Ricordo di Nicola Raponi

Il 26 novembre 2007 moriva a Milano il professor Nicola Raponi, uno dei maggiori storici dell’età moderna che abbia avuto il nostro Paese. Ricordo ancora quando lo vidi per la prima volta, in una grande aula al pianterreno della sede distaccata dell’Università Cattolica in via Sant’Agnese. Correva l’anno 1998. Raponi parve entrare quasi di nascosto, come se volesse sfuggire agli occhi indiscreti dei curiosi. Avvolto in un cappotto scuro, si recò con passo deciso verso la cattedra che si trovava in fondo all’aula, nella parte opposta rispetto all’ingresso; vi prese posto, toccò il microfono con l’indice della mano per accertarsi che gli altoparlanti fossero in funzione, tirò fuori dalla borsa i suoi quaderni fitti di note e, dopo aver dato un’occhiata al pubblico – forse per misurare il numero degli studenti – iniziò la lezione.
Il professore spiegava con una profondità di analisi che mi colpì fin dall’inizio. Il contenuto delle sue lezioni era il risultato di un paziente lavoro di scavo condotto in tanti anni di ricerche negli archivi e nelle biblioteche.
Raponi aveva un aspetto inconfondibile: i capelli, accuratamente pettinati, erano  divisi in due parti; qualche volta terminavano con un ciuffo che, scendendo sulla fronte, pareva conferire alla persona una certa qual aura di giovinezza. La voce, tenue ma al contempo lievemente roca, mi colpì per il timbro originale, non molto diverso da quello del presentatore Corrado Mantoni. La cadenza nel parlato rivelava le origini marchigiane, ma solo a tratti e mai in modo troppo marcato. I lineamenti del viso mi ricordavano quelli dell’attore Walter Matthau.
A quel tempo ero un giovane studente iscritto nell’ateneo di Largo Gemelli. Frequentavo il secondo anno del corso in Lettere moderne nella Facoltà di Lettere e Filosofia. Quando ascoltai Raponi per la prima volta, rimasi colpito dalla semplicità dell’esposizione, dall’umiltà e dalla cura con cui esponeva le questioni rinviando sempre alle fonti storiche. Ricordo che uno dei consigli che dava agli allievi era di studiare attentamente le carte lasciate da una persona o prodotte da un’istituzione; ci sollecitava a frequentare le biblioteche e gli archivi: “noi dobbiamo” – diceva a lezione –  “far rivivere il documento… un po’ come la favola della bella addormentata”.
Le lezioni terminavano quasi sempre in ritardo. Squillava la campana: il professore, immerso nelle sue riflessioni, si accingeva a concludere; Raponi continuava a tessere pazientemente i fili del ragionamento in uno sforzo di affinamento dei concetti, chiarendo le questioni oggetto di analisi. Allora ci domandava: “E’ suonata la campana?”, quasi volesse avere conferma che la lezione fosse finita.

La storia era la disciplina che mi aveva sempre appassionato grandemente. Verso la fine dei miei studi, quando avevo ormai superato quasi tutti gli esami, mi recai quindi da Raponi per chiedergli un argomento su cui impostare la tesi di laurea.

Quando gli espressi il desiderio di scrivere la tesi sotto la sua guida scientifica, mi pose dinanzi a una scelta. Avrei potuto dedicarmi a un tema afferente alla storia delle mentalità o alla storia delle istituzioni. Nel primo caso mi disse che il lavoro non sarebbe stato particolarmente difficile. Nel secondo invece si richiedeva allo studente un sforzo maggiore perché occorreva prendere in esame le leggi e le varie normative prodotte da una istituzione pubblica e verificare poi in archivio, mediante lo spoglio dei documenti, le reali dinamiche, la prassi effettiva dell’ente amministrativo preso in esame. Decisi di percorrere questa seconda strada. Mi buttai a corpo morto nella ricerca, che verteva sullo studio delle vice prefetture nel dipartimento dell’Agogna (Novara) negli anni della repubblica e regno d’Italia (1802-1814).

Fu in quell’occasione che frequentai per la prima volta gli archivi. Quando mi trovai dinanzi alle carte dell’epoca provai un certo smarrimento: le grafie mi parevano illeggibili e spesso contenevano informazioni che rimandavano a leggi, decreti, regolamenti, protocolli di cui io, inesperto studente alle prime armi, non conoscevo quasi nulla. Solo dopo aver preso in esame svariati documenti manoscritti, il mio occhio si abituò alle varie grafie sette-ottocentesche. La determinazione, la tenacia, la pazienza ma soprattutto la passione sono doti fondamentali in qualsiasi lavoro.

Il mercoledì pomeriggio mi recavo nell’ufficio di Raponi, il quale dedicava le (lunghe) ore del ricevimento prima agli studenti, quindi ai laureandi, poi ai dottorandi e colleghi. Quando arrivava il mio turno – il che avveniva quasi sempre nel tardo pomeriggio – gli chiedevo informazioni, gli manifestavo i miei dubbi sul contenuto dei documenti che andavo studiando. Ricordo che mi sembrava di entrare in confessionale. Mentre gli esponevo lo stato delle ricerche, vedevo che il professore mi ascoltava con attenzione assorto nei suoi pensieri. Lui non mi dava risposte definitive. Credo che lo facesse di proposito, forse perché intendeva spingermi a studiare con maggiore profondità oppure perché desiderava mettere alla prova la mia preparazione sull’argomento. I colloqui erano lunghissimi – lo sanno bene i colleghi e gli ex studenti – perché a lui premeva affrontare le questioni con attenzione. Entravo nel suo studio, lasciavo socchiusa la porta come chiedeva quasi sempre di fare, mi sedevo di fronte a lui, nella parte opposta di uno scrittoio occupato in gran parte da lunghe file di libri. 

Quando gli mostravo copie di documenti che facevano nuova luce su un argomento che gli stava a cuore, i suoi occhi brillavano e si accendeva di entusiasmo. In quei momenti sembrava che fosse tornato a vestire il camice dell’archivista, la professione che aveva esercitato con passione per tanti anni affiancandola a quelle di storico e di insegnante.

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