Date milanesi

9 settembre 1861. Il sindaco di Milano Antonio Beretta rese noto il trasferimento della giunta e degli uffici comunali nel palazzo Marino. Allo Stato italiano, costituito da pochi mesi, venivano ceduti i locali dell’antica sede del municipio, il “Broletto novissimo” sito nella via omonima.
Costruito dal finanziere genovese Tommaso Marino, che aveva accumulato ingenti ricchezze mediante la gestione dell’appalto del sale per lo Stato di Milano, il palazzo si segnala per la veste architettonica fastosa e imponente. I lavori iniziarono nel  1558, diretti dall’architetto Galeazzo Alessi. L’andamento delle operazioni fu assai lungo e si rivelò ben presto oneroso per le tasche del ricco genovese, il quale fu costretto a chiedere aiuti e sovvenzioni alla Regia Camera. Ciononostante, due anni dopo il Marino continuò a dare disposizioni perché “gagliardamente si fabbrichi nel suo palatio, il quale, finito, sarà il più bello che si trovi in cristianità e costaragli un pozzo d’oro” (sic!). 
Sul palazzo circolava tra i milanesi una lugubre profezia legata alle spregiudicate e criminose operazioni della famiglia Marino: 
Congeries lapidum, multis congesta ruinis, 
Aut ruet aut uret aut alter captor rapiet
(Ammasso di pietre, messo insieme con molte sciagure, 
o crollerà, o brucerà oppure un altro prepotente conquisterà).
E’ lecito chiedersi se gli inquilini di palazzo Marino siano a conoscenza di questa innocua profezia meneghina.

