Archivi categoria: Storia di Milano

Le radici storiche dell’alta moda a Milano

Quali sono le radici del Made in Italy nel comparto dell’alta moda? E’ facile risalire agli Ottanta/Novanta del Novecento, quando Milano, divenuta sede di importanti brand del lusso quali Gucci, Armani, Prada, Zegna, Dolce&Gabbana, acquisì il ruolo invidiato di capitale italiana della moda e del design.

Eppure, a ben vedere, la lente dello storico induce a risalire indietro nel tempo perché ci sono ragioni più profonde che spiegano per quale motivo Milano sia divenuta capitale del Made in Italy. Nel basso Medioevo, più precisamente all’epoca della signoria dei Visconti e degli Sforza, tra il XIV e il XV secolo, possiamo collocare gli esordi e il definitivo affermarsi dell’industria artigianale del lusso nell’abbigliamento e negli arredi. Certo, a quei tempi, la moda obbediva a finalità diverse, più legate a ragioni di rappresentanza politica. Oggi un imprenditore che lavora nell’abbigliamento orienta le sue produzioni in base a una clientela le cui scelte sono dettate da logiche tendenzialmente “private”: il cliente che acquista un capo di abbigliamento lo fa non solo per rispondere ai suoi gusti; in una società fatta da persone che non conosce – il dato è essenziale – desidera comunicare un messaggio, intende fare del vestito lo specchio in cui appaiono le sue qualità. L’abito diviene insomma un biglietto da visita.

Fante di coppe dal mazzo di tarocchi Brambilla, 1442-1444 ca. Tempera e foglia doro su cartoncino pressato.
Fante di coppe dal mazzo di tarocchi Brambilla, 1442-1444 ca. Tempera e foglia d’oro su cartoncino pressato.

Nel Medioevo la situazione era diversa, ma anche allora ci si vestiva per comunicare, per presentarsi in società secondo un codice di costumi fondato sulle apparenze. La clientela rispondeva a logiche di comunicazione politica legate al ceto di appartenenza. La società di oggi è costituita da cittadini privati ed eguali, liberi di agire nel rispetto delle leggi statali. In fondo, siamo ancora figli della rivoluzione francese. Nel Medioevo non esistevano cittadini in questo senso. I diritti e i doveri di ciascuno erano legati al ceto di appartenenza. Si capisce quindi come l’abbigliamento fosse un codice distintivo di fondamentale importanza, perché consentiva a una società corporativa come quella medievale di riconoscere le persone dall’abito che portavano.

La corte dei duchi di Milano costituisce un esempio emblematico. Il segno più distintivo dell’alta moda fu la produzione dei tessuti auroserici, un tipo di lavorazione che, affermatosi a Milano nel corso del Quattrocento, raggiunse livelli di eccellenza per tutto il secolo seguente. In effetti il ducato visconteo-sforzesco poteva contare su tecniche consolidate di tessitura e tintura che riguardavano capi come i fustagni o la lana.

IMG_5842
Frammento di velluto, broccato e bouclé in oro. Tessitura milanese risalente al 1460-1475 ca

La produzione dei tessuti auroserici era qualcosa di molto diverso. Si trattava di una lavorazione di altissima qualità che, alla fine del Trecento, era presente in alcuni Stati italiani (repubblica di Genova, repubblica di Firenze, repubblica di Venezia, repubblica di Lucca) che per ricchezza potevano permettersi la produzione e il commercio di questi manufatti. In cosa consisteva tale lavorazione? Ad essere tessuti erano articoli quali lampassi e damaschi, broccati d’oro e d’argento, velluti sul cui pelo di seta venivano incisi disegni araldici. Le fasi della lavorazione e del commercio del prodotto erano gestite interamente da una persona che potremmo definire “mercante imprenditore”. Questi acquistava anzitutto la materia prima. La seta proveniva dalla Spagna meridionale; la cocciniglia – il prezioso colorante rosso prodotto in Polonia o in Armenia – o l’indaco di Baghdad  – il miglior colorante azzurro per la seta – erano acquistati nei mercati sulle sponde del Mar Nero, alcuni fatti arrivare mediante il trasporto su chiatte lungo il Danubio; i lingotti d’oro e d’argento giungevano invece dalle miniere del Nord Europa. Il processo di lavorazione avveniva in due stadi. Nel primo il mercante forniva le materie prime agli artigiani. Una particolare fase di lavoro era ad esempio quella del battiloro: consisteva nel ridurre il singolo pezzo d’oro in lamine finissime che venivano poi tagliate con apposite forbici e inserite nel tessuto di seta dalle “filaoro”, maestranze femminili specializzate. Nel secondo stadio il mercante ritirava la stoffa lavorata e la portava nell’“apotheca”, ove il maestro tessitore, sulla base del disegno che gli veniva fornito, procedeva alla complessa tessitura del prodotto: tale lavoro poteva richiedere fino a tre settimane per la consegna dell’articolo finito. Il capo d’abbigliamento o l’articolo di arredamento veniva quindi venduto dal mercante alla corte ducale, alle ricche famiglie della nobiltà, ma anche a numerosi borghesi arricchitisi in questo settore.

filippomaria_small
Filippo Maria Visconti, duca di Milano dal 1412 al 1447

Come fu possibile la nascita di quest’arte nel ducato di Milano? Nulla nasce per caso. Tale lavorazione venne introdotta in città per volontà del duca Filippo Maria Visconti. Gli Sforza poi incrementarono l’industria auroserica. I duchi praticarono una politica di “apertura all’esterno” creando le condizioni per fare arrivare a Milano i migliori artigiani e le macchine più importanti che servivano alla lavorazione. Negli anni di Filippo Maria Visconti (1412-1447) e di Francesco Sforza (1450-1466) vennero chiamate a lavorare a Milano le migliori maestranze tessili provenienti da Genova, da Venezia, da Firenze, da Lucca. Questi artigiani insegnarono la lavorazione auroserica alle famiglie dell’aristocrazia mercantile lombarda, tanto desiderose di apprendere i segreti dell’arte quanto decise ad arricchirsi mediante l’innovazione e il commercio dei prodotti. In secondo luogo, questi maestri poterono lavorare in libertà: la loro attività non venne impedita, rallentata, ostacolata dagli Statuti delle corporazioni cittadine e non esistevano neppure leggi suntuarie che limitavano il commercio. Una situazione di assenza di vincoli che durò fino al 1461. Tuttavia, val la pena ricordare che anche dopo quella data, le norme sul lusso furono abbastanza elastiche, rendendo possibile la produzione e il commercio di articoli di alta moda.

L’aristocrazia mercantile milanese investì ingenti risorse finanziarie nella produzione di tali manufatti auroserici, curandone lo smercio nei mercati internazionali.  Mandò inoltre i suoi figli ad imparare l’arte nelle botteghe dei migliori tessitori toscani e genovesi immigrati a Milano. In alcuni casi si andò anche oltre. Del tutto indicative in proposito le strategie matrimoniali messe in campo dal consigliere ducale Oldrado Lampugnani, che nel primo Quattrocento fece sposare una delle sue figlie con il tessitore fiorentino Pietro di Bartolo.

Quali insegnamenti possiamo ricavare da questa storia? Anzitutto che l’ipertrofia legislativa, la presenza di vincoli burocratici soffoca qualunque impresa. Nel ducato di Milano l’industria auroserica rimase un comparto di eccellenza nel campo dell’alta moda per tutto il Cinquecento proprio per l’assenza di vincoli particolarmente stringenti nel comparto del lusso. Nel Seicento la crisi economica provocata dalle guerre, dalle carestie e dalle pestilenze impoverì la borghesia milanese, segnando una netta separazione tra il ricco patriziato cittadino e una popolazione in gran parte ridotta in povertà. Eppure, anche allora, nonostante tali difficoltà, la nobiltà cittadina – cui competeva la disciplina normativa sul lusso – emanò poche disposizioni in materia. Tra il XVI e il XVIII secolo nel ducato di Milano vennero emanate solo otto normative suntuarie: un numero esiguo se rapportato alle ventuno leggi vigenti in materia nel granducato di Toscana o alle ottanta o poco più nella repubblica di Venezia. Inoltre, diversamente da altri Stati europei, le normative milanesi si caratterizzarono in molti casi per la mancanza di pene severe contro i trasgressori. Segno che i governanti, costretti a legiferare per ragioni di ordine politico e religioso, lo fecero con l’intenzione di limitare il più possibile i danni all’industria milanese.

I Corpi Santi: porto franco di Milano

I Corpi Santi di Milano sono un antico comune, oggi scomparso, poco conosciuto ai milanesi. Annessi a Milano nel 1873, presentavano una conformazione a dir poco originale. Il territorio confinante con la città circondava i bastioni spagnoli come un grande anello. Verso la campagna i Corpi Santi si estendevano in alcuni punti per svariati chilometri, in altri si riducevano a una ristretta fascia di territorio.

Ma cosa vuol dire il termine “Corpi Santi” e quando furono costituiti in Comune? L’origine è incerta. Alcuni ritengono che il termine rinviasse all’uso di seppellire i primi martiri cristiani fuori dalle mura cittadine, altri si richiamano ad antiche processioni religiose che si svolgevano intorno alla città.

