto di difendersi in un processo orale valendosi di un avvocato, il codice austriaco del primo Ottocento aveva un impianto inquisitorio: il processo era scritto, segreto, teso ad ottenere la confessione dell’imputato mediante lo strumento della carcerazione preventiva. Spettava al giudice, che agiva in base a una procedura rigidamente formalizzata a tutela dell’imputato, verificare la “pravità d’intenzione”, ossia la malvagità del presunto reo. L’interrogatorio – definito “costituto” – era verbalizzato.

Nei tribunali di prima istanza il magistrato inquirente coincideva con il magistrato giudicante. Anzi, a voler essere più precisi, si può dire che nel giudice austriaco fossero concentrate tre funzioni. Egli era un po’ un giudice factotum. Nello svolgere le funzioni dell’accusa, il giudice di prima istanza impostava la causa: fase delicata e decisiva perché solo nel primo grado era consentito raccogliere le prove. Il giudice, attenendosi alle norme procedurali del codice, istruiva il processo seguendo un metodo rigoroso in cui, senza la confessione della persona arrestata, era molto difficile ottenere la prova legale della colpevolezza. Inoltre, affinché i diritti dell’imputato fossero salvaguardati, la corte era composta non già da un solo giudice, bensì da tre (tra i quali il giudice capo che istruiva il processo); a questi tre magistrati si aggiungevano due probiviri o assessori giudiziali a garanzia ulteriore dell’imputato. Ciascun membro del tribunale così composto aveva diritto a un voto e la sentenza era data in base alla regola della maggioranza. Se il tribunale di prima istanza rivestiva un ruolo primario nell’ordinamento austriaco, il tribunale di seconda istanza era chiamato solo a confermare o ad annullare la sentenza di primo grado. Tuttavia, se la sentenza fosse stata confermata, non era previsto il ricorso alla terza istanza – il Senato lombardo-veneto con sede a Verona – che interveniva unicamente in caso di disaccordo tra le sentenze di grado inferiore.

Confalonieri aveva torto quando sosteneva che il capo d’imputazione di alto tradimento fosse formulato dal codice penale austriaco in termini generici. Aveva ragione però quando sottolineava le numerose violazioni del codice compiute dal giudice di prima istanza, il trentino Antonio Salvotti. Inoltre, come ricordava il patrizio milanese nelle sue memorie, l’imperatore aveva nominato una commissione speciale per istruire il processo, sottraendo in tal modo gli imputati alla giustizia ordinaria. Tuttavia, la procedura a tutela dell’imputato restava quella fissata dal codice penale. Confalonieri, ricordando la sua vicenda a distanza di molti anni, denunciò le violazioni della legge commesse dal magistrato inquirente.

Ricordo che le pene previste dal codice penale austriaco del 1815 erano particolarmente dure, anche se passi in avanti erano stati compiuti rispetto alle normative precedenti. Oltre alla pena di morte, il codice austriaco prevedeva la reclusione del reo in un carcere che poteva essere a vita o a tempo determinato. In questi casi, vi erano tre tipi di condanne: carcere, carcere duro, carcere durissimo. Nella condanna al carcere, il detenuto era imprigionato senza i ferri, aveva diritto a un vitto normale con solo acqua come bevanda, poteva avere colloqui in presenza di un custode del carcere e in una lingua di sua conoscenza.

Il carcere duro prevedeva invece ferri ai piedi, cibo caldo con esclusione della carne, letto fatto di nude tavole, nessun colloquio eccetto quello con gli addetti alla custodia. Il carcere durissimo, convertito in carcere duro con risoluzione 10 gennaio 1833, obbligava il detenuto ad essere legato alla parete con ferri pesanti alle mani e ai piedi; aveva inoltre un cerchio di ferro attorno al corpo dal quale era liberato solo nei periodi di lavoro forzato. Il cibo era solo di pane e acqua. Vitto caldo senza carne ogni due giorni. Letto di nude tavole con esclusione di ogni colloquio.

Confalonieri fu condannato a scontare la pena del carcere duro nella fortezza dello Spielberg per nove anni. Tuttavia, nei mesi della carcerazione preventiva nelle prigioni di Santa Margherita, aveva già presentito quali fossero le condizioni che avrebbe dovuto sopportare nei lunghi anni di detenzione allo Spielberg.