Fini e la svolta di Mirabello

Il discorso che Gianfranco Fini ha tenuto nella cittadina ferrarese di Mirabello ha il sapore di una sfida lanciata a Silvio Berlusconi e a Umberto Bossi. Certo, Fini si è guardato bene dall’attaccare frontalmente il governo, denunciando tout court la politica seguita dal centro destra. Ma è facile intravedere, nella studiata moderazione delle sue parole, un attacco esplicito ai partiti che hanno vinto le elezioni del 2008.
Il Popolo della Libertà e la Lega Nord vengono accusati di aver perseguito troppo spesso, nell’azione del governo, interessi particolari di territori o di categorie di cittadini a danno di altre. Fini ha criticato i provvedimenti di contenimento della spesa pubblica portati avanti dal governo, puntando l’indice contro i tagli ai fondi per la polizia, alle risorse per la pubblica istruzione, lasciandosi andare a una serie di critiche che neppure l’opposizione ha saputo fare in questi anni con pari intensità. Sulla riforma del processo breve, il presidente della Camera ha difeso la Magistratura affermando che “il garantismo non può essere mai considerato una sorte di immunità permanente”. Evidente il riferimento ai progetti del governo sul “processo breve” o alla polemica insorta alcuni mesi fa sul disegno di legge relativo alle intercettazioni.
Insomma, il suo è stato un discorso da vero leader politico, il che finisce per rendere assai poco credibile il ruolo di terzietà e di garanzia richiesto dall’ufficio di presidente della Camera. Oggi Berlusconi, dopo l’accordo preso ieri al vertice di Arcore con Umberto Bossi, salirà al Colle per chiedere al presidente della Repubblica di convincere Fini a dimettersi dall’incarico che attualmente ricopre. Una richiesta che i finiani hanno buon gioco a definire irricevibile, visto che in questa Costituzione parlamentare il Capo dello Stato, quale garante dell’ordinamento repubblicano, non può arrogarsi il compito di dimettere il presidente di un’assemblea parlamentare o fare pressioni perché questi lasci l’incarico.        
A Mirabello Fini ha denunciato l’assenza nel Popolo della Libertà di uno spazio per una sana dialettica tra le varie correnti, sostenendo che la politica – nel senso etimologico del termine – dovrebbe tendere costantemente alla promozione del bene della comunità (dal greco antico: polis, città, comunità). Fini ha ragione nel contestare al Pdl una gestione scarsamente rispettosa nei confronti di chi la pensa diversamente da Berlusconi. Ma un partito ove la linea del Capo riscuote il consenso del 90% dei seguaci attivi, avrebbe dovuto fargli capire che la discussione di idee alternative a quelle della stragrande maggioranza viene a cessare una volta che la linea da seguire sia stata decisa. Rilasciando continue dichiarazioni in polemica con Berlusconi, Fini sembra aver rubato il mestiere all’opposizione. Berlusconi e Bossi hanno buone ragioni per chiedere le dimissioni al presidente della Camera, ma sbagliano a fare pressioni sul Capo dello Stato perché la Costituzione vigente non prevede che il presidente della Repubblica possa svolgere il compito ch’essi vorrebbero attribuirgli.
Prendendo in esame con il metodo della scienza politica quanto sta avvenendo nel centrodestra,  non Fini, ma  il Cavaliere sembra esser rimasto coerente  alla  s u a   politica, il che può sembrare un paradosso ma è difficilmente contestabile. Berlusconi ha ottenuto un notevole sostegno popolare nel corso di questi quindici anni: assieme alla Lega, rappresenta la promessa di un cambiamento radicale dell’ordinamento costituzionale in netta rottura con i tradizionali equilibri della cosiddetta Prima Repubblica. La riforma della Carta in senso federale e presidenziale costituisce la chiave di volta dell’accordo tra Berlusconi e Bossi. 
In questi ultimi anni, Fini ha dimostrato invece di credere nella validità dei principi cardine su cui si regge la Costituzione parlamentare. Egli si è posto in tal modo sulla stessa linea d’onda del centro sinistra. Credo che il  partito che si accinge a fondare non avrà molta fortuna, e questo per la sua affinità con il Partito democratico, con l’Udc di Casini, con il movimento di Rutelli. 
Le leggi della politica, diceva Max Weber, non si fondano sui dubbi e sui compromessi, bensì sulle certezze e sulla fedeltà del leader ai valori guida del movimento. Gianfranco Fini, criticando pubblicamente una parte rilevante dei provvedimenti del governo, non solo ha tradito la funzione di terzietà che dovrebbe spettare al presidente della Camera, ma ha finito per smontare i valori guida su cui si regge l’operato del governo. In tal modo, egli si è fatto portatore di  valori   a l t e r n a t i v i  ed  o p p o s t i  a quelli di Berlusconi e della Lega, seguendo una politica che non può essere accettata in alcun modo dai suoi (ex) compagni di coalizione.
E’ facile immaginare che nei prossimi mesi i gruppi parlamentari di Futuro e Libertà, costituiti per iniziativa di Fini, avranno due obiettivi. Annientare il Pdl berlusconiano e fermare la Lega. Una strategia condivisa ovviamente dall’Udc, da  Rutelli, dal Partito democratico e dall’Italia dei Valori: tutti uniti nel fermare ogni ipotesi di cambiamento radicale dell’ordinamento costituzionale.
Ma il presidente della Camera intende fare molto di più. Egli vuole salvare l’Italia così com’è,  “una e indivisibile”, opponendosi ad ogni riforma in senso autenticamente federale. Difatti a Mirabello non sono mancati attacchi nei confronti del programma della Lega. “Solo un ignorante di storia e geografia può credere all’esistenza della Padania” ha detto il presidente della Camera, aggiungendo che uno Stato regionale indipendente non potrebbe reggere in alcun modo una crisi economica come quella appena passata. “Se la crisi ha provato duramente un colosso come la Germania, figuriamoci cosa sarebbe accaduto se ci fosse stata una Padania indipendente” ha detto Fini. Sull’attendibilità di quest’analisi è lecito nutrire qualche dubbio. Seguendo il suo ragionamento, gli Stati piccoli non avrebbero alcuna chance nel mondo globale. Se le cose stessero realmente in questi termini, paesi come la Repubblica Ceca, la Slovenia, l’Austria, il Belgio, l’Olanda o i paesi scandinavi  – tutti con  popolazioni al di sotto dei 20 milioni di abitanti – non dovrebbero esistere. Invece non solo esistono,  ma sono anche ben governati e amministrati come dimostrano le statistiche del World Economic Forum.
Ma, tornando al tema Padania, credo siano opportune alcune precisazioni. Relativamente alle nozioni geografiche, basta aprire il manuale di Geografia economica e sociale di Angelo Mariani, edito da Hoepli or son precisamente cent’anni, nel 1910, per trovare notizie particolarmente “scomode” per quanti negano l’esistenza di una Padania geografica: il concetto geoeconomico di Padania viene infatti preso in esame mettendo in luce i suoi elementi di diversità dall’Appenninia. Non basta. Quasi settant’anni dopo, il geografo Jean Gottmann, in un saggio pubblicato nel 1978 nel volume curato da Calogero Muscarà (Megalopoli mediterranea,  Milano, Franco Angeli 1978) confermò la prospettiva di una megalopoli padana. Insomma, solo i geografi influenzati dai valori dello Stato nazionale italiano hanno negato negli ultimi mesi  l’esistenza geografica della Padania.
Relativamente alla storia, Fini ha ragione nel sostenere che uno Stato esteso a tutto il Nord Italia non è mai esistito. Ma non si può sapere cosa avverrà nei prossimi anni. In fondo, chi avrebbe mai immaginato, nell’Europa della Restaurazione, che gran parte della penisola italiana sarebbe stata unificata in soli due anni da un piccolo Stato regionale come il Piemonte dei Savoia? Eppure fu quel che accadde, principalmente grazie all’opera di un politico spregiudicato come il conte di Cavour. Allo stesso modo, non vedo come si possa escludere che l’Italia torni ad essere nei prossimi anni un’espressione geografica, una penisola articolata in più Stati come la Scandinavia. 