IMG_2182
Milano con il territorio dei Corpi Santi annessi nel 1873

Nei secoli del Medioevo e dell’Età Moderna il territorio era soggetto a Milano. Difatti i Corpi Santi traevano la denominazione dalla Porta su cui gravitavano. I Corpi Santi di Porta Orientale, partendo dalla zona Buenos Aires, si spingevano verso la campagna fino a comprendere la cascina Monlué (oggi a pochi metri dalla tangenziale est) e la cascina delle Rottole (primo tratto di via Palmanova all’incrocio con via Tolmezzo). Nei Corpi Santi di Porta Romana, che comprendevano Porta Vigentina, era incluso quello che oggi è Corso Lodi fin quasi a Corvetto; fuori Porta Vigentina la loro estensione si riduceva a meno di due chilometri dalle mura di Milano, confinando con il Vigentino pressappoco all’incrocio di via Ripamonti con la Vettabbia, tra via Serio e via Rutilia. I Corpi Santi di Porta Ticinese (con Porta Lodovica) si estendevano nel contado per più di sette chilometri: oltre alla Darsena di Porta Ticinese – punto di arrivo delle barche provenienti da Pavia, dal Lago Maggiore, dal naviglio interno di Milano – comprendevano Ronchetto delle Rane (zona via dei Missaglia) e, lungo il naviglio grande, San Cristoforo, arrivando quasi alle porte di Corsico. I Corpi Santi di Porta Vercellina si espandevano a macchia d’olio lungo Corso Vercelli, la zona Fiera, San Siro. I Corpi Santi di Porta Comasina gravitavano sui quartieri di via Bramante e Paolo Sarpi: includevano il territorio dove oggi si trova il Cimitero Monumentale, il Borgo degli Ortolani (oggi via Luigi Canonica) e, verso Nord, i quartieri Ghisolfa, Bovisa e Fontana fino a confinare con il comune di Niguarda. I Corpi Santi di Porta Nuova erano limitati sostanzialmente alla zona tra piazza della Repubblica e la Stazione Centrale.

L’unione dei sei Corpi Santi in un solo comune venne realizzata dall’imperatore Giuseppe II di Asburgo-Lorena con dispaccio del 21 maggio 1781.

Il territorio era costituito in gran parte da campi e ortaglie. Alla fine del Settecento i maggiori proprietari erano gli enti religiosi milanesi e i nobili che abitavano in città: l’abbazia di San Vittore al Corpo nel sestiere di Porta Vercellina, il Venerando Luogo Pio di Santa Corona in piazza San Sepolcro vicino alla Biblioteca Ambrosiana; il marchese Pompeo Litta Visconti Arese, il cui fastoso palazzo in corso Magenta – una parte dell’edificio è oggi sede del Teatro Litta – era il simbolo della sua immensa ricchezza; il marchese Egidio Orsini di Roma, anche lui abitante in una stupenda dimora in via Borgonuovo, oggi sede di rappresentanza della ditta Armani (via Borgonuovo 11).

Carlo Cattaneo
Carlo Cattaneo

Nel corso dell’Ottocento la popolazione del suburbio si accrebbe a un ritmo nettamente superiore rispetto alla città: dai 16.000 abitanti stimati nei primi anni Ottanta del XVIII secolo, si passò nel corso dell’Ottocento ai 28.635 abitanti (dati  del 1834) per oltrepassare ampiamente i 45.000 cittadini negli anni a cavallo dell’Unità italiana (1859-61). All’aumento della popolazione seguì un incremento delle attività industriali. Difatti i Corpi Santi erano divenuti – come scriveva Carlo Cattaneo – il “porto franco” della città: luogo privilegiato per il commercio e per l’industria ove l’attività imprenditoriale era favorita dall’assenza dei dazi su alcune merci importanti. Presso i caselli di ciascuna delle sei porte cittadine si trovavano le pese pubbliche ove i funzionari dello Stato stabilivano il dazio da applicare sui prodotti che entravano in città. Per questo motivo, il costo della vita in quello che è oggi il centro di Milano (zona 1) era più alto rispetto al suburbio. Una difformità che Cattaneo così descriveva in una bella lettera alla rivista “Il Diritto” risalente al 4 settembre 1863:

Valse alla popolazione suburbana il solo e semplice fatto d’essere rimasta fuori dalla cerchia daziaria; cioè d’aver avuto in sorte, oltre al contatto d’una capitale, un grado di agevolezza nei viveri e di libero traffico che Milano non aveva. Il suburbio era il porto franco della città. Era congiunto alla libera campagna come un porto franco è congiunto al libero mare.

Nel territorio dei Corpi Santi si erano stabilite molte industrie, che avevano approfittato di una politica fiscale favorevole fin dal 1817. Quando Cattaneo scriveva al “Diritto”, le imprese erano numerose: ricordiamo ad esempio le Officine Meccaniche di Girolamo Miani (specializzate nella produzione di carrozze, vagoni e locomotive) che occupavano l’area situata ad ovest dell’Esselunga di via Ripamonti, tra via Pompeo Leoni e via Carlo Bezzi; lungo il naviglio grande, vicino a San Cristoforo, c’era la Società per la fabbricazione delle porcellane lombarde fondata nel 1833 dal nobile Luigi Tinelli, acquistata nove anni più tardi dal piemontese (di origine svizzera) Giulio Richard; le cartiere di Ambrogio Binda si trovavano lungo il naviglio pavese, nei pressi della Conca Fallata.

La fabbrica di ceramiche Richard Ginori a San Cristoforo, lungo il naviglio grande
La fabbrica di ceramiche Richard Ginori a San Cristoforo, lungo il naviglio grande

Perché si verificava questa diversità di condizioni tra la città e i Corpi Santi? Vediamo di vederci chiaro. Negli anni immediatamente successivi all’Unità d’Italia la legge prevedeva due generi di dazi: quelli governativi e quelli applicati dagli enti comunali come sovraimposte. V’era però una differenza tra i comuni murati e i comuni aperti. A Milano, città murata, i dazi erano applicati alle merci che entravano e uscivano dalle sei porte cittadine: colpivano gli alimenti (pane, olio…), combustibili (cera, gas per l’illuminazione…), foraggi, materiali da costruzione (legnami, gesso, pietre, mattoni, marmi) e altri articoli (vernici, sughero, cristalli). Al dazio governativo, il cui gettito andava allo Stato, il Comune di Milano applicava sovraimposte che variavano dal 43% su vino al 30% sui buoi e sulla carne macellata. Perché la fiscalità vigente nei Corpi Santi era migliore? Per due motivi. Diversamente dalle città murate, i Corpi Santi erano anzitutto un comune aperto: qui le tasse erano riscosse solo alla vendita al minuto, colpivano gli articoli venduti. Questo spiega per quale motivo il Comune fosse divenuto in breve tempo un grande deposito di merci. A Milano si tassava invece ogni tipo di prodotti in entrata, anche quelli che non sarebbero stati venduti. In secondo luogo, le sovraimposte dei Corpi Santi erano largamente inferiori rispetto a quelle di Milano e in alcuni settori, come ad esempio i combustibili o i materiali da costruzione, la tassazione non esisteva. Si trattava di condizioni, come si può facilmente intuire, nettamente favorevoli alla cultura d’impresa.

Pianta di Milano del 1884.
Pianta di Milano del 1884.

Dopo l’Unità il Comune di Milano volle inglobare i Corpi Santi. I milanesi sostenevano che i corposantini godevano di un vantaggio ingiusto perché usufruivano di beni e servizi cittadini pagati con la loro fiscalità. D’altra parte molti edifici che servivano alla città, ma anche la sede di molte aziende cittadine, si trovava nei Corpi Santi, pochi metri fuori dalle mura: la vecchia Stazione Centrale in piazza della Repubblica, la Stazione della Società Anonima degli Omnibus fuori Porta Orientale, in uno stabilimento tra le vie Spallanzani, Sirtori e Melzo; il Cimitero Monumentale fuori Porta Garibaldi; il gasometro, che regolava la fornitura di gas ai milanesi, fuori porta Ludovica. L’assorbimento del Comune anulare era sentito come un atto doveroso per una città in rapida espansione.

Gli industriali erano però preoccupati di perdere i vantaggi del “porto franco”. L’annessione a Milano fu però inevitabile: venne realizzata con regio decreto l’8 giugno 1873.

Il Tredesin de Marz e una pietra misteriosa

Ieri si è festeggiato il Tredesin de Marz, tradizionale festa dei fiori milanese che sembra quasi propiziare l’avvento della primavera. La festa sarà ripetuta domani, domenica 15, nel quartiere in zona Porta Romana, tra via Crema, via Piacenza e via Giulio Romano: si terrà un mercato di fiori con tante iniziative legate al mondo della floricultura.

Da cosa trae origine questa festa? Come cercherò di spiegarvi in questo articolo, l’evento si lega probabilmente ad antichi culti pagani che vennero cristianizzati nel corso del Medioevo.

