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La messa natalizia di mezzanotte nella vecchia Milano

E’ assai probabile che non fossero in molti i milanesi dei secoli passati che andavano alla messa di mezzanotte. La funzione religiosa veniva celebrata in poche chiese del centro: il Duomo, San Fedele, l’antica (oggi scomparsa) Santa Maria Segreta.

Nella basilica di Sant’Angelo, un tempo sussidiaria di San Marco nel sestiere di Porta Nuova, venivano addirittura distribuiti bigliettini d’invito per evitare che la chiesa fosse frequentata unicamente da compagnie chiassose di nottambuli, il che la dice lunga sulla scarsa partecipazione dei milanesi alla messa di mezzanotte.

Non dobbiamo pensare tuttavia che si trattasse di scarsa devozione. Occorre tener presente che un tempo gli edifici di culto non venivano riscaldati. Risultava quindi difficile ai milanesi uscire di casa per assistere  alla messa immersi nel freddo. I membri delle classi abbienti entravano in chiesa ben coperti da cappotti o pellicce. I meno fortunati assistevano probabilmente alla celebrazione con lo stesso spirito di chi, entrato in un frigidaire, non vede l’ora di uscirne per tornarsene al calduccio in casa propria.

C’erano poi le allegre brigate di amici che, terminata la messa di mezzanotte, si recavano dal Nava in via Bocchetto o dal Bouthou in contrada dei Due Muri (via oggi scomparsa, si trovava pressappoco tra via Mengoni e piazza del Duomo): erano alcuni dei pochi locali che restavano aperti fino a notte fonda. I fedeli, usciti dalle chiese intirizziti dal freddo, non esitavano ad entrare in queste botteghe per ordinare cioccolate calde o quella che è passata alla storia con il nome di “barbaiada”: una bevanda fatta con caffé e cacao che l’impresario teatrale Domenico Barbaja, giunto a Milano nel 1826 dopo aver lavorato per un certo tempo a Napoli, aveva contribuito a far conoscere ai milanesi.

Più complessa la situazione nelle famiglie più ricche. Se le padrone assistevano alla messa di mezzanotte, le domestiche eran costrette a rinunciarvi, impegnate com’erano nella preparazione del pranzo natalizio. La servitù si accontentava della benedizione impartita dai preti. I cuochi preparavano i ravioli fin dal giorno della vigilia, ovviamente sorvegliati dalle padrone di casa che non esitavano a rimproverarli con inviti più o meno cortesi a metterci meno sale, più salsiccia, poco pepe…..

E il panettone? Non si pensi che la sua forma fosse quella di oggi, simile a una sfera o a un cilindro. Il panettone era semisferico e questo spiega molto bene l’origine del complimento che i corteggiatori un po’ disinibiti rivolgevano alle signore mentre ammiravano il loro fondoschiena: “Che bel panetton!”.

Nella Milano ottocentesca il vero panettone era sfornato dal Baj, un pasticciere il cui negozio si trovava sotto la Madonnina, in piazza del Duomo all’angolo di via Santa Radegonda. I panettoni che avanzavano erano ceduti a poco prezzo ai “fregujatt”,  i “venditori di briciole” che provvedevano a rivenderli raffermi nei borghi o alle fiere. Perché non tutti avevano la possibilità di mangiare il panettone fresco, appena sfornato.

Auguro agli affezionati lettori di questo blog un sereno Natale.

Un misterioso omicidio nei chiostri della Passione


I nostri giornali son pieni di notizie relative ad omicidi. Il “Foglio” di Giuliano Ferrara, nell’edizione del lunedì, riserva addirittura un’intera colonna ai fatti di cronaca nera, descritti con la stessa cura per il macabro dettaglio che Alfred Hitchcock impiegò nel making del memorabile “Psycho”.
Gli uomini hanno sempre ammazzato per qualche ragione, tolti ovviamente i malati di mente che una ragione presumono di averla ma la capiscono solo loro. 
Nella Milano del Settecento gli omicidi per furto erano probabilmente assai diffusi. Altrimenti stentiamo a capire quale altro movente avesse spinto un chierico, Antonio Didino, ad uccidere un anziano religioso di 86 anni, l’ex abate Felice Fedeli. Un delitto particolarmente efferato che suscitò sconcerto per il luogo in cui avvenne e per lo stato della vittima. 
Teatro dell’omicidio fu una cella del “venerando monastero” di Santa Maria della Passione nel sestiere di Porta Orientale, oggi sede del conservatorio musicale Giuseppe Verdi. In quei chiostri, a partire dalla fine del XV secolo, vivevano i canonici regolari lateranensi di Sant’Agostino, un ordine religioso cui si doveva la costruzione della chiesa e dell’abbazia. 
Veniamo ai fatti. Il 22 maggio 1745 il Fedeli, che era stato abate nel monastero della Passione, venne ucciso nella sua cella con venti coltellate di cui quattro mortali. L’assassino doveva conoscere assai bene la vittima perché, in caso contrario, non sarebbe entrato nella stanza ove compì l’omicidio.
 