Moratti bis? Non è il caso…

L’anno prossimo i milanesi saranno chiamati ad eleggere il sindaco. Il bilancio dell’amministrazione Moratti non è entusiasmante. Milano continua ad essere una città invivibile, inquinata e sporca. I lavori per l’Expo 2015 sembrano bloccati o in colpevole ritardo nella tabella di marcia. Le infiltrazioni della criminalità organizzata nel mondo degli appalti sono diventate comuni e restano per lo più impunite. La scelta di introdurre l’Ecopass facendo pagare agli automobilisti l’ingresso nel centro storico è stata a dir poco negativa: ha salassato i milanesi e non mi pare sia riuscita a ridurre in modo incisivo l’inquinamento, che resta il nemico più pericoloso per quanti abitano nella città del Duomo. D’altra parte bisogna riconoscere che nei quattro anni di amministrazione Moratti ci siano anche delle belle pagine. Ad esempio il bike sharing – il noleggio delle biciclette che il Comune ha reso disponibile da pochi anni –  costituisce per i milanesi un servizio importante. Eppure, anche qui, non mancano i dati negativi: le piste ciclabili non sono sufficienti a garantire una perfetta circolazione dei velocipedi e le stazioni ove è possibile noleggiare la bicicletta sono pressoché assenti nelle periferie. Insomma, c’è ancora molto da fare.

Il sindaco Moratti intende ricandidarsi alle elezioni amministrative del prossimo anno. Nel Pdl cittadino serpeggiano malumori. Evidentemente si devono essere accorti che la giunta attuale ha deluso una parte notevole di milanesi. La Lega Nord non ha esitato a render note, alcuni mesi fa, le più forti riserve nei confronti della nuova candidatura della signora Moratti. Alla fine Berlusconi, come al solito, riuscirà a sciogliere il nodo gordiano e preparerà accuratamente  la nuova scalata a palazzo Marino. A mio parere, è auspicabile che il centrodestra richiami il buon Gabriele Albertini, che ha già amministrato la città dal 1997 al 2006 e non mi pare che abbia fatto in quel periodo una pessima prova. I milanesi lo riconfermarono infatti nelle elezioni amministrative del 2001. Se verrà dato l’ok alla ricandidatura del sindaco Moratti, il centrodestra rischierà di perdere clamorosamente il Comune di Milano.                 

Dall’altra parte dello schieramento politico, nel centrosinistra, si sono fatti avanti Stefano Boeri e Giuliano Pisapia. Sono convinto che Philippe Daverio sia l’unica persona che potrebbe far vincere il centro sinistra. Brillante uomo di cultura,  milanese doc, Daverio saprebbe amministrare bene la città perché conosce a fondo la storia di Milano (il che, al giorno d’oggi, non è da tutti) e possiede quelle doti intellettuali che, messe adeguatamente a frutto, potrebbero contribuire a fare di Milano una capitale europea, una città più aperta all’innovazione di quanto lo sia ora, amministrata da una squadra impegnata a 360 gradi nella valorizzazione del patrimonio storico, artistico e paesaggistico (i Navigli in primis).