Nell’Ottocento e ancora nella prima metà del secolo scorso il Tredesin si festeggiava a non molta distanza dalla zona che ho ricordato. La festa aveva il suo fulcro nella chiesa di Santa Maria al Paradiso e interessava il corso di Porta Vigentina fino all’incrocio con via Beatrice d’Este. Emilio De Marchi (1851-1901) ricordava: “E qui giornad del tredesin de Marz? Gh’era la fera, longa longhera, giò fina al dazi, coi banchitt de vioeur, de girani, col primm roeus…”.

Se entrate in Santa Maria al Paradiso troverete sul pavimento un’enorme pietra circolare ove al centro si trova un foro; vi sono incisi tredici segni. Quale significato abbiano è un mistero.

ruota2
La misteriosa pietra nella chiesa di Santa Maria del Paradiso

Partiamo da un dato certo: questa pietra, risalente all’epoca romana (se non addirittura pre-romana), si trovava anticamente in un’altra chiesa, oggi scomparsa: San Dionigi. Era situata nell’area dei giardini pubblici di Porta Venezia, quasi a ridosso delle mura spagnole: difatti la festa del Tredesin veniva celebrata nei pressi di quella basilica prima di “traslocare”, alla fine del XVIII secolo, nel sestiere di Porta Romana. La prima costruzione di San Dionigi vien fatta risalire all’epoca di Sant’Ambrogio, alla fine del IV secolo dopo Cristo, nel periodo in cui Milano fu capitale dell’Impero romano. Com’è facile immaginare, non esistevano a quei tempi né giardini pubblici né mura spagnole. La zona era circondata da campi perché le mura della Milano romana, relativamente al settore orientale, non oltrepassavano il tracciato delle attuali vie Durini, piazza San Babila e via Monte Napoleone.

Che senso poteva avere dunque una chiesa in mezzo ai campi, distante un chilometro dalle mura?

Sant'Ambrogio (339/340-397)
Sant’Ambrogio (339/340-397)

Una risposta potrebbe esserci. Quando Ambrogio divenne vescovo di Milano, il cristianesimo era una religione che interessava soprattutto le classi cittadine medio-alte. La conversione dell’imperatore Costantino aveva spinto l’alta burocrazia dell’impero ad abbandonare la fede pagana. Nel IV e V secolo dopo Cristo si era venuta a determinare una situazione paradossale: il cristianesimo, che nei primi secoli aveva conquistato i ceti popolari, nel tardo-impero divenne parte integrante della formazione culturale dell’aristocrazia romana che risiedeva in città. Milano, capitale dell’impero romano d’Occidente dal 286 al 402 d.C., costituiva un esempio lampante. Ambrogio non era forse stato un alto funzionario romano prima di diventare vescovo della città? Si giunse così al paradosso che il paganesimo, sconfitto nella capitale dell’impero, sopravviveva nelle campagne ove i contadini erano rimasti fedeli ad antiche tradizioni del folclore sorte in epoca pre-romana. Come ha scritto lo storico Jacques Le Goff, il laicato rurale, sprovvisto della formazione culturale cristiana diffusa nelle classi cittadine: “divenne sempre più vulnerabile agli urti di una cultura primitiva rinascente”.

Per evangelizzare le masse rurali Ambrogio fondò alcune chiese fuori dalle mura: la chiesa che venne poi intitolata al suo nome, ma anche San Nazzaro e San Dionigi.

So cosa stai per dirmi adesso: come si lega tutto questo con la pietra circolare??

Si può ipotizzare che la pietra fosse preesistente alla chiesa. Questo spiegherebbe per quale motivo il misterioso manufatto, forato al centro, sul quale sono incisi 13 segni  – forse ad indicare i 13 mesi lunari del calendario celtico? – si trovasse all’interno della chiesa nel sestiere di Porta Orientale.

San Barnaba
San Barnaba, anonimo lombardo, XVIII secolo.

Nel Medioevo le tradizioni pagane continuarono a sussistere nonostante la cristianizzazione dei secoli precedenti. Per contrastarle, a partire dall’XI secolo la chiesa ambrosiana diffuse la storia di San Barnaba, considerato il primo evangelizzatore di Milano. Il  13 marzo del 52 d.C., entrando in città da Porta Orientale, l’apostolo sarebbe passato nei campi e avrebbe piantato la sua prima croce di legno. Sapete dove? Nel foro della misteriosa pietra rotonda ovviamente. Tutto quindi lascia supporre che la chiesa ambrosiana mise in campo una raffinata operazione culturale tesa ad assimilare alla tradizione cristiana un rito preesistente risalente almeno al periodo romano, quando a marzo (il nome deriva da Marte) si festeggiava Marte per l’appunto, dio della Natura, della fecondità, della vegetazione primaverile oltre che della guerra.

La chiesa ambrosiana stabilì che l’apostolo fu il primo evangelizzatore di Milano: al suo passaggio, la neve si sarebbe sciolta per miracolo e i prati fuori porta Orientale si sarebbero riempiti di fiori. Gli storici sono però concordi nel ritenere una leggenda l’origine apostolica della chiesa milanese.

La storia di San Barnaba come “primo vescovo di Milano”, divenuta ben presto popolare, ebbe però l’effetto che la curia milanese si attendeva: contribuì ad elevare il prestigio di Milano, conferendole la dignità di “sede apostolica” quasi allo stesso livello di Roma.

La prima testimonianza di cui disponiamo oggi a proposito della festa del Tredesin è contenuta nel manoscritto trivulziano F35, copiato tra il 1450 e il 1461, negli anni del ducato di Francesco Sforza. Vi era ricordata la festa religiosa durante la quale veniva concessa l’indulgenza di tutti i peccati ai fedeli che si fossero recati a San Dionigi riconoscendo le colpe e facendo atto di pentimento: “Item quilibet bene confessus et contrictus visitans ecclesia infrascripta sancti Dionixi die XIII marti ut indulgentia plenaria omnium suorum peccatorum remissionem”. 

Nel 1583 San Carlo confermò il 13 marzo come dies festibus, giorno di festa.

Domenico Balestrieri
Domenico Balestrieri

Nella seconda metà del Settecento la zona compresa tra corso Venezia, via Senato e via Marina, continuò ad essere il centro della festa del Tredesin fino al 1783, quando le autorità procedettero alla demolizione di San Dionigi. A quell’epoca, in una società che andava secolarizzandosi,  la festa aveva perso in larga parte lo spirito religioso dei secoli precedenti. Il poeta dialettale Domenico Balestrieri (1714-1780) ricordò i milanesi, tutt’altro che pentiti e contriti, in una bella poesia dialettale di cui riporto alcune quartine:

Hoi da dilla? Hoo pavura, che ghe sia/ In cert dì d’Indulgenz, e de fonzion / Chi viva pesg per nostra confusion,/ Che in temp che gh’era anmò l’idolatria.  

L’è inscì pur tropp, e gh’avarev on mucc/ De coss de fatt in proeva del mè assont;/ Ma per sbrigà la predega in d’on pont,/ Gh’è ’l Tredesin, ch’el pò bastà per tucc.

 El dì tredes de marz, come se cred/ Generalment, l’è staa quel santo dì, / Che al temp di Apostel s’è piantaa anca chì / La primma Insegna della vera Fed./ 

Ora in sto dì se ’n celebra la Festa/ A Sant Dionis in fond de Porta Renza,/E gh’è foera el cartell dell’Indulgenz,/ Ma vaan là per tutt olter che per questa. …Signorìa in Gesa o no ghe n’è, o ben scarsa.

 Traduzione:

Devo dirla tutta? Ho paura che in certi giorni d’indulgenze e di messe si viva in un disordine peggiore rispetto ai tempi dell’idolatria. E’ così purtroppo e avrei molti fatti che provano il mio assunto. Ma per accorciare la predica, c’è il Tredesin: credo che possa bastare per tutti.  Il tredici di marzo, come si crede da tutti, è stato quel giorno santo in cui al tempo dell’Apostolo (San Barnaba) si è piantata anche qui a Milano la prima insegna della vera fede. Ora in questo giorno si celebra la festa a San Dionigi in fondo a Porta Renza [Porta Orientale]:  c’è fuori il cartello dell’indulgenza ma le persone vanno là per tutt’altre ragioni…signori in chiesa o non ci sono o sono molto pochi.

Giro del mondo sull’aereo figlio del Sole

Ieri è decollato da Abu Dhabi il primo prototipo di aereo alimentato esclusivamente con l’energia del sole. Al comando del Solar Impulse 2 – le cui ali superano in lunghezza quelle del jumbo jet della Boeing – è lo svizzero Bertrand Piccard, assistito dal collega André Borschberg. Il velivolo farà il giro del mondo passando sopra l’India, la Cina, l’Oceano Pacifico, l’America, l’Oceano Atlantico e l’Europa. Se tutto andrà bene, le ore di volo previste saranno in tutto 500, distribuite nell’arco di cinque mesi.

Qualora Piccard riuscisse nella sua impresa (com’è d’altra parte in tutti i pronostici), ci troveremo dinanzi a una svolta epocale perché le grandi aziende costruttrici di aeroplani – che hanno rifiutato di finanziare il Solar Impulse 2 – saranno costrette a fare marcia indietro. Maggiori risorse saranno investite nella ricerca per la fabbricazione di aerei di linea ad energia solare. I benefici saranno considerevoli, soprattutto nella riduzione dell’inquinamento atmosferico.