Il cronista milanese Giambattista Borrani ci ha lasciato nel suo diario un prezioso resoconto di questa vicenda. Nella Milano del primo Settecento, ancora legata ai valori religiosi della riforma cattolica tridentina, esso aveva destato particolare scalpore:

 

“…nello stesso giorno seguì un caso veramente orribile. Entrò nel Venerando Monastero di Santa Maria della Passione dei Canonici Regolari Lateranensi una persona incognita in abito chericale, chiedendo conto del Reverendissimo Padre Abbate Felice Fedeli, altre volte Abbate di quel Monastero, che era nell’età d’anni 86, doppo d’avergli parlato entrò in sua cella insieme con esso lui; e poi uscì dalla Porta del Monastero mangiando alcuni confetti, dicendo essergli stati donati dal detto Padre Abbate. Ma entrando poi alcuni Religiosi nella Cella lo trovaron morto sul pavimento, medianti 20 ferite con coltello di punta acuta, 4 delle quali mortali. Un tal sacrilego, proditorio, ed atroce omicidio commosse la Città tutta”.

[Diario di Giambattista Borrani, anno 1745, Biblioteca Ambrosiana, Fondo Sussidio n.6]
Partì la caccia all’assassino. Il portinaio del monastero, che aveva visto il misterioso malvivente, aiutò le autorità a perlustrare le vie cittadine. Tali sforzi non furono vani. Ben presto il portinaio riconobbe infatti l’omicida davanti a un negozio nella contrada dei Visconti. Si trattava per l’appunto di Antonio Didino, figlio di un falegname specializzato in sgabelli di legno (i famosi scagn milanesi).
Varrà la pena ricordare che la contrada dei Visconti, scomparsa negli anni Sessanta del XIX secolo in seguito all’ingrandimento di piazza del Duomo, si trovava all’incirca nella zona di piazza Diaz, tra le attuali vie Rastrelli e Baracchini: essa collegava l’antica via Dogana (anch’essa distrutta in seguito al citato ampliamento della piazza) con la contrada del Pesce (oggi via Paolo da Cannobio).
Quando il portinaio riconobbe l’assassino, il gendarme cercò di arrestarlo ma il chierico riuscì a fuggire. Il cronista Borrani ci racconta che il Didino si rifugiò in casa dei familiari, che abitavano nella contrada di Santa Margherita. Stando alla nostra fonte, gli amici e i parenti del chierico, appreso quanto era avvenuto, gli suggerirono di consegnarsi all’autorità vescovile per dimostrare l’infondatezza della accuse. Il Didino seguì il consiglio ma dovette ben presto pentirsi della scelta: in seguito ad alcune contraddizioni contenute nella deposizione al giudice ecclesiastico, posto sotto i tormenti della tortura, fu costretto a confessare il delitto:
Annotava il Borrani il 16 dicembre:
“Si passò poi a fare gli esami e per certe contradizioni nelle risposte si formò sospetto di sua complicità; quindi con evidenti prove convinto, e costretto dai tormenti confessò il delitto, cioè che nel detto giorno 22 maggio rubbò al Padre Abbate Fedeli una Cappa, ed altre cose del valore di filippi 23.10; che fece perquisizione per rubbargli altri denari; e che commise il barbaro omicidio con 20 ferite, repplicandogli due colpi con peggiore sevizia doppo caduto quasi morto sul pavimento”.
Il processo terminò in dicembre: la sentenza stabilì la colpevolezza del Didino che, dopo essere stato privato degli ordini religiosi, veniva consegnato dall’arcivescovo al braccio secolare (vale a dire alle autorità dello Stato di Milano).
Il 16 dicembre arrivò la sentenza del Senato, la suprema magistratura giuridico amministrativa dello Stato. Il Didino fu condannato “ad essere condotto il dì 18 [due giorni dopo quindi] sovra Carro allo Stradone che conduce al Monastero della Passione con tre colpi di tenaglia rovente sulle spalle ed ivi appiccato sovra una Forca più alta della solita”. 
L’instabilità politica seguita al repentino mutamento di regime nello Stato di Milano sembrò tuttavia portare fortuna all’ex chierico. Dal 1740 il ducato di Milano, dominio degli Asburgo di Vienna, era infatti coinvolto nella guerra di successione austriaca: com’è noto, il conflitto scoppiò perché i sovrani di Prussia, Spagna, Francia, Baviera e Sassonia non avevano riconosciuto la successione al trono imperiale della giovane Maria Teresa di Asburgo. 
L’intervento dell’Inghilterra, la progressiva divisione degli avversari, l’alleanza con il re di Sardegna Carlo Emanuele III e l’aiuto dei fedeli sudditi della “nazione ungherese” furono però decisivi nel salvare i domini di casa d’Austria da una disgregazione che sembrava inevitabile. Maria Teresa ne uscì vittoriosa: la giovane imperatrice firmò la pace di Aquisgrana il 18 novembre 1748 ma dovette rinunciare alla ricca regione della Slesia, passata definitivamente alla Prussia di Federico II. Inoltre il ducato di Milano, che aveva già subito rilevanti amputazioni a vantaggio del Piemonte, fu ulteriormente ridotto in seguito alla cessione a Carlo Emanuele III dell’Alto Novarese, di Vigevano e del territorio di Voghera. 
Negli anni della guerra Milano venne conquistata dalle truppe nemiche. L’esercito gallo ispano entrò in città il 16 dicembre 1745, nello stesso giorno in cui il Senato pubblicava la citata sentenza di condanna capitale nei confronti del Didino. Per circa tre mesi, dalla fine di dicembre alla metà di marzo del 1746, la città del Duomo fu quindi governata dal re di Spagna Filippo V di Borbone. 