Scriveva nelle sue Memorie ricordando i primi mesi di arresto nel periodo invernale:

Federico Confalonieri
Federico Confalonieri (1785-1846)

Io fui per due mesi nel verno tenuto espressamente in un carcere ove eravi un muro maestro ed il pavimento di fresco fatti; già malato com’era, ne contrassi un riattacco d’artrite che mi lasciò le membra lungamente rattratte, ed il destro braccio all’uso perduto. Trattamenti ancora più duri e prolungati furono da altri incontrati. Teneasi il prigioniero alle segrete quanto tempo piaceva, anche per tutto il processo. Io vi fui tenuto per un anno e tre mesi, infino alla prima chiusura del mio processo, poi rimessovi dopo la riapertura per gli otto ultimi mesi. Durante il processo, non vedeasi nessuno de’ parenti; non escivasi mai dal carcere né per prendere aria, né per fare moto; si era tenuto privo di mezzi da scrivere…visite sulla persona venivano impudentemente eseguite, e sovente dopo di esse erasi spogliato di tutto il necessario.

In realtà, come ammise lo stesso Confalonieri, la sentenza di condanna per la sua “immischianza nelle cose politiche” era inevitabile. Tuttavia, una conoscenza più approfondita del Codice penale austriaco gli avrebbe consentito di sfuggire facilmente alla condanna a morte, come era accaduto a Gian Domenico Romagnosi. Questi, fine giurista, profondo conoscitore delle leggi austriache, arrestato dalla polizia con l’accusa di non aver denunciato alle autorità i patrioti liberali Pellico, Maroncelli, Confalonieri con cui era in contatto, negando recisamente ogni collusione con le sette dei Carbonari e dei Federati, venne scarcerato per difetto di prove legali.

Due associazioni d’élite nella Milano della Restaurazione

Nell’articolo precedente abbiamo visto come nella Milano di fine Ottocento il fenomeno delle associazioni avesse assunto una dimensione ragguardevole grazie alla libertà di riunione garantita dallo Statuto Albertino. Abbiamo anche notato come quelle associazioni fossero in larga parte una realtà borghese o piccolo borghese.

Ingresso di Francesco I nel 1825 da Porta Orientale
Ingresso dell’imperatore d’Austria Francesco I da Porta Orientale, 1825. Fonte: Wikipedia.

La situazione era completamente diversa nella Milano della Restaurazione, quando la città a partire dal maggio 1814 tornò sotto il dominio dell’impero asburgico. Non dobbiamo pensare che l’Austria avesse soffocato d’improvviso lo spirito associativo lombardo. Esso giaceva in uno stato di “mortale languore” già negli anni della repubblica italiana e del regno d’Italia napoleonico (1802-1814) quando lo Stato, retto su una Costituzione autoritaria, aveva sottoposto a rigida tutela il mondo delle società. Difatti, il decreto 130 emanato il 27 dicembre 1802 dal ministro dell’interno vincolava all’autorizzazione del governo qualsiasi tipo di associazione: ottenere il permesso non era semplice giacché occorreva trasmettere allo Stato “il piano dell’associazione colla specificazione degli oggetti e regolamenti rispettivi”. Il decreto stabiliva poi che un “delegato di polizia” avrebbe avuto accesso alle riunioni affinché le autorità potessero sorvegliare l’attività del sodalizio. Ho citato il decreto del 1802 perché esso regolò il mondo delle associazioni milanesi sostanzialmente fino all’Unità d’Italia. L’Austria non apportò cambiamenti. Si limitò a confermare il dettato della normativa esistente. Nulla di cui stupirci: l’impero asburgico era una monarchia il cui regime autoritario era pari a quello napoleonico, sia pure mitigato da alcuni istituti di autogoverno comunale e di rappresentanza corporativa che il Sovrano aveva graziosamente concesso al Lombardo Veneto.

Ma quante erano le associazioni nella Milano della Restaurazione, negli anni immediatamente seguenti alla caduta di Napoleone (1815-1821)? Assai poche. Basterebbero le dita di una mano per contarle tutte. Esse interessavano una ristretta élite composta di aristocratici e di personalità appartenenti all’alta borghesia cittadina. Ci soffermeremo sulle due più importanti, il Casino dei Nobili e la Società del Giardino.