Bertrand Piccard
Bertrand Piccard (n.1958)

Il Solar Impulse 2 ha una forma curiosa: la notevole apertura alare e le ruote appese a un lungo carrello sotto la piccola cabina di equipaggio lo rendono simile a un enorme insetto. La superficie dell’aereo è coperta da celle solari ultra leggere prodotte dall’azienda belga Solvay, i cui laboratori di ricerca hanno sede a Bollate, un Comune alle porte di Milano. Queste celle forniscono energia alle batterie al litio con cui sono alimentati i quattro motori elettrici presenti nel prototipo. Il velivolo sta viaggiando a una velocità di 50 Km/h.

Ieri, quando ho visto il video che mostrava il decollo del Solar Impulse 2, il pensiero è corso a Leonardo da Vinci. Nella sua feconda vita di pittore, ingegnere e studioso, Leonardo si sforzò d’inventare un paio di ali meccaniche che consentissero all’uomo di volare. Un sogno che non riuscì a tradursi in realtà per molti secoli, finché l’invenzione dei motori ad elica cambiò la storia. Leonardo fu il primo a capire che uno dei segreti del volo risiedeva nello sfruttamento delle correnti d’aria. Nell’osservare gli uccelli rapaci scrisse in una bella nota risalente ai primi anni del Cinquecento:

Quando l’uciello ha gran larghezza d’alie e pocha choda, e che esso si voglia inalzare, allora esso alzerà forte le alie, e girando riceverà il vento sotto l’alie, il qual vento facendosegli intorno lo spingerà molto con prestezza, come il cortone uccello di rapina chio vidi andando a Fiesole sopra il locho di Barbiga nel [150]5 addì 14 di Marzo.

In fondo, l’impresa di Piccard si pone nel solco di tante avventure compiute in passato da uomini ardimentosi, i quali tentarono la sorte con gli ultimi ritrovati della scienza.

La mongolfiera del conte Andreani
La mongolfiera del conte Andreani mentre prende il volo nei pressi di Moncucco

E’ il caso ad esempio del conte Paolo Andreani (1763-1823), appartenente a una ricca famiglia del patriziato milanese, il cui palazzo a Milano ha dato il nome alla Biblioteca Comunale, la Sormani appunto. Andreani volle ripetere l’impresa dei fratelli Montgolfier: finanziò la costruzione di una grande mongolfiera affidandone la costruzione ai fratelli Agostino, Giuseppe e Carlo Gerli. Si trattava di un globo aerostatico che misurava 72 piedi in altezza e 66 in larghezza. Il conte prese il volo il 13 marzo 1784 prendendo quota dal giardino della sua villa di campagna sita a Moncucco (un paese in provincia di Milano). Il pallone scomparve subito tra le nubi. Dopo mezz’ora il conte venne trovato a tre miglia dal paese facendo tirare un sospiro di sollievo alla popolazione e alle autorità. Non fu un viaggio lungo ma bastò a rendere celebre l’Andreani, che fu invitato a Parigi per incontrare i maggiori studiosi di aeronautica. Ad Andreani si deve peraltro l’invenzione dell’eudiometro, uno strumento in grado di calcolare la quantità di ossigeno presente nell’atmosfera.

Meno fortunata l’impresa del bolognese Francesco Zambeccari (1762-1812). Tra il 1803 e il 1812 questi effettuò alcune  ascensioni con una mongolfiera di sua invenzione. Trovò la morte nel corso di una di queste imprese.

Il canonico Luigi Mantovani, in alcune note del suo diario, ci ha lasciato la curiosa testimonianza di un volo risalente all’ottobre del 1803. Zambeccari si era innalzato con il suo pallone in un luogo imprecisato tra le Romagne e le Marche. Poche ore dopo i membri della spedizione, perso il controllo della mongolfiera per un forte temporale, furono trasportati dalle correnti fin sopra le acque dell’Istria, dove si buttarono in mare colti dal freddo e dalla disperazione. La mongolfiera, priva di equipaggio, continuò imperterrita il suo viaggio. Venne ritrovata in Bosnia alcuni mesi dopo, curiosamente venerata dalle popolazioni locali (cristiane e musulmane) come se fosse una reliquia divina.

Seguiamo nelle note del Mantovani  le notizie frammentarie che erano giunte a Milano. E’ curioso che il canonico non esiti a bocciare la spedizione del conte bolognese, giudicato un pazzo esaltato in cerca di notorietà.

 16 ottobre 1803

Con staffetta espressa venuta da Bologna si dice essersi saputo colà da Pesaro, e con varie lettere del Rubicone, che gli Areonauti (sic!) sei ore dopo la partenza sono andati a cadere nelle acque d’Istria, e che per accidente furono raccolti in una barca. Si aggiunge che erano stati un giorno e mezzo senza parlare, che erano gonfi, e che si dovette loro tagliar gli abiti indosso. Questa notizia non essendo stata portata dal corriere di Venezia non pare verosimile

19 ottobre 1803

Si sono avute ulteriori, e più distinte notizie del Pallone sventurato di Zambeccari. Fortunatamente i tre Aeronauti furon ajutati da una barca in dette acque,e co’ pronti rimedj voglionsi quasi ridotti a buon essere di salute: contano essi di varie cose da loro vedute nell’altissimo giro dell’aria, varie vicende etc. che forse saran frottole, o sogni imaginarj di quella fantasia abitualmente stravolta, senza la quale non sarebbe stata possibile la loro matta determinazione

 21 ottobre 1803

Il Governo sempre sollecito per le utili cognizioni e per le intraprese vantaggiose al ben pubblico, si è fatto premura di render conto alla nostra Città dell’esito del conte Zambeccari che ha volato in Bologna. Dio volesse che si perdesse non solo la razza, ma anche la memoria di simili disperati, che senza aver in vista alcun bene, arrischiano quanto è più prezioso, cioé la vita, per una buffoneria. Il Conte Zambeccari è curato in Venezia dall’assistenza dei’ migliori medici per vedere di recuperarlo ne’ suoi sensi esteriori ch’egli ha perduto, sia pel freddo, sia per lo spavento, assai più degli altri suoi socj. Egli conta di aver sofferto una fiera tempesta con successiva neve, e dippiù esservi trovato in situazion parallela alla luna. Sì l’una che l’altra di queste supposizioni devesi attribuire a fantasia esaltata.

 3 dicembre 1803

 Giunge oggi la notizia della finale caduta del Pallone Zambeccari. Esso è caduto nella Bosnia, non molto lungi dal forte turco Viatrez alla sponda dell’Uria, 14 ore lontano da Gospich. Nel globo si trovarono alcune ruote e catene di ferro e tre capelli. Fu creduto prodigio da’ Turchi e da’ Cristiani, che a vicenda si disputarono il possesso, ed oggi pure il vulgo colà è fisso nell’opinione di cosa miracolosa a segno, che corrono gli malati a prender dell’acqua del ruscello, ove discese il globo, per guarire dai loro malanni

Non resta che augurare buona fortuna a Piccard. Speriamo che un giorno, grazie alla sua impresa, potremo salire su un aereo di linea alimentato con la sola energia solare.

Il maresciallo Trivulzio nella Milano del primo ‘500

Camminando lungo il corso di Porta Romana da piazza Missori, prima di arrivare all’incrocio con via Francesco Sforza, si apre a sinistra la piazzetta di San Nazaro in Brolo. La chiesa omonima, di origine medievale, fu una delle prime basiliche paleocristiane ad essere costruita per volontà di Sant’Ambrogio.

Non voglio annoiarti facendo la storia della chiesa, che puoi trovare in una delle tante guide cittadine. Desidero ricordare la curiosa struttura architettonica. E’ infatti l’unico caso a Milano di una basilica la cui facciata sia interamente coperta da un altro edificio: il Mausoleo Trivulziano.

La Trivulza
San Nazaro in Brolo in corso di Porta Romana. Ingresso nel Mausoleo Trivulzio

Quando entrai per la prima volta in questa cappella, ebbi una sensazione di lugubre solennità. Progettato dall’architetto Bartolomeo Suardi detto il Bramantino, edificato in parte da Cristoforo Lombardi, il mausoleo risale alla prima metà del XVI secolo. E’ una fabbrica a pianta quadrata che, se non si trovasse nella parte anteriore della chiesa, sembrerebbe una torre anziché un luogo di sepoltura.  D’altra parte il Bramantino, che era stato a Roma tra il 1508 e il 1510, parve richiamare in questo edificio le linee architettoniche dei grandi monumenti della Roma imperiale. All’interno otto nicchie, collocate in posizione elevata, accolgono i sepolcri di alcuni Trivulzio, una famiglia nobile che abitava in un bel palazzo situato in via Rugabella, oggi purtroppo scomparso.

Sepolcro Trivulzio
Il sepolcro del maresciallo Gian Giacomo Trivulzio

Nella parte del mausoleo che confina con l’ingresso della chiesa spicca il sepolcro del maresciallo Gian Giacomo Trivulzio (1442-1518), il maggiore esponente del casato. L’iscrizione che ricorda il defunto recita solennemente: “IO. IACOBUS/MAGNUS TRIVULTIUS/ANTONII FILIUS/QUI NUNQUAM/ QUIEVIT QUIESCIT/TACE”; tradotto in italiano significa: “Riposa Gian Giacomo Trivulzio, figlio di Antonio, che mai ebbe pace”.  Una frase concisa, che sembra quasi ammonire il visitatore a non disturbare il sonno eterno di un grande personaggio che visse una vita tormentata.