Tornando all’omicidio avvenuto nei chiostri della Passione, il nuovo Sovrano era intenzionato a confermare la condanna capitale ma una ristretta cerchia di persone, animate da sentimenti di filantropia, chiese alle autorità  di salvare la vita al condannato. Spiccava in questo gruppo la nobildonna Clelia Borromeo, che dimostrò di avere a cuore la difesa dei diritti umani anticipando di quasi vent’anni i celebri illuministi milanesi Cesare Beccaria e Pietro Verri. 
Il re di Spagna, nonostante fosse personalmente favorevole alla pena di morte, accolse l’appello della Borromeo, che godeva di enorme credito a Milano. Non sarà fuori luogo ricordare in proposito che il suo salotto culturale, l’Academia Cloelia Vigilantium, frequentato da illustri studiosi di fama europea, contribuì grandemente al progresso delle scienze e delle lettere.
La sentenza capitale fu quindi abolita e la condanna fu tramutata  in carcere a vita.
Scriveva il Borrani:
Nel detto giorno 18 [dicembre], in cui doveva eseguirsi la giustizia col detto chierico Didino, considerando l’Eccellentissimo Senato che la condanna era seguita nella mattina del giorno 16 sotto il governo della nostra sovrana Maria Teresa, e che essendo qui giunte nel dopo pranso dello stesso giorno le Truppe della Spagna, non potevasi eseguire la sentenza senza l’approvazione del Real Principe, commandò che la sentenza fosse sospesa; onde il povero condannato fu trattenuto ancora in Conforteria sin tanto che qui arrivasse il detto Real Principe”.
A 20 fu esposto al Real Principe il detto caso del Chierico Didino, colla sentenza già pronunziata dal Senato, ma poi prorogata, e nello stesso tempo fu pregato a render giocondo il suo arrivo coll’accordare la grazia della vita al povero condannato, ma egli vedendo essere stato troppo barbaro il fatto non volle acconsentire, onde nel dì 21 doveva essere eseguita la sentenza”.
 Ma repplicatesi nel dì 21 le preghiere, particolarmente di Monsignor Gallarati vescovo di Lodi e della Signora Contessa D. Clelia Borromea, si arrese il Principe ad accordare la grazia della vita, colla pena però di prigionia perpetua; onde doppo di esser stato il povero chierico trattenuto in Conforteria quasi 6 giorni, fu levato dalla medesima, e condannato al perpetuo carcere”.
Sembrava che il Didino fosse destinato a trascorrere il resto della vita nelle regie carceri che si trovavano nel palazzo del capitano di giustizia in Porta Orientale. Oggi l’edificio, che si affaccia su piazza Fontana, è sede della polizia municipale. 
Il destino riservava tuttavia una fine ben diversa all’ex chierico milanese. 
Il 16 marzo 1746 gli austriaci tornarono in possesso del ducato di Milano. Alcuni mesi dopo la sentenza di condanna a morte fu resa esecutiva. Il piccolo gruppo di personalità che avevano chiesto di risparmiare la vita al condannato era pressoché scomparso. La Borromeo, appartenente a quella parte della nobiltà che si era maggiormente compromessa per aver collaborato con il cessato regime spagnolo, dovette fuggire da Milano e stabilirsi nella repubblica di San Marco.  
Nulla più si opponeva all’esecuzione della condanna a morte del Didino. Maria Teresa confermò rigorosamente la sentenza del Senato. Il primo settembre l’ex chierico, dopo essere stato orrendamente torturato come era prassi per i rei di omicidio appartenenti al popolo, fu impiccato sopra un carro posto a pochi metri dal luogo ove era avvenuto il truce omicidio. 
Un gran numero di cittadini aveva assistito all’evento, mosso da un sentimento di palese soddisfazione per l’esecuzione della condanna. Come sembravano lasciar trasparire le annotazioni del Borrani, la sentenza del Senato costituiva, nella percezione popolare, il segno della giustizia divina. Il motto “Senatus iudicat tamquam Deus”, con cui si era soliti definire l’attività del Senato, lungi dall’essere un’astratta formula giuridica, riassumeva assai bene le fede dei milanesi nell’operato della suprema istituzione del ducato.
Lasciamo per l’ultima volta la parola al Borrani:
“A 1 [settembre] fu giustiziato il Cherico Antonio Didino …siccome però le grazie fatte dai Spagnuoli nel tempo dell’occupazione di questo Stato furon dichiarate invalide…così l’eccellentissimo Senato per ordine particolare della Corte di Vienna esaminò di nuovo la causa del detto Didino, e a 30 dello scorso mese decise exequendam esse primam sententiam. Onde fu posto di nuovo in Conforteria, e nel detto giorno 1 fu condotto sovra Carro con 3 colpi di tenaglia allo Stradone della Passione, ed ivi sovra d’una forca più alta della solita fu impiccato”. 
“Il concorso di persone d’ogni condizione, e sesso in quelle contrade, che dalle carceri conducono al detto Stradone fu indicibile, ammirando tutti la Divina Providenza, e le cose dalla medesima disposte per voler punito un sì grave delitto”.
Meno di vent’anni dopo il giovane Pietro Verri, pronunciando un audace discorso dinanzi al sodalizio dell’accademia dei Pugni, avrebbe mosso le prime serrate critiche alla giurisprudenza del Senato: 
Oh gran Senato che non giudica come i Senati, bensì come Dio, Senatus judicat tamquam Deus, cioè tamquam Deus non dando mai ragione delle proprie sentenze; poiché se desse ragione gliene resterebbe tanto meno per lui e non è mai soverchia la ragione in un Tribunale di Giustizia; judicat tamquam Deus ad imitazione dei giudizii di Dio col fuoco, coll’acqua, col duello e coi dadi, quali come c’insegnano le storia chiamavansi pure Judicia Dei”.