Mi chiedo se il dottor Daverio sia disponibile a ricoprire l’ufficio di Sindaco di Milano. Il sottoscritto, che non è elettore del centrosinistra ma appartiene ai federalisti milanesi parzialmente delusi dall’amministrazione Moratti, lo voterebbe senza esitazioni.

Date milanesi

Il 3 settembre 1402 moriva a Melegnano Gian Galeazzo Visconti, primo duca di Milano. Sotto il suo governo lo Stato milanese conseguì la sua massima estensione territoriale.
Fu uomo di Stato e politico spregiudicato. Nel 1385 uccise lo zio Bernabò conquistando la signoria su Milano e sulle altre città lombarde. Negli anni seguenti condusse un’audace e brillante campagna di espansione territoriale, ottenendo il dominio sulle città di Verona, Vicenza, Padova, Pisa, Siena, Perugia, Assisi e Bologna.
Sotto il suo governo Milano divenne una città ricca e popolosa. A lui si deve la costruzione del Duomo di Milano e della Certosa di Pavia.

Per volontà testamentaria, il suo corpo venne smembrato: le viscere portate nella chiesa di Sant’Antonio di Vienne in Francia, il cuore conservato nella chiesa di San Michele di Pavia, il corpo nella Certosa. Il funerale fu grandioso e spettacolare. La cura per gli allestimenti scenici era fatta per mostrare la potenza cui era giunto il ducato visconteo. Lo storico erudito Giorgio Giulini, nella sua storia di Milano pubblicata tra il 1760 e il 1775, ne fornì una memorabile descrizione.

“La gran processione cominciò dal castello di Porta Giovia (l’attuale Castello Sforzesco, ndr), e terminò nella chiesa maggiore (il Duomo), e così lunga fu la funzione che appena potette compirsi nello spazio di quattordici ore. […]
Fra i legati del Milanese v’ebbero luogo quelli di Varese, di Lecco e di Monza…a tutti questi aggiungevasi un gran numero di nobili delle medesime città e luoghi dello stato. Vennero poi tutti gli ordini religiosi, i canonici regolari, ed il clero secolare, e poi gli abati e i vescovi di tutte le città suddite. Seguivano le insegne delle medesime città e de’ luoghi principali, portate da dugento quaranta (240) uomini a cavallo, dietro ai quali otto uomini a cavallo con le insegne ducali. Dopo questi si videro 2000 uomini vestiti a bruno, colle armi della vipera del ducato di Milano e del contado di Pavia cucite nel petto e sulle spalle, portando in mano grossi torchi (torce) di cera. Quindi cominciò ad apparire il clero e i canonici ordinari della metropolitana, e per ultimo l’arcivescovo Pietro da Candia con altri arcivescovi e vescovi, avanti la cassa.

Quella cassa, per altro vuota, era portata da gran numero de’ signori principali forestieri, e così pure era portato il baldacchino di broccato d’oro foderato d’ermellini sopra di essa, circondato da ogni parte da gran numero di cortigiani tutti vestiti a lutto, dodici de’ quali, e poi dodici altri, portavano gli scudi delle varie insegne del duca e fra le altre la tortorella o piccione col raggio di sole ch’egli aveva eletta per suo simbolo, ed il simbolo della ginestra e quello dell’imperatore”.

G. GIULINI, Memorie di Milano ne’ secoli bassi, Milano, Cisalpino Goliardica 1975 (ristampa anastatica dell’edizione del 1857), vol. VI, pp.59-60

Bozzetti satirici da frammenti di storia/2

Pseudolettera di Pietro Verri ai fratelli e agli amici, Milano 2 settembre 1761

“Il Signor Conte di Firmian (Carlo di Firmian, ministro plenipotenziario della Lombardia austriaca, potente uomo di governo in costante rapporto con l’imperatrice Maria Teresa e con i supremi funzionari di Vienna, ndr) mi fece cento proteste di amicizia, e che voleva che travagliassimo assieme, m’invitò varie volte a pranzo, e non mi ha mai dato cosa alcuna da fare.

