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Perché la Lombardia Sì merita più autonomia

Mancano ormai poche ore all’apertura dei seggi per il referendum sull’autonomia della Lombardia.

Chi ha letto i miei articoli sul Monitore sa che mi sono battuto in passato per una riforma della Costituzione in senso autenticamente federale. Purtroppo la Costituzione italiana non è una Costituzione federale. Tuttavia  la riforma della Carta avvenuta nel 2001 (approvata dagli italiani con referendum) ha attribuito maggiori autonomie alle Regioni e prevede addirittura una procedura che consente di accrescere ulteriormente i loro poteri mediante un’intesa con il governo centrale approvata dal Parlamento a maggioranza assoluta: è una via che porterebbe a un regionalismo differenziato assai vicino al federalismo, una via pensata per quelle Regioni – come Lombardia, Veneto e tante altre con conti in ordine e servizi efficienti – che si sentissero pronte per esercitare  nuove funzioni con le relative risorse. E’ quanto prescrive l’articolo 116, terzo comma della Costituzione.

Maroni e Zaia, i due governatori di Lombardia e Veneto che hanno organizzato i referendum nelle rispettive Regioni, chiedono il consenso dei cittadini a trattare con Roma migliori condizioni di autonomia. Molti, soprattutto nel centrosinistra, hanno criticato la decisione di spendere risorse pubbliche per i referendum:  sostengono che i due governatori avrebbero potuto trattare direttamente con il governo centrale come sta facendo in questi mesi il presidente dell’Emilia Romagna Stefano Bonaccini. In realtà, occorre rilevare che l’Emilia – gestita da un’amministrazione di centrosinistra – ha deciso di trattare con il governo (di centrosinistra) solo dopo che Maroni e Zaia avevano annunciato la decisione di indire i referendum per l’autonomia. Se i due governatori lombardo veneti non si fossero mossi in tal senso, è difficile pensare che l’Emilia si sarebbe spinta fino a chiedere ulteriori poteri al governo centrale. In secondo luogo, Maroni e Zaia hanno organizzato i referendum nel pieno rispetto di  un’ordinanza della Corte costituzionale, che nel 2001 ha stabilito che nel caso di “scelte fondamentali di livello costituzionale” tra Regione e Stato, sia del tutto legittimo ricorrere a una consultazione referendaria. L’attribuzione di ulteriori poteri a una Regione ex articolo 116, terzo comma, è certamente una scelta fondamentale di livello costituzionale perché renderebbe Lombardia e Veneto due Regioni “speciali” con poteri e attribuzioni vicini a quelli del Trentino o del Friuli Venezia Giulia. In attesa di una riforma costituzionale in senso autenticamente federale, credo che la via ex art.116 terzo comma, sia lo strumento migliore per garantire maggiore autonomia al Lombardo Veneto. Per questo motivo andrò a votare e voterò Sì al referendum.

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Il Governatore della Regione Lombardia, Roberto Maroni

Non mi aspetto certamente che le cose cambino tutto d’un tratto. E’ difficile che il governo centrale, da sempre condizionato dagli interessi corporativi della burocrazia romana, sia disposto a sedersi a un tavolo per attribuire realmente più poteri e risorse alle due Regioni. Un’alta affluenza alle urne e una vittoria imponente dei Sì suonerebbero tuttavia come un campanello d’allarme per la classe politica romana, rendendola consapevole che una riforma costituzionale non potrà prescindere in futuro da un assetto rigorosamente federale dei pubblici poteri. Ricordo che nella riforma costituzionale del centrosinistra bocciata dagli italiani il 4 dicembre 2016, il federalismo era assente e si era deciso addirittura di limitare i poteri delle Regioni. Ecco, non foss’altro che per riportare al centro la questione delle autonomie, val la pena recarsi al seggio e votare Sì.

La Lombardia e il Veneto hanno saputo assicurare ai cittadini servizi pubblici di qualità. Certo, casi di malversazione e di corruzione si sono verificati anche al Nord. C’è ancora molto da fare per migliorare in molti settori. Eppure, se paragoniamo questi servizi con quelli di altri territori in Italia, le due Regioni si pongono in vetta alla classifica.

Inoltre mi sembra legittimo che una Regione come la Lombardia – la cui cultura di autogoverno e autoamministrazione risale in molti casi ai secoli della dominazione asburgica – possa disporre di maggiori risorse ed estendere le proprie competenze esclusive in settori quali la giustizia di pace, la tutela ambientale, la tutela della cultura, la gestione dell’istruzione, l’agricoltura, l’ordinamento comunale e tanti altri. Che senso ha che a Roma vengano gestiti servizi che la Regione può assicurare meglio e a un costo minore? Lo stesso vale per il Veneto.