[P. Verri, Orazione panegirica sulla Giurisprudenza milanese, 1763]

Belle milanesi e truci impiccagioni nel diario di un celebre turista tedesco

Johann Kaspar Goethe (1710-1782), giurista, uomo di lettere, appassionato bibliofilo e collezionista di opere d’arte, è ricordato per essere il padre del famoso poeta Johann Wolfgang. Anticipando il figlio di quarant’anni, anche Johann Kaspar visitò l’Italia. Fece un breve soggiorno a Milano ai primi di agosto del 1740. Gli appunti riguardanti i suoi viaggi vennero pubblicati in Italia con il titolo Viaggio in Italia nel 1932. Si tratta di un’opera pressoché introvabile nelle librerie. Andrebbe ristampata, non foss’altro che per le preziose riflessioni sui costumi e sugli stili di vita delle popolazioni negli Stati italiani preunitari.

Lo scrittore tedesco forniva un ritratto significativo su Milano. Nelle pagine dedicate alla città del Duomo, in un italiano un po’ rude come poteva essere quello appreso da un tedesco dei primi decenni del Settecento, Johann Kaspar descriveva le principali chiese cittadine quali Sant’Ambrogio, Sant’Eustorgio, San Lorenzo. Del Duomo riconosceva la mole grandiosa anche se a quel tempo la facciata era incompiuta. In realtà, le sue riflessioni meritano di essere commentate e riportate per almeno due ragioni. Anzitutto perché forniva alcune interessanti descrizioni sullo stato della città. Ad esempio rilevava stupito come nei palazzi ci fossero “finestre di carta” mettendo in evidenza come tale realtà fosse del tutto inadeguata per una città importante come Milano, che era a quei tempi – non va dimenticato – capitale di uno Stato nel Nord Italia particolarmente importante sia da un punto di vista economico che geopolitico. Varrà la pena ricordare che l’uso dei vetri nelle abitazioni domestiche si imporrà molto lentamente in età moderna, affermandosi su scala generale solo nel corso del XIX secolo. Johann Kaspar ricordava inoltre come fosse diffusa la convinzione che le donne milanesi fossero particolarmente belle. A suo giudizio il grado di libertà di cui disponeva il gentil sesso sotto la Madonnina era assai maggiore rispetto a quanto avveniva in altri Stati italiani come il Regno di Napoli o la Repubblica di Venezia. Unico difetto delle milanesi risiedeva nella parlata: la pronuncia, l’inflessione della lingua meneghina “è peccato che non sia uguale allo spirito di cui sono dotate”.