Io ho creduto di dargli un saggio di me con una scrittura che mette in chiaro le regalie del sale (diritto del sovrano in materia fiscale, Ndr), le variazioni che hanno sofferte nei tempi passati, il sistema attuale etc. e con questa occasione vi si è fatto luogo a toccare alcune idee generali. Gliel’ho consegnata ricopiata di mio carattere nel mese scorso, e non vi ho acquistato altro se non che ora nemmeno m’invita a pranzo”.

Pseudolettera di Gianfranco Fini ai suoi fratelli di partito e agli amici, 2 settembre 2010

“Il Signor Gianni Letta (ministro plenipotenziario, potente uomo di governo dell’imperatore di Arcore) mi fece cento proteste di amicizia, desiderava che lavorassimo assieme per tutelare gli interessi comuni e m’invitò varie volte a pranzo.

Io credetti di dargli un’idea della mia fedeltà alle istituzioni repubblicane, facendogli un discorso che voleva mettere in chiaro le regole del sistema parlamentare – sale della democrazia – i mutamenti che esso ha sofferto nei tempi passati, la degenerazione in cui versa l’attuale regime. Finimmo per parlare di questioni costituzionali. Alla fine….non vi ho acquistato altro se non che ora nemmeno m’invita a pranzo”.

Lo show di Gheddafi a Disneyland Italia

E’ facile immaginare che il soggiorno a Roma di Muammar Gheddafi finirà per rafforzare ancor più i rapporti economici tra Italia e Libia. Grazie alla stretta amicizia tra il premier Berlusconi e il colonnello libico gli investimenti italiani nel paese africano non potranno che beneficiarne in misura notevole.

Ma le dichiarazioni che Gheddafi ha rilasciato nel corso della sua visita romana hanno provocato serio imbarazzo nell’opinione pubblica italiana e non sembrano agevolare i rapporti diplomatici. Ieri il raìs, intervenendo all’Accademia libica circondato da una folla di ragazze italiane appositamente reclutate dall’agenzia Hostessweb, non solo ha invitato le avvenenti fanciulle a convertirsi all’Islam, ma ha sostenuto che la religione di Maometto dovrebbe “diventare la religione di tutta l’Europa”. In un continente la cui civiltà è radicata fortemente nel cristianesimo, in un paese come l’Italia giardino del cattolicesimo romano, in una Roma antica capitale del potere pubblico pontificio e tuttora sede dello Stato Vaticano, tali dichiarazioni rivelano il tentativo maldestro di irridere la civiltà europea e ancor più la religione cattolica su cui si fonda in larga parte l’identità italiana. Le dichiarazioni rilasciate oggi dal colonnello libico non contribuiscono a gettare acqua sul fuoco. Esse sembrano mostrare addirittura un certo atteggiamento sprezzante nei confronti dell’Occidente. Gheddafi ha chiesto all’Unione europea cinque miliardi di euro in cambio della sua opera di contrasto all’immigrazione clandestina. In caso contrario, ha detto senza mezzi termini il raìs “l’Europa potrebbe diventare Africa, potrebbe diventare nera”.

Qualunque uomo di Stato in visita in un paese straniero si guarderebbe dal rilasciare simili dichiarazioni. Il guaio è che il soggiorno italiano di Gheddafi, lungi dal presentare i caratteri di un viaggio diplomatico, assomiglia terribilmente alla gita spensierata di un turista spaccone in un paese dove tutto gli è concesso. Berlusconi ha grandi responsabilità nell’aver consentito che i rapporti tra Italia e Libia venissero portati fino a questo punto. La tutela dei nostri interessi economici è certamente importante, ma non può venire anteposta al dovere di rappresentare uno Stato europeo come l’Italia.

Caro Bersani, l’Ulivo non basta a far rinascere l’Italia…

Il leader del Partito Democratico, Pier Luigi Bersani, in un articolo apparso ieri su “Repubblica”, ha sostenuto che è tempo di costituire un nuovo grande Ulivo che sia in grado di realizzare il ‘miracolo’ del 1996: battere Berlusconi. Bersani non si è fermato qui. Ha bandito una “Santa Alleanza” che possa legare tutte le forze politiche che non si riconoscono nella cultura del ‘berlusconismo’. L’idea è quindi una sorta di alleanza costituzionale di cui facciano parte, oltre ai partiti dell’Ulivo (Pd e Di Pietro), le sinistre di Vendola e Ferrero, i centristi di Casini e i finiani. Romano Prodi, in un’intervista apparsa oggi sempre su “Repubblica”, ha plaudito all’iniziativa di Bersani, augurandosi che l’Ulivo cresca con maggiore slancio mediante l’inserimento di diserbanti, innesti e fertilizzanti perché “possa vivere abbastanza a lungo da produrre frutti sufficienti a risollevare le sorti dell’Italia”.