Palazzo Talenti Fiorenza in via Verdi 6
Palazzo Talenti Fiorenza in via Verdi 6  da www.lombardiabeniculturali.it

Il Casino dei Nobili si trovava nel palazzo Talenti Fiorenza nella contrada di San Giuseppe al civico 1602 (oggi via Verdi 6), a due passi dal Teatro alla Scala. Sorto nel 1800, il sodalizio nasceva per riunire la nobiltà in un luogo esclusivo di ricreazione. Il che lascerebbe presupporre che l’unica condizione per farvi parte fosse la nobiltà di sangue. In realtà le cose non stavano esattamente così. Difatti per accedervi occorreva disporre dell’Hofzutritt, vale a dire dell’accesso alla corte imperiale. Non tutti i nobili potevano godere di questo privilegio. V’era poi un altro requisito: le persone di sangue blu dovevano disporre di un notevole patrimonio per pagare le quote associative, piuttosto alte. Se il richiedente non era in grado di pagare, non era ammesso. Si trattava di un criterio censitario che, a ben vedere, non aveva nulla da spartire con le logiche corporative della società d’ancien régime: logiche in base alle quali un individuo non contava per la sua ricchezza o per la capacità di produrre beni materiali, ma godeva dei diritti legati alla funzione che il suo ceto di appartenenza rivestiva nella società. La Rivoluzione francese aveva segnato il crollo di quel mondo e, nonostante le apparenze, i nobili che avevano aderito al Casino mostrarono di accettare il nuovo principio della società civile a matrice individualistica. Dando vita a questa società sul modello della società per azioni, essi accolsero la logica – tutta borghese – del diritto a godere di un servizio per il quale una persona, agendo di sua libera iniziativa, aveva scelto di pagare versando una quota in denaro.

Palazzo Spinola, Sala d'Oro
Palazzo Spinola in via San Paolo 10, Sala d’Oro.

Diversamente dai nobili, il cui casino si era eclissato già negli anni Cinquanta dell’Ottocento, la Società del Giardino esiste ancora oggi. Si tratta del sodalizio più antico di Milano, la cui fondazione risale agli anni Ottanta del XVIII secolo. A farne parte erano i più alti esponenti della borghesia del commercio e delle professioni. Nel periodo che ci interessa esso attraversava una stagione di splendore: l’acquisto nel 1818 del palazzo Spinola in contrada San Paolo al civico 935 (oggi via San Paolo 10) conferì alla Società del Giardino una certa fama. Vi si tenevano riunioni culturali, ma anche concerti alla presenza di star dell’epoca quali Giuseppina Grassini e Giuditta Pasta. Anche in questo caso si trattava però di una società d’élite. Ce lo indicano le elevate quote di associazione.

In una città popolata da 120.000 abitanti, il fenomeno associativo riguardava alcune centinaia di persone, pari allo 0,5% dei milanesi. Qualcuno potrebbe chiedersi cosa spingesse questi ricchi esponenti del notabilato a riunirsi in tali società. Era così importante ritrovarsi in un locale per giocare a biliardo, fumare sigari, assistere a lezioni di cultura, ascoltare la voce di cantanti famose oppure questi tranquilli sodalizi nascondevano una finalità politica? La domanda non è affatto fuori luogo perché in Inghilterra e in Germania molte associazioni di questo tipo preoccupavano le autorità per le attività cospirative che vi si conducevano.

Tranquilli: nulla di cui preoccuparsi per i sodalizi milanesi, sorti – sembrerebbe di poter dire – con il solo obiettivo di passare il tempo in allegria. Ce lo assicura un funzionario della polizia austriaca, Anton Raab,in una relazione al governatore della Lombardia Franz Saurau risalente al 1817:

“I casini italiani sono cose diverse dai circoli tedeschi o inglesi, che sono in realtà riunioni politiche, pericolose e tumultuose. In Italia non è d’uso ricevere in casa la sera in grande stile, né esiste una socialità familiare allargata. Per questo vengono istituiti i casini; per divertirsi la sera senza vincoli. Nei casini si scherza, si gioca, talvolta si fuma, e ci si intrattiene come meglio si crede. I casini sono luoghi d’espressione della voglia di scherzare, così tipica del carattere degli italiani”.