Scriveva il padre di Goethe nei suoi appunti di viaggio:

 “E’ vero che le sue strade [di Milano, Ndr] sono storte e strette e le case, come anche i palazzi provveduti di finestre di carta, il che fa un cattivo aspetto in una gran città, la cui grandezza va fino a dieci miglia italiane di circuito; oltre che è popolatissima, contenendo più di 30.000 anime (in realtà la popolazione doveva attestarsi in quegli anni sulle 80-100.000 persone), tra le quali il sesso donnesco circa l’esteriore vien stimato il più bello di tutte le altre, poiché, giusta il calcolo d’uno molto intendente in questa materia e buon aritmetico, vi debbono essere cinque belle contro una brutta, calcolo ch’io né voglio né posso sottoscrivere. Gli abitanti in genere, per le differenti viste degli Spagnoli, Francesi e Tedeschi, hanno acquistato differenti maniere di vivere. Non v’è in uso quella soggezione delle donne, e non sono così rigorosamente osservate ed accompagnate dai cicisbei, e le ragazze restano nelle case paterne, sinché siano maritate, senza rinchiuderle tra le mura d’un oscuro chiostro, come fanno principalmente i gelosi Veneziani o Napoletani. Insomma, donne e zitelle godono gran libertà, ed è peccato che la loro pronunzia non sia uguale allo spirito con cui sono dotate”.

 La seconda ragione per la quale gli appunti di Johann Kaspar meritano di essere ricordati verte a mio parere su alcune descrizioni di vita quotidiana milanese che oggi stenteremmo a credere proprie di questa terra. A cogliere l’attenzione del nostro visitatore erano le truci esecuzioni capitali. Comminate dai tribunali dello Stato potevano essere confermate in ultima istanza dal Senato, la suprema istituzione giuridico amministrativa del ducato composta, come ricordava Johann Kaspar: “di un presidente e venti dottori nobili, tutti indipendenti dal governo generale”.

Tali sentenze, decise dai giudici d’ancien régime, da un lato si uniformavano alla comunis opinio, dall’altro potevano dipendere dal potere equitativo del giudice. Esse si informavano in particolar modo alle consuetudini secolari vigenti nello Stato, consuetudini che affondavano le loro radici nelle antiche normative locali: le Novae Constitutiones del 1541, gli Statuti del Comune, il diritto romano. L’impiccagione di due delinquenti viene descritta all’interno di una lugubre cerimonia i cui effetti teatrali dovevano colpire nel profondo la folla. Lo scrittore tedesco ricordava la confraternita della carità in San Giovanni alle Case Rotte (la chiesa si trovava nella via omonima, a pochi metri di distanza da palazzo Marino), una corporazione composta in larga parte di nobili la cui funzione consisteva nell’accompagnare i condannati sul patibolo fornendo un supporto religioso e provvedendo, al termine dell’esecuzione, alla loro sepoltura nel cimitero della chiesa.

Scriveva Johann Kaspar:

“Vidi ieri impiccare due birbi. Vi furono osservate tante solennità e circostanze che altrove non si usano. La confraternita della carità, che consiste di nobili ed altri cittadini, si radunava innanzi la prigione coll’abito del loro ordine che copre tutto il corpo, eccetto gli occhi, avendo in una mano una candela accesa, nell’altra una corona di stupenda grandezza. Messi in ordine, camminano a paio a paio, col crocifisso nel fronte, ed i loro servitori a canto [sic!], poi segue il delinquente, condotto tra un padre francescano ed uno della confraternita, che porge la mano al condannato vacillante, per pura carità; dietro di questo viene il boia”. “In tal guisa, con urli, canzoni e preghiere s’avvicinano verso la forca, per questa volta dirizzata in piazza del Duomo [normalmente le impiccaggioni avvenivano in piazza Vetra, NdR]. Quando i malefici furono giunti, si confessarono, e poi in su la scala tirati; dall’altra parte ascende uno de’ confrati [confratelli], a cui tocca, mostrando a quell’infelice il crocifisso, sino che il boia lo getta abbasso, tenendo due corde lunghe; l’una lo soffoca l’altra [sarebbe usata] se quella si rompesse; sospeso così in aria, il boia gli salta sul collo in cui resta, ballando sinché quell’infelice è morto, poi l’abbandona. Indi uno della confraternita monta in su battendo [tagliando] le corde, intanto che gli altri in terra l’aiutano, i quali insieme mettono il corpo levato dalla forca in una cassa, portandolo al cimitero della chiesa di San Giovanni delle Case Rotte; ed ivi vien seppellito. In quanto alle corde, servite a questo uso, vengono abbruciate, per non essere impiegate a qualche stragaria [sic!]. Non ho lasciato in questa relazione pur la minima circostanza, per essere molto differente dal nostro paese”. Evidentemente le esecuzioni a Francoforte avevano una dinamica assai più semplice e spedita.