L’iniziativa di Bersani non credo vada nella direzione giusta. Essa si pone in una logica bipolare che a mio giudizio non regge in Italia perché non è in grado di produrre stabilità e quindi governabilità. Diciamolo una volta per tutte. Il bipolarismo è stato un fallimento: non è un bene nell’Italia berlusconiana di oggi, dove il Pdl – come ha detto ieri il premier – vorrebbe rappresentare il progresso e la spinta all’ammodernamento contro il vecchiume dei partiti di centro sinistra legati a una politica ciecamente conservatrice; non lo sarà in un futuro più o meno prossimo, se e quando la Santa Alleanza costituzionale riuscirà a vincere contro il Male incarnato dal centro destra: Berlusconi, la Lega Nord e tutti i partiti colpevoli di non riconoscersi interamente nei principi che sorreggono la Costituzione del ’48.

Come se ne esce? A mio giudizio occorre riconoscere che l’Italia non è un paese unito; è diviso – da sempre – in grandi aree tendenzialmente coincidenti con antichi Stati regionali, territori dove gli elettori votano diversamente perché influenzati da culture, tradizioni, storie e interessi economici molto diversi, se non addirittura opposti. Non si spiega altrimenti per quale motivo la Lega Nord e il Pdl berlusconiano siano nettamente vincenti nel Lombardo Veneto, mentre arranchino nel Nord Ovest e nel Centro Italia. I partiti di sinistra sono invece nettamente maggioritari nelle regioni a cavallo dell’appennino tosco emiliano, sono radicati in Liguria e nel torinese, ma non riescono a sfondare nel Sud Italia (fatta eccezione per la Puglia di Vendola) ove dominano le destre nazionaliste, tradizionaliste e autonomiste.

Credo non si possa ridurre a unità un paese così diviso, costringendo i perdenti a riconoscersi in una maggioranza che, lungi dal rappresentare l’Italia, ne rappresenta solo una parte. Il bipolarismo funziona in paesi di antica unità come Francia e Inghilterra oppure in paesi (gli Stati Uniti) dove il bipartitismo è stato importato dalla cultura anglosassone. A voler fare un paradosso, occorre recuperare lo spirito di mediazione della Prima Repubblica, attribuendo tuttavia non già ai partiti, ma ai rappresentanti dei territori il compito di governare nell’interesse del Paese. Un tale risultato può essere conseguito solo in un regime federale ove la tutela e la salvaguardia degli interessi territoriali sia adeguatamente riconosciuta e fatta convergere in una logica complessiva di unione.

Riprendendo il modello di costituzione federale redatto dal professor Miglio nel 1994, occorre quindi istituire un ordinamento federale strutturato su almeno due livelli: da una parte Stati regionali o Comunità regionali (che a mio giudizio dovrebbero essere i seguenti: Ligure Piemontese, Lombardo Veneta, Tosco Emiliana, Centro Italia, Sud Italia + 5 Regioni a Statuto speciale) che siano in grado di governarsi legiferando e amministrando in piena autonomia nella maggior parte delle materie oggi riservate allo Stato centrale; dall’altro il potere federale il cui governo dovrebbe consistere in un Direttorio presieduto da un Presidente della Repubblica eletto direttamente dagli italiani (presidenzialismo) e composto dai governatori dei cinque Stati (eletti anch’essi a suffragio universale e diretto dalle rispettive popolazioni), nonché da un rappresentante (a turno annuale) delle 5 Regioni a Statuto speciale (elevate a dignità di Stato regionale).