Chi fu questo nobile milanese? Per saperne di più, ti consiglio una fonte preziosa che è stata pubblicata da pochi mesi dalla Fondazione Trivulzio. L’opera, curata da Marino Viganò, si intitola Le imprese dell’illustrissimo Gian Giacomo Trivulzio il Magno: l’autore è un monaco cistercense di Chiaravalle che visse a fianco del maresciallo nei primi anni del Cinquecento: Arcangelo Madrignano.

So già cosa mi dirai: Gabriele, la solita opera noiosa scritta da un uomo di chiesa con stile ampolloso. Cosa me ne faccio?

IMG_5818Non si tratta di un’opera noiosa per due ragioni. Anzitutto perché scritta da uomo che, benché si chiamasse Arcangelo e facesse parte di un ordine religioso, fu tutt’altro che uno stinco di santo. Il che, se non contribuisce di per sé a renderci l’autore simpatico, lo rende certo meritevole della nostra attenzione. Un uomo, il Madrignano, che non esitò nel corso della sua vita a tradire i confratelli, a cambiare casacca per convenienza politica, a perseguitare altri religiosi pur di conseguire ricche prebende e compiacere i suoi superiori.

In secondo luogo il testo, il cui intento apologetico non inquina la ricostruzione di alcune vicende, contiene proverbi popolari, massime di scienza politica, riflessioni che sono una fonte preziosa per comprendere l’Italia del primo Cinquecento.

L’opera racconta le imprese del condottiero di ventura Gian Giacomo Trivulzio dal 1465 fino al 1494, l’anno della calata in Italia del re di Francia Carlo VIII.  Il testo venne scritto tra il 1503 e il 1509, il periodo di massima fortuna politica del maresciallo.

Bisogna riconoscere che il Trivulzio ebbe pessima fama nella Milano del primo Cinquecento e nella storiografia risorgimentale. Negli anni del suo declino politico, venne accusato di essersi venduto al re di Francia, di aver tradito la dinastia sforzesca. Nell’Ottocento ritornò ancora questa “macchia”: aver tradito Ludovico il Moro, uno dei simboli del Rinascimento italiano.

G.G._Trivulzio
Il maresciallo Gian Giacomo Trivulzio (1442-1518)

In realtà, il Trivulzio non può essere considerato un traditore della patria. Il mestiere del condottiero di ventura lo poneva in una condizione che non è equiparabile a quella del soldato odierno. Il condottiero di ventura arruolava il maggior numero possibile di “lance”: squadre di armati ciascuna delle quali era composta mediamente da 5/7 uomini tra i quali un cavaliere vestito con armatura pesante.  Queste lance, reclutate a centinaia, erano impiegate al servizio della repubblica o del principato con cui era stata firmata una lettera di “condotta”: ecco per quale motivo tali uomini erano chiamati “condottieri di ventura”. Oggi appare inconcepibile questo modo di gestire le operazioni militari, ma la guerra del Rinascimento era fatta così. Era una faccenda in larga parte “privata”. Il Trivulzio, come il coetaneo Giovanni dalle Bande Nere o prima di lui Francesco Sforza, furono brillanti condottieri di ventura, pronti a vendere la loro professionalità in campo militare al migliore offerente.

Ludovico Sforza detto il Moro, in una pala del 1495. Museo di Brera
Ludovico Sforza detto il Moro, in una pala del 1495 conservata al Museo di Brera

L’impopolarità del Trivulzio nella Milano del primo ‘500 – impopolarità che segnò la vita tormentata del maresciallo come ci ha ricordato l’iscrizione funeraria in San Nazaro – fu dovuta all’accusa di aver tradito la dinastia sforzesca. Il rifiuto di riconoscere Ludovico Sforza “il Moro” come duca di Milano era considerato da molti coetanei un tradimento feudale. In realtà il maresciallo – che non fu certo il solo nobile lombardo a ‘tradire’ il duca di Milano – si rifiutò di riconoscere l’autorità del “Moro” perché riteneva che questi si fosse impadronito del potere estromettendo il nipote, Gian Galeazzo Maria Sforza, morto in circostanze misteriose nel 1494. E’ molto probabile che il Moro avesse fatto avvelenare quello scomodo parente. Tuttavia bisogna riconoscere che Ludovico Sforza era riuscito in quello stesso anno ad ottenere l’investitura ducale dall’imperatore Massimiliano d’Asburgo, conseguendo in tal modo quel riconoscimento giuridico in campo internazionale che agli Sforza era mancato fin dai tempi in cui erano ascesi al governo dello Stato di Milano.

Molti nobili lombardi – e tra questi il già citato Gian Giacomo Trivulzio – rifiutarono tale investitura. Ritenevano che il re di Francia Luigi XII, discendendo da Valentina Visconti – figlia del primo duca di Milano Gian Galeazzo Visconti e andata in sposa a Luigi duca di Orléans – avesse maggiori diritti nella successione. Per questo motivo giurarono fedeltà a Luigi XII e lo aiutarono a conquistare il ducato nel 1499/1500.

Diversamente dalle opere scritte in quel medesimo torno di tempo da Donato Bossi e da Bernardino Corio per celebrare Ludovico il Moro, il Madrignano ci descrive una Milano preda dell’instabilità, funestata da violenze e da congiure, mostrando un taglio narrativo ostile allo Sforza. Una testimonianza preziosa che aiuta a comprendere meglio il filo delle drammatiche vicende in cui il Trivulzio fu chiamato a vivere.

L’attualità di Cesare Beccaria professore di economia pubblica

Nel 2014, in occasione dei 250 anni dalla pubblicazione Dei delitti e delle pene, sono usciti due volumi su Cesare Beccaria. Il primo (Scritti economici, a cura di Gianmarco Gaspari) fa parte della monumentale Edizione Nazionale delle Opere di Cesare Beccaria pubblicata da Mediobanca. E’ il terzo volume in cui sono pubblicati tutti i contributi dell’illuminista lombardo in tema economico.

Il secondo libro, L’arte della ricchezza pubblicato da Mondadori, è scritto dal senatore Carlo Scognamiglio Pasini. E’ presa in esame la figura dell’illuminista milanese nel breve periodo in cui fu professore di economia pubblica (1769-1771) presso le Scuole Palatine di Milano e negli anni in cui ricoprì l’ufficio di funzionario nel governo dello Stato di Milano al servizio dei sovrani austriaci (1771-1794).

Le Scuole Palatine di Milano in unin
Le Scuole Palatine di Milano in piazza Mercanti in una incisione settecentesca di Marc’Antonio Dal Re. Avevano sede nell’edificio centrale e al piano superiore di quello a destra.

Questi autori non sono i primi ad essersi occupati in modo approfondito del Beccaria economista. Desidero ricordare ad esempio il bel volume Riformatori lombardi, piemontesi e toscani curato da Franco Venturi nel 1958 nella serie Illuministi italiani pubblicata dalla casa editrice Ricciardi.

Sette anni fa, assieme a mio padre, io stesso ho curato un saggio sul Beccaria docente di economia pubblica. Si tratta del volume Cesare Beccaria visto da Fulvio e Gabriele Coltorti (Luiss University Press, Roma 2007). Nella parte affidata alla mia penna, dopo aver tracciato un profilo biografico, ho preso in esame l’insegnamento di Beccaria mettendo in relazione il contenuto delle sue lezioni con i concreti obiettivi di politica economica fissati a quel tempo dalle monarchie germaniche. Occorre ricordare infatti che lo Stato di Milano, nella seconda metà del Settecento, faceva parte dei territori sottoposti al dominio degli Asburgo di Vienna.

Il cameralista e giurista austriaco Joseph von Sonnenfels
Il cameralista e giurista austriaco Joseph von Sonnenfels (1732-1817)

L’imperatrice Maria Teresa, quando nel 1768 nominò Beccaria alla cattedra di economia pubblica – cattedra inizialmente definita “scienze camerali” – si attendeva che il filosofo milanese impostasse il lavoro seguendo l’esempio del cameralista Joseph von Sonnenfels, attivo in quegli stessi anni all’Università di Vienna. Cosa insegnavano i cameralisti? Insegnavano – e suggerivano ai sovrani come fidati consiglieri – i provvedimenti più efficaci per arricchire lo Stato, rafforzarne la potenza, assicurare il benessere e la felicità dei sudditi. I cameralisti seguivano insomma l’impostazione dottrinaria dei mercantilisti, i quali nel secolo precedente avevano raccomandato un deciso intervento dello Stato nell’economia.  La differenza era che i primi avevano capito che le ricette economiche non contano nulla se non vengono realizzate da uno Stato retto su un’amministrazione efficiente. Questo spiega per quale motivo i cameralisti del Settecento insegnavano non solo la Scienza del commercio (Handlungswissenschaft o Oekonomische Wissenchaft), ma anche la Scienza delle finanze o camerale (Kameralwissenschaft) e la Scienza della polizia (Polizeiwissenschaft), quest’ultima intesa nel senso ampio di amministrazione pubblica.