Il turista tedesco concludeva le sue notazioni con un curioso appunto sulle persone che frequentavano piazza del Duomo. Qui si soffermava sui cicisbei – gentiluomini addetti all’accompagnamento delle dame – nonché  sulla moda curiosa dei preti e dei padri di famiglia. A tal proposito, annotava stupito come fossero soliti portare in pubblico gli occhiali sul naso, usanza che in Germania era inconcepibile. A Milano invece questi uomini potevano farlo perché: “la moda li libera dalle risa”. Varrà la pena ricordare che la piazza del Duomo, nella Milano del Settecento, aveva un’estensione assai più ristretta dell’attuale. Ma diamo la parola, per l’ultima volta, al nostro turista:

“Detta piazza del Duomo serve regolarmente per passeggio in carrozza ed a piedi, ove vidi i cicisbei ed altri di questa razza far il loro mestiere. Ma più mi meravigliai quando vidi gli abati e padri coll’occhiale sul naso. Si figuri un nostro Pantalone passeggiar per le strade in tal guisa armato, cosa direbbero i nostri cittadini. E poi qui la moda li libera dalle risa!”.

20 aprile 1814: la rivoluzione dei lombardi per uno Stato indipendente nella valle padana

La crisi politica ed economica in cui versa l’Unione Europea sembra rafforzare i movimenti nazionalisti ed indipendentisti che si stanno formando un po’ ovunque nel Vecchio Continente. In Italia i movimenti orientati a promuovere l’indipendenza delle piccole patrie sono divisi nei programmi e nelle idealità. Gli indipendentisti veneti vorrebbero uno Stato veneto, altri invece aspirano a costituire uno Stato padano formato dall’unione delle regioni del Nord Italia. Beppe Grillo, che di tutto può essere accusato fuorché di nazionalismo, sembra voler proporre ai suoi elettori l’uscita dello Stato italiano dall’Unione monetaria. I partiti nazionalisti si spingono addirittura sino a chiedere l’uscita dell’Italia dall’Unione europea.
Nel constatare l’eterogeneità di tali posizioni, il mio pensiero corre ai giorni convulsi dell’aprile 1814 quando, in una crisi europea seguita alla dissoluzione del dominio napoleonico, i lombardi furono protagonisti di un moto rivoluzionario che assunse una notevole importanza nel panorama delle rivolte antifrancesi. Anche in quei frangenti le posizioni dei partiti in cui si articolava l’opinione pubblica a Milano erano assai diverse, inconciliabili fra loro perché nemiche irriducibili sul piano politico.
Nel mio libro (Gabriele Coltorti, I lombardi contro l’Italia di Napoleone, “Quaderni Padani” 99-100, San Marino, Il Cerchio 2012) ho mostrato come la rivoluzione scoppiata a Milano il 20 aprile 1814 causò il crollo del regime napoleonico nella città del Duomo portando al governo dello Stato – sia pure per breve tempo (dal 20 aprile al 25 maggio 1814) – una classe politica di nobili e notabili lombardi determinati ad ottenere l’indipendenza di un regno limitato a una parte della Padania centro-occidentale. Le soluzioni dei rivoluzionari erano tuttavia assai diverse tra loro. Tale Stato poteva ricondursi al vecchio principato regionale visconteo-sforzesco comprendente la Lombardia ma esteso al Novarese, all’Alessandrino e al Genovesato (soluzione caldeggiata dalla nobiltà milanese più tradizionalista) oppure poteva consistere in uno Stato padano-italico esteso alla Lombardia e al Novarese, ma anche ai territori cispadani di Parma, Piacenza, Modena, Reggio e alle Romagne (posizione sostenuta dal ceto medio della burocrazia, dalla borghesia e dalla nobiltà tiepidamente liberale). E’ peraltro significativo che la classe politica napoleonica, contro la quale fu compiuta la rivoluzione, puntasse in fondo ad obiettivi simili sul piano territoriale: le istruzioni rilasciate dai funzionari napoleonici agli ufficiali in missione all’estero insistevano sull’indipendenza di uno Stato cisalpino limitato alla Lombardia, al Novarese, ai territori ex estensi di Modena e Reggio e alle ex legazioni romagnole di Ferrara, Bologna e Ravenna. In tali documenti non si parlava affatto di Italia unita; neppure di rivendicazioni estese al Veneto e al Friuli, ormai acquisiti dagli austriaci in via definitiva.
Perché le cose non funzionarono? Il governo napoleonico chiedeva uno Stato indipendente governato dal principe Eugenio Beauharnais, il figliastro di Napoleone che da nove anni aveva governato il regno italico per conto del patrigno. Una frangia considerevole di rivoluzionari aspirava invece ad uno Stato governato da un principe che non fosse riconducibile in alcun modo ai napoleonidi, tale era l’odio che i lombardi nutrivano verso il regime di Bonaparte. Questa diversità di vedute fu radicale, foriera di uno scontro autenticamente politico (laddove “politico” è qui inteso nel significato schmittiano di “opposizione radicale tra fazioni, lotta all’ultimo sangue”): quando scoppiò a Milano il tumulto popolare, per tre giorni (20-21-23 aprile) ebbe luogo una guerra civile nel corso della quale la fazione dei funzionari napoleonici fedeli al viceré fu travolta dalla ferocia dei rivoluzionari. La violenza di tale scontro, ma soprattutto l’assenza di un gioco di squadra tra le fazioni furono decisivi nel portare al fallimento dei progetti indipendentisti.
20 aprile 1814: il palazzo del ministro Prina saccheggiato dai milanesi.