Se vi fosse un Direttorio noi avremmo un governo realmente capace di rappresentare la stragrande maggioranza degli italiani, in grado di produrre decisioni in tempi rapidi, non foss’altro che per il ristretto numero dei suoi componenti (7 direttori). Le decisioni verrebbero assunte a maggioranza in gran parte delle materie di competenza federale e all’unanimità nei casi in cui dovesse discutersi la legge finanziaria, il sostegno economico alle aree svantaggiate, l’introduzione di nuovi tributi, la cessione di nuove competenze agli Stati regionali o, viceversa, l’attribuzione provvisoria al governo federale di una parte delle funzioni detenute dai governi territoriali. Un Direttorio in cui un presidente della Repubblica eletto dagli italiani (sia egli di centro destra o di centro sinistra) dovrebbe mediare e decidere in tempi certi e costituzionalmente regolati assieme ai governatori di centro destra (presumibilmente i presidenti lombardo veneto e sud italiano) e di centro sinistra (presumibilmente i presidenti ligure piemontese, tosco emiliano e centro italiano).

E’ evidente che un tale programma potrà essere realizzato solo con una modifica della Costituzione. Il che è assai difficile nei tempi presenti. Sarebbe tuttavia auspicabile che i maggiori partiti (Lega, Pdl, Pd, Di Pietro) prendano atto che esiste non già un’Italia unita, ma più Italie e che solo facendole dialogare sarà possibile realizzare un vera unione senza violare gli insopprimibili diritti delle minoranze. Che è poi lo spirito del vero federalismo.

Bozzetti satirici da frammenti di storia/1

Il generale Napoleone Bonaparte al Direttorio francese, Milano, 26 agosto 1796

“Gl’inglesi hanno persuaso il Re di Napoli, ch’egli è qualche cosa. Io lo convincerò ch’egli è nulla. Se persiste contro i patti dell’armistizio a mettersi in armi , io giuro in faccia all’Europa di marciare contro i suoi sognati settantamila uomini con seimila granatieri, quattromila cavalli e cinquanta pezzi di artiglieria”.

Il cavaliere Silvio Berlusconi al Direttorio leghista, Lesa, 25 agosto 2010:

“I delusi del Pd, Francesco Rutelli e l’Udc di Pier Ferdinando Casini hanno persuaso Gianfranco Fini ch’egli è qualche cosa. Io lo convincerò del contrario. Se persiste a volermi attaccare contro ogni patto di desistenza e pacificazione, io giuro dinanzi al mondo di Arcore di marciare contro i suoi sognati sgherri di Futuro e Libertà con seimila articoli di Vittorio Feltri, con quattromila tigri del fido Roberto Calderoli e con i pezzi di artiglieria messi a disposizione dall’agguerrita Daniela Santanché”.