Secondo i sostenitori del No – presenti soprattutto in una parte del centro-sinistra – l’attribuzione alla Lombardia di ulteriori competenze, oggi gestite in tutto o in parte dallo Stato centrale, porterebbe a una retrocessione dell’Italia in campo europeo. Un’Italia in cui Lombardia e Veneto avessero all’incirca le stesse competenze del Trentino Alto Adige – dicono – finirebbe per essere uno Stato diviso, frammentato, privo di spina dorsale. In secondo luogo, ritengono che l’idea di una Lombardia autonoma, “fai da te”, sia anacronistica, legata a un periodo storico – gli anni Novanta – definitivamente passato.

Sono due tesi che mi trovano in disaccordo. Quanto alla seconda, basta guardare a quanto sta accadendo in Catalogna. Siamo proprio sicuri che le piccole patrie siano al tramonto? O non stiamo forse entrando in un’epoca in cui i bisogni dei cittadini si fanno sempre più complessi e richiedono apparati pubblici snelli, i cui servizi siano maggiormente soggetti al controllo della comunità locale? Certo, c’è una grande differenza tra la Catalogna e il Lombardo Veneto. La prima ha indetto un referendum sull’indipendenza violando la Costituzione spagnola. In Lombardia e Veneto si terranno al contrario due referendum sull’attribuzione di maggiori autonomie nel pieno rispetto della Costituzione.

La prima argomentazione rivela invece la mancanza di cultura federale in molta parte della classe dirigente e della classe politica di questo Paese. Il modello di riferimento resta quello giacobino dello Stato unitario, di un’Italia ancora pensata come un corpo vivente i cui organi – le Regioni – possono svolgere le loro funzioni purché stiano accucciati sotto il potere centrale, subordinati ai supremi interessi di una Nazione rappresentata come un blocco immutabile. Riferirsi all’Italia – come fanno i detrattori del referendum lombardo – con espressioni quali “spina dorsale” per indicare la necessità di un Paese forte, potente, capace di decidere contro ogni presunta divisione rappresentata dalle autonomie speciali, è segno di una visione nazionalista che sacrifica ogni diversità sull’altare di un’artificiosa unità.

Settant’anni di Repubblica unitaria non hanno ridotto le diseguaglianze tra Nord e Sud; le hanno accresciute. Colpevole dei mali italiani non è quindi il federalismo, che in Italia non è mai esistito. I nostri difetti risiedono piuttosto nella struttura rigidamente burocratica dei pubblici poteri, nella cultura formalistica di uno Stato le cui leggi sono lunghe, oscure e cavillose; in un’amministrazione statale farraginosa, lenta e costosa, ingabbiata in un formalismo normativo che lascia in secondo piano l’attenzione al risultato, al fine da raggiungere. Occorre al contrario che lo Stato centrale si ritiri da alcuni servizi pubblici, lasciando alle Regioni virtuose i poteri e le risorse per esercitare quelle funzioni con maggiore efficienza nell’interesse dei cittadini.

Guardiamo all’estero, ai Paesi governati da una Costituzione federale. In Germania il federalismo non ha affatto indebolito l’unità dei tedeschi. Un bavarese o un cittadino del Baden si sentono diversi da un berlinese, come quest’ultimo da un cittadino della Sassonia: tutti e quattro sono coscienti di avere tradizioni, stili di vita, istituzioni politico amministrative differenti; nelle loro Regioni (i Länder) risiede una parte significativa dell’amministrazione pubblica e la stessa legislazione sugli enti locali è di competenza regionale. Eppure tutti questi cittadini si riconoscono nelle istituzioni federali del loro Paese, si sentono tedeschi. L’Italia presenta da sempre un policentrismo, un particolarismo territoriale che è per certi versi assai simile a quello tedesco. A me sembra che il federalismo costruito a partire dalle Regioni – alcune delle quali unite in Macroregioni – possa avvicinare i cittadini alle istituzioni della Repubblica. E’ così che l’Unità si costruisce dal basso, dalle Comunità territoriali in cui i cittadini si riconoscono. L’Unità artificiosa costruita dall’alto ha finito per converso con l’allontanare i cittadini dalle istituzioni. I dati sull’affluenza alle urne sono lì a ricordarcelo.

Non basta. Più autonomia significa che maggiori fondi verrebbero trasferiti dallo Stato in Lombardia come avviene oggi in Trentino: risorse che la Regione potrà investire in tanti settori a sostegno dell’economia locale. Questo, com’è facile immaginare, consentirebbe di incrementare ulteriormente il ruolo di Milano, ma anche di potenziare lo sviluppo della Lombardia accrescendo il suo ruolo di locomotiva del Paese a beneficio di tutta l’Italia. La piccola patria lombarda, libera di agire in modo responsabile senza dipendere dai vincoli burocratici dello Stato centrale, potrebbe essere un esempio di buona amministrazione in tanti campi che oggi sono inspiegabilmente sottratti alla competenza delle Regioni. Più risorse quindi, maggiori funzioni, più responsabilità perché la Lombardia le merita. La prossima sfida sarà riportare il tema delle autonomie al centro delle riforme costituzionali perché il federalismo è gestione, tutela e salvaguardia delle diversità in un ordinamento in cui le istituzioni territoriali sono in concorrenza tra loro.