Qualcuno potrebbe chiedersi quale importanza potesse avere a quel tempo il Regno d’Italia napoleonico governato da Napoleone e dal viceré Eugenio Beauharnais. Milano in quegli anni era capitale di uno Stato che, quantunque soggetto al dominio francese, si estendeva a una parte significativa della valle padana, comprendendo il Novarese, la Lombardia, il Modenese e il Reggiano, le Romagne, il Veneto, il Trentino, il Friuli e le Marche. In fondo Napoleone, il despota Napoleone accusato di aver saccheggiato i territori conquistati drenando risorse e traendo carne da macello per i suoi eserciti con lo strumento della coscrizione obbligatoria, aveva contribuito in modo non trascurabile al risveglio delle nazioni oppresse. Ai polacchi – il cui territorio, fagocitato da Russia, Prussia e Austria, era scomparso alla fine del Settecento dalla carta geopolitica dell’Europa – aveva garantito uno Stato, il granducato di Varsavia, che, quantunque limitato nella sua stessa estensione rispetto all’antico regno di Polonia, costituiva un esempio tangibile di Stato nazionale basato su principi opposti rispetto a quelli seguiti dalla fredda diplomazia delle cancellerie settecentesche.
Nella penisola italiana la repubblica cisalpina – divenuta repubblica italiana e, dal 1805, regno d’Italia – costituiva un altro esempio di Stato poggiante su basi “nazionali”. Questo regno costituì in effetti per tanti patrioti il primo passo verso l’unificazione della penisola. Eppure, a ben vedere, nella sua fondazione era possibile riconoscere il tentativo, compiuto da Napoleone, di riesumare l’antico regno italico di origine longobarda che, a partire dalla metà del VII secolo per arrivare sino al X-XI secolo, si era esteso a larga parte della pianura padano veneta e della Toscana. Faceva eccezione la città di Venezia, antico dominio di origine bizantina, che i longobardi non riuscirono mai a piegare. Nel 774 il regno italico longobardo venne conquistato dai franchi di Carlo Magno, i quali – in linea con le consuetudini medievali – conservarono il diritto e le strutture istituzionali fissate dai longobardi; difatti Carlo Magno – come i suoi successori – non governò il regno italico-longobardo come re dei franchi, bensì come re d’Italia: l’Italia longobarda, presto divenuta “Lombardia”, estesa a larga parte della Padania. La cerimonia dell’incoronazione mediante l’impiego della corona ferrea rivestiva una funzione di legittimazione presso il popolo lombardo. Nonostante la frammentazione politica cui andò soggetto il regno italico di origine longobarda nei secoli del Basso Medioevo – il che portò , com’è fin troppo noto, alla formazione degli Stati cittadini e delle Signorie feudali – la cerimonia dell’incoronazione continuò ad essere tenuta nella basilica milanese di Sant’Ambrogio fino al XVI secolo segnando una continuità con la tradizione medievale.
Ora, tornando al regno d’Italia napoleonico, varrà la pena ricordare che negli anni della sua massima estensione politica (1810-1813) esso occupava una parte considerevole della valle padana fino ad includere le Marche ex pontificie. Diverso il caso di territori quali l’Umbria, la Toscana, il Lazio e la parte restante della Padania occidentale (l’ex ducato di Parma e Piacenza, la Liguria e quasi tutto il Piemonte), annessi all’Impero francese e amministrati con prefetti nominati da Parigi. Nel Sud Italia Napoleone aveva lasciato intatto quel che restava del Regno di Napoli, riconoscendo l’irriducibile diversità di quelle terre rispetto alla parte centro-settentrionale della penisola. Affidò il governo del Mezzogiorno continentale al fratello Giuseppe Bonaparte e, dal 1808, al cognato Gioacchino Murat.  
Al Nord il Regno d’Italia con capitale Milano non riprendeva del tutto i confini dell’antico Regnum Italiae longobardo ma non è azzardato ritenere che Napoleone intendesse richiamare idealmente la tradizione storica dell’antico regno medievale. Basti pensare all’incoronazione di Bonaparte a re d’Italia avvenuta nel Duomo di Milano il 26 maggio 1805: ecco comparire di nuovo la corona ferrea, scelta non casuale perché segnava una certa continuità con la tradizione del Regnum Italiae longobardo. Non diversamente dai polacchi, Napoleone aveva quindi dato ai lombardo-italici un piccolo Stato nazionale in cui potessero riconoscersi, guardandosi tuttavia dall’unire la Padania sotto un solo regime politico istituzionale.
La storiografia risorgimentale ritiene che Bonaparte abbia ostacolato la formazione di uno Stato nazionale esteso dalle Alpi alla Sicilia perché lo giudicava una minaccia per gli interessi francesi. Io penso che, più verosimilmente, egli ritenesse naturale la divisione secolare della penisola. Occorreva ai suoi occhi semplificare la carte geopolitica, riducendo il numero degli Stati senza mettere in discussione le storiche fratture esistenti tra le tre Italie: l’Italia padano-italica di origine longobarda; l’Italia romano-fiorentina  radicata nell’eredità classica che le avevano lasciato il Rinascimento e il Papato romano; il Regno di Napoli depositario della grande tradizione sveva che ne aveva fatto un Reame poggiante su un peculiare senso di nazionalità venuto a delinearsi sotto la monarchia angioina, aragonese, ma soprattutto nei secoli del vicereame spagnolo e del governo borbonico.