I finiani e la tela di alleanze per neutralizzare la Lega

La conferenza stampa che Silvio Berlusconi ha tenuto venerdì scorso al termine del vertice a palazzo Grazioli voleva essere probabilmente, nelle intenzioni del premier, un atto teso a rassicurare gli elettori del Pdl. I finiani dovevano esser messi con “le spalle al muro”, costretti ad approvare o a respingere in toto il programma votato a larghissima maggioranza dai membri del partito. Ma l’obiettivo del premier è stato raggiunto solo a metà. Berlusconi si prepara a confrontarsi con un Parlamento che vedrà i finiani svolgere un ruolo ambiguo, di certo poco fedele alle sue direttive politiche.
Il terreno del confronto a Montecitorio si annuncia assai insidioso. Futuro e Libertà, il gruppo parlamentare che fa capo al presidente della Camera, ha già fatto sapere che non approverà leggi ad personam o normative – come quella sul processo breve – che rischiano di ostacolare il corretto funzionamento della magistratura. E’ inoltre probabile che i finiani respingeranno il Lodo Alfano costituzionale con cui il premier intende porsi definitivamente al riparo dalle inchieste giudiziarie.
In realtà, il lento logoramento che i finiani vanno operando nei confronti del governo Berlusconi risponde a un obiettivo assai più concreto. Il presidente della Camera ha ragione nel sostenere che l’approvazione di leggi ad personam non è ammissibile in uno Stato di diritto legislativo parlamentare. C’è da chiedersi tuttavia per quale motivo i finiani si siano svegliati proprio ora dopo essersi accucciati per tanti anni ai piedi del trono di Arcore.
Occorre ricercare altrove le ragioni del mutamento di rotta politica compiuto dai finiani. La sorgente della discordia risiede nel ruolo giocato dalla Lega in questa legislatura, ruolo dovuto al clamoroso successo elettorale riscosso dal partito di Bossi nelle ultime elezioni politiche. L’asse tra Tremonti e Bossi, ma soprattutto la posizione decisiva rivestita dalla Lega all’interno della maggioranza viene osteggiata da quanti temono che i leghisti vogliano far saltare per sempre i principi di solidarietà e di coesione nazionale su cui si fonda la Costituzione del ’48. L’emanazione dei primi decreti sul federalismo fiscale vien vista dai conservatori come un primo, inaccettabile colpo di piccone all’edificio dello Stato italiano. Non a caso il finiano Italo Bocchino ha proposto a Berlusconi di formare un nuovo governo che possa contare sull’appoggio del Pdl, di Futuro e Libertà, di Casini, di Rutelli e di tutti i delusi del Partito democratico. Insomma il presidente della Camera, giocando di sponda con l’Udc e con una parte del centro sinistra, intende ridimensionare il ruolo della Lega lavorando per la conservazione del regime esistente, dei principi di solidarietà e di unità nazionale su cui si regge la Costituzione del 1948.
Umberto Bossi ha fatto sapere di non essere disposto ad appoggiare governi sostenuti da chi ha perso le elezioni. Non si vede come dargli torto. Il consenso elettorale della Lega è dovuto precisamente al programma di riforma federale della repubblica italiana. Ma Berlusconi sembra disposto a far entrare nella maggioranza il partito di Casini pur di vedere approvati i disegni di legge che più gli stanno a cuore. Se un tale piano dovesse avverarsi, la Lega vedrebbe considerevolmente ridimensionata la sua influenza sugli equilibri della maggioranza, il che porterà inevitabilmente alla fine della stagione costituente che si era aperta con le elezioni del 2008. Sarebbe anche la fine di ogni ipotesi di riforma costituzionale in senso federale e presidenziale. Per Bossi mai come in questo momento sembra appropriato il motto borrelliano: resistere, resistere, resistere…

Berlusconi e i cattolici spaccati in due…

L’editorialista di Famiglia Cristiana, Beppe Del Colle, sostiene in un articolo dal titolo “Il cavaliere dimezzato” che l’ingresso in politica del Cavaliere avrebbe provocato una grave spaccatura tra gli elettori cattolici (ex democristiani): “La discesa in campo di Berlusconi ha avuto come risultato quello che nessun politico nel mezzo secolo precedente aveva mai sperato: di spaccare in due il voto cattolico (o, per meglio dire, il voto democristiano)”.

Non sono d’accordo. Negli anni immediatamente precedenti alla discesa in campo di Berlusconi, il mutamento di segno politico nell’elettorato cattolico si era già verificato in tutta la sua estensione. Basti ricordare che la Lega Nord, nelle elezioni politiche del 1992, raggiunse per la prima volta la soglia dell’8,6 per cento, guadagnando percentuali bulgare in province che per decenni erano state rigorosamente ‘bianche’.

La crisi del cattolicesimo politico, che negli anni della cosiddetta Prima Repubblica si sostanziò (a mio giudizio assai mediocremente) nella Democrazia Cristiana, fu dovuta quindi ad altre ragioni. Senza dubbio la modesta levatura della classe politica che fu a capo del partito negli anni Ottanta. Già nel 1981 Giuseppe Lazzati, uno dei maggiori uomini di cultura, rettore dell’Università Cattolica dal 1969 al 1983, avvertì i politici democristiani che occorreva recuperare il filo diretto con la gente. Non fu ascoltato. Il partito continuò a dilaniarsi in lotte di potere interne, in una politica di palazzo lontana dai bisogni della società. Quando arrivò la tempesta di Tangentopoli la Democrazia Cristiana, che già perdeva acqua da tutte le parti, naufragò miseramente tra l’indifferenza generale.

Non è quindi colpa di Berlusconi se i cattolici sono oggi divisi, privi di una guida politica che sia in grado di rappresentarli degnamente. E’ colpa invece dei democristiani, i quali mostrarono di non avere una cultura politica adeguata, che fosse realmente al servizio dei valori cattolici.

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