Beccaria non seguì del tutto l’impostazione germanica: nei pochi anni in cui fu professore di scienze camerali limitò il suo corso all’economia pubblica senza toccare la parte relativa alla polizia e alle finanze, che era tipica invece della cameralistica. Eppure, nonostante queste mancanze – dovute probabilmente alla decisione di lasciare l’insegnamento – la sua teoria economica riveste un’assoluta originalità, mostrandosi per certi versi superiore a quella del coevo Adam Smith.

Cesare Beccaria (1738-1794)
Cesare Beccaria (1738-1794)

Oggi, quando sentiamo parlare di Beccaria, ci viene spontaneo pensare al trattatello Dei delitti e delle pene che fu decisivo nella riforma della legislazione penale negli Stati europei del XVIII e XIX secolo (compreso l’impero russo di Caterina II). Beccaria fu non solo questo. Anzi, fu assai più di questo. Il Beccaria genuino è il professore di scienze camerali che spiegava agli studenti i fondamenti dell’economia pubblica. Anche in veste di pubblico funzionario al servizio dello Stato di Milano austriaco diede negli ultimi anni della sua vita un contributo importante…ma questa sarà materia per un altro intervento.

Chiediamoci ora se il pensiero economico di Beccaria sia attuale. Come si poneva l’illuminista lombardo dinanzi al tema, tuttora scottante, dell’intervento dello Stato nell’economia di un Paese? Beccaria seguiva una via di mezzo che lo distanziava sia dai cameralisti che dai teorici del laissez faire.  Sosteneva che il governo poteva intervenire solo per rimuovere gli ostacoli al libero commercio e al fare impresa.

In merito agli aiuti di Stato, Beccaria direbbe ad esempio che i fondi pubblici a sostegno delle imprese sono inutili e dannosi per due ragioni: a) perché privilegiano inevitabilmente alcuni a danno di altri; b) perché l’industriale tenderebbe a vivere di fondi pubblici come un parassita e non se ne servirebbe per migliorare l’impresa. Se il capitale pubblico prestato all’imprenditore ha tempi lunghi di rimborso, questi cercherà di sfruttarlo per sé “contentandosi” – sono parole di Beccaria a proposito delle manifatture – “di esibire un’apparenza di travaglio più per conservarsi il diritto di prolungare la restituzione o di chiedere nuovi soccorsi”. Una lezione che la nostra classe politica democristiana dimostrò di ignorare se pensiamo alla politica fallimentare della Cassa del Mezzogiorno.

Beccaria auspicava una politica economica oculata. Lo Stato deve agire per premiare – così diceva nelle sue lezioni – “l’attività già fatta”: punto decisivo perché non si aiuta l’imprenditore a fare qualcosa che non ha fatto, ma lo si aiuta premiando l’impresa che ha conseguito eccellenti risultati nella libera competizione del mercato. “Il premio è di un solo” – ci dice Beccaria – “ma l’emulazione è di molti: la speranza, che è uno dei più grandi agenti dell’uomo socievole, mette in fermento l’interesse privato di ciascheduno”.

In concreto, per Beccaria un Paese può arricchirsi solo se il governo promuove il commercio con quattro misure:

  1. Stimolando la massima concorrenza venditori/compratori. E’ la concorrenza il vero motore del progresso: è l’“universale concorrenza che aumenta il moto e l’azione … rendendo ogni cosa prontamente correspettiva rappresentatrice d’ogni altra, anima l’industria e la speranza di ogni membro della Società”;
  2. Impiegando meno manodopera possibile e velocizzando la produzione: “Ogni opera nel minor tempo possibile e dalle più poche mani che si può venga fatta;
  3. Migliorando le infrastrutture e i trasporti per rendere più veloce il commercio all’interno di una nazione;
  4. Garantendo bassi interessi del danaro per stimolare i prestiti. Vedeva con favore un aumento della circolazione monetaria.

I milanesi dell’Ottocento visti da due stranieri d’eccezione

Nel diciannovesimo secolo Milano attirava i viaggiatori d’Oltralpe per il suo fascino discreto, quasi nascosto. Stendhal, che la visitò nel primo Ottocento, se ne innamorò perdutamente. Come avviene tuttora a larghissima parte dei turisti, il Duomo destò in lui un’ammirazione sconfinata.

Henry Beyle Stendhal (1783-1842) da www.greatthoughtstreasury.com
Henry Beyle Stendhal (1783-1842) da www.greatthoughtstreasury.com

Ricordiamo però Stendhal anche perché fu un attento osservatore degli usi e dei costumi milanesi. Lo scrittore francese ricordava ad esempio la consuetudine di camminare nel tempo libero sui Bastioni di Porta Renza (Bastioni di Porta Orientale) perché vi si godeva un panorama spettacolare sulle montagne lombarde. Noi oggi facciamo fatica a capire come una strada sopraelevata su cui sfrecciano macchine, moto e motorini potesse costituire una meta di svago per i milanesi dell’Ottocento. Dobbiamo però considerare che a quei tempi le cose erano molto diverse da oggi: Milano aveva una popolazione di 130.000 abitanti e il suo territorio non oltrepassava la cinta delle mura spagnole. Insomma, era più una cittadina che una metropoli.

All’esterno il panorama era dominato da una campagna intervallata da cascine e da basse case rurali; non esistevano i palazzoni che vediamo oggi. Pensate che il Duomo era visibile anche a chi si fosse trovato a una distanza di 20 chilometri da Milano.

La nostra strada sopraelevata, piena di traffico e di smog, era allora un bel viale alberato che collegava i Bastioni di Porta Venezia con i Bastioni di Porta Nuova e di Porta Comasina per terminare all’Arena Civica vicino al Castello Sforzesco. Un corso frequentato nel periodo estivo dalla ricca borghesia e dalla nobiltà. Scriveva Stendhal a proposito di Milano in Rome, Naples et Florence:

D’estate, dopo il pranzo, al tramonto, all’Ave Maria, come si dice qui, tutte le carrozze della città si recano al “Bastion di Porta Rense”, che si eleva di trenta piedi sopra alla pianura. Vista di là, la campagna assomiglia a una foresta impenetrabile, ma di là da essa si scorgono le Alpi con le cime ricoperte di neve. E’ uno dei panorami più belli che possa rallegrare la vista….lo spettacolo è bello; ma non è per goderselo che tutte le carrozze sostano per una mezz’ora sul Corso. Si tratta di una specie di parata della buona società”.

Mark Twain, altro turista d’eccezione che visitò Milano nel 1867, ci ha lasciato un ritratto divertente dei milanesi. Ma prima di dare la parola al nostro simpatico americano domandiamoci: questi milanesi…. come passano oggi il tempo libero dopo il lavoro? La risposta è semplice e si riassume in una parola: aperitivo.  Verso le 18.30-19 le vie si popolano di giovani. Da Porta Ticinese ai Navigli, da Brera al Castello, da Porta Genova a Porta Garibaldi trovi una selva di locali in cui trascorrere il tempo con gli amici. L’aperitivo funziona così: ordini un cocktail e hai libero accesso alle fantasie della gola. In quei momenti puoi mangiare a volontà attingendo a un buffet che, se hai scelto il locale giusto, è ricco di cibi gustosi e prelibati.

A quel tempo l’aperitivo non esisteva ma Twain, l’americano Twain, nella sua opera The Innocents Abroad pubblicata nel 1869, ci dice che i milanesi si divertivano comunque a modo loro. Egli ravvisava nel senso della vita spensierato, lontano dalle ansie del lavoro, una differenza abissale rispetto ai ritmi della società americana. Lo scrittore definiva curiosamente “europeo” questo stile di vita.

In America siamo sempre di fretta, che è un bene, ma quando la giornata di lavoro è finita, continuiamo a pensare ai guadagni e alle perdite, facciamo i programmi per il giorno successivo, ci portiamo perfino a letto il pensiero degli affari, e ci giriamo e rigiriamo preoccupati, quando invece dovremmo ristorare col sonno il nostro corpo e la nostra mente tormentati…

Marc Twan (1835-1910) da www.thefamouspeople.com
Mark Twain (1835-1910) da www.thefamouspeople.com

Invidio questi europei per la comodità che si prendono. Una volta che la giornata di lavoro è finita, se la dimenticano. Alcuni vanno con mogli e figli in qualche locale, si siedono tranquilli a bere un boccale o due di birra, ascoltando la musica; altri passeggiano per strada, altri ancora vanno in carrozza lungo i viali; ci sono quelli che si riuniscono nelle grandi piazze sul far della sera, per godere della vista e della fragranza dei fiori e per ascoltare le bande militari…e ancora ci sono quelli del popolo che si siedono all’aria aperta, di fronte ai caffè, mangiano gelati e bevono bevande leggere, che non farebbero male ad un bambino. Vanno a letto abbastanza presto e dormono della grossa. Sono sempre tranquilli, ordinati, allegri, comodi e amanti della vita in tutte le sue multiformi manifestazioni.

I milanesi di Twain sembrano molto diversi da quelli di oggi. E’ probabile che lo scrittore americano si fosse servito di loro per stigmatizzare gli americani del suo tempo. Eppure, se visitasse Milano al giorno d’oggi, Twain probabilmente troverebbe molto spirito americano sotto la Madonnina.

La “seconda antenata di Expo”: l’Esposizione del 1906

Come anticipato nell’articolo precedente, dedico questo breve intervento a quella che possiamo considerare la seconda antenata di Expo: l’Esposizione Internazionale del 1906.

Qual era la situazione di Milano al principio del Novecento? In fondo, il periodo compreso tra l’Esposizione del 1881 e quella del 1906 fu caratterizzato da un profondo mutamento urbanistico; tale mutamento investì i quartieri del centro, abbandonati progressivamente dalle classi popolari per divenire spazi esclusivi ove operavano le maggiori istituzioni finanziarie e civili del paese. Inoltre, in questo periodo il centro divenne residenza di una ricca borghesia industriale che subentrò in molti casi alla nobiltà cittadina nella proprietà di palazzi prestigiosi a due passi dal Duomo.

Il mutamento più significativo investì però il complesso della popolazione milanese. Nel giro di quarant’anni la città raddoppiò gli abitanti: nel 1861 Milano contava 242.869 cittadini, nel 1901 erano divenuti 491.460. Nuovi quartieri sorsero a fine Ottocento. Intere zone vennero ridisegnate. In una città che andava lentamente trasformandosi nella metropoli moderna che noi conosciamo, l’Esposizione del 1906 ebbe un significato cruciale, collegandosi al tema del progresso nel campo dei trasporti. Non fu un caso se l’evento venne allestito in concomitanza con l’apertura del traforo del Sempione, avvenuta il primo giugno di quell’anno.

Esposizione 1906 ticketL’Esposizione, tenutasi dal 28 aprile all’11 novembre, si collega assai bene con Expo 2015 per il suo carattere internazionale: vi parteciparono 40 Paesi, i cui padiglioni vennero sistemati in due zone corrispondenti pressappoco all’attuale parco Sempione e all’ex piazza d’armi ove, a partire dal 1923, sarebbe stata costituita la Fiera. Una ferrovia sopraelevata consentiva il libero accesso dei visitatori alle due aree. Il sito si estendeva su una superficie di un milione di metri quadrati. I padiglioni furono 225. I visitatori raggiunsero la soglia dei 5 milioni e mezzo.

Se guardiamo al principio guida che ispirò gli organizzatori, ravvisiamo però una differenza rispetto all’Esposizione del 1881. Più che una rassegna dei prodotti più avanzati nel campo dell’industria, l’esposizione novecentesca rivelò un’attenzione alle ricadute sociali del moderno lavoro di fabbrica. Il benessere e la sicurezza dei lavoratori erano in quegli anni un tema centrale delle politiche condotte dai governi europei.

Galleria del Lavoro
Il Padiglione “Galleria del lavoro” all’Esposizione del 1906 da www.lombardiabeniculturali.it

Del tutto indicativo, a tal proposito, il padiglione “Galleria del Lavoro” ove era possibile assistere al “lavoro in azione”, come ricordavano i documenti dell’epoca. La condizione degli operai italiani era migliorata rispetto a fine Ottocento. Gli storici hanno dimostrato che tra il 1901 e il 1913 i salari erano cresciuti del 26%, mentre il reddito era aumentato del 17%. Un operaio specializzato poteva guadagnare fino a 5 lire giornaliere. In un giornale del 1912 si leggeva: “L’operaio moderno non è più quello di un tempo poiché ama le proprie comodità, non abita più in un tugurio indecente, veste più pulito, ha la bicicletta, compera il giornale”. Si trattava di una rivista pubblicata dall’associazione dei tipografi, che a quel tempo erano gli operai meglio pagati della città. La situazione descritta nel giornale era fin troppo ottimistica e non valeva certamente per la maggioranza dei lavoratori che versavano in estrema povertà. Come testimoniavano le inchieste della Società Umanitaria, gli operai non potevano contare su un’alimentazione adeguata ai ritmi di lavoro. Persone che lavoravano dieci ore al giorno mangiavano cibo carente di proteine e non potevano permettersi il consumo di carne.

Senatore Giovanni Silvestri festeggia vittoria alle Mille Miglia
Il Senatore Giovanni Silvestri (al centro)  festeggia con piloti e meccanici la vittoria della sua O.M. alla prima Mille Miglia del 1927

Tornando all’Esposizione del 1906, il contributo degli industriali milanesi fu notevole. Nel Comitato organizzativo troviamo ad esempio Giovanni Silvestri (1858-1940). Il padre aveva assunto un ruolo di primo piano alla Comi Grandoni e C, poi divenuta Miani e Silvestri. Giovanni proseguì l’attività paterna: presidente del Consiglio di amministrazione, rivestì tale carica anche negli anni successivi, quando l’azienda si trasformò nelle celebri “Officine Meccaniche” (O.M.) i cui stabilimenti, situati fuori Porta Vigentina, erano attivi nel comparto ferroviario producendo carrozze, vagoni, locomotive, rotaie. Inoltre la fabbrica O.M. si fece conoscere per aver realizzato i primi esemplari di automobile, un’attività che le avrebbe procurato una certa fama nei primi decenni del Novecento.

Ettore Ponti (1855-1919)
Ettore Ponti (1855-1919)

Un’altra personalità che fece di tutto per assicurare il successo all’Esposizione del 1906 fu il sindaco Ettore Ponti, figlio dell’industriale tessile Andrea, titolare del Canapificio e Linificio Nazionale. Uomo moderato, colto, di specchiata onestà, animato da un sentimento di sincero amore per la cittadinanza, Ponti preparò con cura l’evento lavorando attentamente alla disposizione dei padiglioni. Questo sindaco liberale va ricordato per tante altre opere a sostegno di Milano. A lui dobbiamo il primo piano regolatore elaborato in funzione di una metropoli quale Milano si avviava a divenire. Il sindaco fondò un ente per la costruzione delle case popolari affinché i tanti cittadini giunti a Milano per ragioni di lavoro potessero trovare una sistemazione nel territorio del comune; Ponti realizzò per primo la pavimentazione delle strade utilizzando il catrame per la copertura dei marciapiedi; costituì l’Azienda elettrica municipale (AEM) perché le case dei milanesi potessero essere illuminate in linea con gli standard più avanzati all’epoca. Introdusse i taxi a Milano, fondò la Biblioteca Civica. Nel corso di un ricevimento organizzato nella sua casa di via Bigli, il Ponti venne insignito del titolo di “marchese” dal re Vittorio Emanuele III, che volle in tal modo premiare l’impegno straordinario profuso dal sindaco nell’allestimento dell’Esposizione internazionale.

La prima ‘antenata’ di Expo 2015: l’Esposizione del 1881

Dal primo maggio al 21 ottobre 2015 si terrà a Milano l’Esposizione Universale dedicata al tema dell’alimentazione e della nutrizione. I paesi che prenderanno parte a questo evento avranno il compito di mostrare come intenderanno far fronte nei prossimi anni al problema dell’alimentazione mediante una gestione del territorio che sia sostenibile per le generazioni future. L’area in cui avrà luogo l’esposizione, larga 1,1 milioni di metri quadrati, si trova a Nord di Milano. E’ prevista un’affluenza di venti milioni di visitatori.

La struttura del sito dell’esposizione riflette l’antica conformazione delle città romane. La via più lunga, il Decumano, si sviluppa in direzione est-ovest per una lunghezza pari a un chilometro e mezzo: attorno ad essa si troveranno i padiglioni dei 130 Paesi che parteciperanno ad Expo. Nelle intenzioni dei promotori, tale asse viario dovrebbe congiungere idealmente il luogo della produzione di cibo (la campagna) con quello della sua consumazione (la città). Sul Cardo, che ha una lunghezza di 350 metri in direzione Nord-Sud, saranno disposti invece i padiglioni del paese ospitante: l’Italia. A nord sorgeranno strutture tese a rappresentare i diversi territori della penisola, a sud si troveranno le aziende del Made in Italy, che hanno saputo rispondere al tema dell’alimentazione e della sostenibilità assicurando ai loro prodotti livelli di eccellenza.

Non è la prima volta che Milano è sede di una Esposizione, anche se questa volta si tratta di un evento allestito per così dire alle porte della città. Il Comune ambrosiano ha vissuto in passato due esposizioni che hanno segnato profondamente la sua storia e che possono ragionevolmente essere avvicinate ad Expo 2015.

In questo post accennerò all’Esposizione Industriale del 1881 perché si lega assai bene al tema delle imprese Made in Italy.  Per ragioni di spazio, dedicherò invece a un altro intervento il tema dell’Esposizione Internazionale del 1906….quindi per dirla all’inglese…stay tuned!!! 

Diversamente da Expo, l’Esposizione del 1881 era ristretta all’Italia. Finanziata dalla Camera di Commercio di Milano, essa mostrò ai cittadini quali fossero i progressi dell’industria nazionale a vent’anni dall’Unità. Un milione e mezzo di visitatori accorsero all’Esposizione, i cui padiglioni furono allestiti nei giardini di Porta Venezia, nell’attuale via Marina e nella villa reale di via Palestro. Ho detto che si trattava di un’iniziativa a carattere nazionale. Essa coinvolse un numero cospicuo di imprese milanesi e lombarde, la cui presenza sul totale degli espositori era pari al 40%.

Notevole per quell’epoca il livello tecnologico raggiunto dai grandi cotonifici: la Cantoni (420 telai), la Crespi (200) e la ditta dei fratelli Borghi (300) mostrarono i progressi nell’integrazione tra filatura e tessitura in una struttura che aveva interamente meccanizzato le fasi di produzione. Inoltre si facevano notare aziende che, quantunque avessero dimensioni più contenute, lasciavano intuire già in quegli anni i futuri sviluppi di eccellenza: i Legler di Ponte San Pietro, i Krumm di Carate Brianza, i Caprotti di Ponte Albiate, i Turati e i Dell’Acqua di Milano che avevano stabilimenti a Busto Arsizio e a Legnano.

Ma a colpire i visitatori furono soprattutto i padiglioni del settore meccanico, ove per la prima volta facevano bella figura macchinari Made in Italy. Tra le aziende presenti c’era ad esempio la Cerimedo (che di lì a poco avrebbe dato i natali alla Breda) specializzata nella produzione di motrici per tram; la Grondona attiva nel comparto delle carrozze e vagoni ferroviari; la Krumm e C. di Legnano che nel dicembre di quell’anno avrebbe mutato la denominazione in Franco Tosi: attiva nella produzione di macchine tessili, tale azienda si andava specializzando nelle motrici e nelle caldaie a vapore.

Il livello tecnologico conseguito dall’industria nazionale dovette colpire notevolmente il milione e mezzo di visitatori accorsi a Milano dal 6 maggio al primo novembre del 1881. Anche gli stranieri non fecero mancare la loro presenza, incuriositi da una iniziativa che consentiva loro di toccare con mano il progresso dell’industria italiana. Un giornalista tedesco del “Berliner Tageblatt”, giunto a Milano per assistere all’evento, non poté trattenere l’entusiasmo per la buona riuscita dell’Esposizione. Nella sezione Mailander Austellungsbriefe scrisse:

“Se Cavour vedesse oggi Milano egli si darebbe una di quelle storiche fregatine di mano che indicavano qualche successo italiano, e direbbe: l’Italia che fu chiamata per lungo tempo terra dei morti, oggi mostra che è il paese dei vivi. L’Esposizione è un’opera imponente, compiuta dall’orgoglio coraggioso e dall’audace spirito d’iniziativa dei cittadini milanesi. Essi possono anche questa volta dire, francamente, che la loro città ha diritto di chiamarsi la capitale morale d’Italia”.

Due associazioni d’élite nella Milano della Restaurazione

Nell’articolo precedente abbiamo visto come nella Milano di fine Ottocento il fenomeno delle associazioni avesse assunto una dimensione ragguardevole grazie alla libertà di riunione garantita dallo Statuto Albertino. Abbiamo anche notato come quelle associazioni fossero in larga parte una realtà borghese o piccolo borghese.

Ingresso di Francesco I nel 1825 da Porta Orientale
Ingresso dell’imperatore d’Austria Francesco I da Porta Orientale, 1825. Fonte: Wikipedia.

La situazione era completamente diversa nella Milano della Restaurazione, quando la città a partire dal maggio 1814 tornò sotto il dominio dell’impero asburgico. Non dobbiamo pensare che l’Austria avesse soffocato d’improvviso lo spirito associativo lombardo. Esso giaceva in uno stato di “mortale languore” già negli anni della repubblica italiana e del regno d’Italia napoleonico (1802-1814) quando lo Stato, retto su una Costituzione autoritaria, aveva sottoposto a rigida tutela il mondo delle società. Difatti, il decreto 130 emanato il 27 dicembre 1802 dal ministro dell’interno vincolava all’autorizzazione del governo qualsiasi tipo di associazione: ottenere il permesso non era semplice giacché occorreva trasmettere allo Stato “il piano dell’associazione colla specificazione degli oggetti e regolamenti rispettivi”. Il decreto stabiliva poi che un “delegato di polizia” avrebbe avuto accesso alle riunioni affinché le autorità potessero sorvegliare l’attività del sodalizio. Ho citato il decreto del 1802 perché esso regolò il mondo delle associazioni milanesi sostanzialmente fino all’Unità d’Italia. L’Austria non apportò cambiamenti. Si limitò a confermare il dettato della normativa esistente. Nulla di cui stupirci: l’impero asburgico era una monarchia il cui regime autoritario era pari a quello napoleonico, sia pure mitigato da alcuni istituti di autogoverno comunale e di rappresentanza corporativa che il Sovrano aveva graziosamente concesso al Lombardo Veneto.

Ma quante erano le associazioni nella Milano della Restaurazione, negli anni immediatamente seguenti alla caduta di Napoleone (1815-1821)? Assai poche. Basterebbero le dita di una mano per contarle tutte. Esse interessavano una ristretta élite composta di aristocratici e di personalità appartenenti all’alta borghesia cittadina. Ci soffermeremo sulle due più importanti, il Casino dei Nobili e la Società del Giardino.

Palazzo Talenti Fiorenza in via Verdi 6
Palazzo Talenti Fiorenza in via Verdi 6  da www.lombardiabeniculturali.it

Il Casino dei Nobili si trovava nel palazzo Talenti Fiorenza nella contrada di San Giuseppe al civico 1602 (oggi via Verdi 6), a due passi dal Teatro alla Scala. Sorto nel 1800, il sodalizio nasceva per riunire la nobiltà in un luogo esclusivo di ricreazione. Il che lascerebbe presupporre che l’unica condizione per farvi parte fosse la nobiltà di sangue. In realtà le cose non stavano esattamente così. Difatti per accedervi occorreva disporre dell’Hofzutritt, vale a dire dell’accesso alla corte imperiale. Non tutti i nobili potevano godere di questo privilegio. V’era poi un altro requisito: le persone di sangue blu dovevano disporre di un notevole patrimonio per pagare le quote associative, piuttosto alte. Se il richiedente non era in grado di pagare, non era ammesso. Si trattava di un criterio censitario che, a ben vedere, non aveva nulla da spartire con le logiche corporative della società d’ancien régime: logiche in base alle quali un individuo non contava per la sua ricchezza o per la capacità di produrre beni materiali, ma godeva dei diritti legati alla funzione che il suo ceto di appartenenza rivestiva nella società. La Rivoluzione francese aveva segnato il crollo di quel mondo e, nonostante le apparenze, i nobili che avevano aderito al Casino mostrarono di accettare il nuovo principio della società civile a matrice individualistica. Dando vita a questa società sul modello della società per azioni, essi accolsero la logica – tutta borghese – del diritto a godere di un servizio per il quale una persona, agendo di sua libera iniziativa, aveva scelto di pagare versando una quota in denaro.

Palazzo Spinola, Sala d'Oro
Palazzo Spinola in via San Paolo 10, Sala d’Oro.

Diversamente dai nobili, il cui casino si era eclissato già negli anni Cinquanta dell’Ottocento, la Società del Giardino esiste ancora oggi. Si tratta del sodalizio più antico di Milano, la cui fondazione risale agli anni Ottanta del XVIII secolo. A farne parte erano i più alti esponenti della borghesia del commercio e delle professioni. Nel periodo che ci interessa esso attraversava una stagione di splendore: l’acquisto nel 1818 del palazzo Spinola in contrada San Paolo al civico 935 (oggi via San Paolo 10) conferì alla Società del Giardino una certa fama. Vi si tenevano riunioni culturali, ma anche concerti alla presenza di star dell’epoca quali Giuseppina Grassini e Giuditta Pasta. Anche in questo caso si trattava però di una società d’élite. Ce lo indicano le elevate quote di associazione.

In una città popolata da 120.000 abitanti, il fenomeno associativo riguardava alcune centinaia di persone, pari allo 0,5% dei milanesi. Qualcuno potrebbe chiedersi cosa spingesse questi ricchi esponenti del notabilato a riunirsi in tali società. Era così importante ritrovarsi in un locale per giocare a biliardo, fumare sigari, assistere a lezioni di cultura, ascoltare la voce di cantanti famose oppure questi tranquilli sodalizi nascondevano una finalità politica? La domanda non è affatto fuori luogo perché in Inghilterra e in Germania molte associazioni di questo tipo preoccupavano le autorità per le attività cospirative che vi si conducevano.

Tranquilli: nulla di cui preoccuparsi per i sodalizi milanesi, sorti – sembrerebbe di poter dire – con il solo obiettivo di passare il tempo in allegria. Ce lo assicura un funzionario della polizia austriaca, Anton Raab,in una relazione al governatore della Lombardia Franz Saurau risalente al 1817:

“I casini italiani sono cose diverse dai circoli tedeschi o inglesi, che sono in realtà riunioni politiche, pericolose e tumultuose. In Italia non è d’uso ricevere in casa la sera in grande stile, né esiste una socialità familiare allargata. Per questo vengono istituiti i casini; per divertirsi la sera senza vincoli. Nei casini si scherza, si gioca, talvolta si fuma, e ci si intrattiene come meglio si crede. I casini sono luoghi d’espressione della voglia di scherzare, così tipica del carattere degli italiani”.