Nella valle padana il Regno d’Italia napoleonico costituì il tentativo di costituire una nazione lombardo-italica in ideale continuità con l’antico Regnum ItaliaeLangobardorum. Questo non significa che mancassero a Milano patrioti sensibili al tema dell’unità della penisola. Basti ricordare, per fare alcuni esempi, alle poesie di Ugo Foscolo oppure ai progetti editoriali finanziati dal governo: indicativi in proposito i volumi degli Scrittori classici italiani di economia politica (1803-1816) diretti dal giacobino Pietro Custodi ove erano raccolte le opere di famosi economisti italiani vissuti in ogni parte d’Italia. Pensiamo ancora ai patrioti napoletani che operarono a Milano durante la repubblica e il regno d’Italia e fornirono un contributo importante al rinnovamento culturale della città: Vincenzo Cuoco, Francesco Lomonaco, Francesco Saverio Salfi per citarne solo alcuni. L’ideale di uno Stato nazionale italiano esteso a tutta la penisola, sulla cui formazione i patrioti meridionali esuli a Milano ebbero un ruolo importante, rimase tuttavia limitato a una ristretta minoranza  della classe dirigente italica.

Tornando alla rivoluzione del 20 aprile 1814, il dato significativo è che a Milano – capitale, come si è accennato, di un vasto Stato padano –  quasi tutti lavorassero concretamente per l’indipendenza. Perfino i funzionari italici più fedeli al viceré Beauharnais, chiedevano un regno sottratto al dominio francese. Erano persone come il cancelliere guardasigilli e duca di Lodi Francesco Melzi d’Eril, il ministro delle finanze Giuseppe Prina, il ministro dell’interno Luigi Vaccari: tutti uniti nel chiedere l’indipendenza di un regno limitato a una parte della valle padana e governato dal principe Eugenio.
Questo partito, il partito della “cabala” come era definito sprezzantemente dai nobili municipalisti avversi al regime napoleonico, era nettamente minoritario a Milano. Per certi versi fu un peccato: si trattava infatti dell’unico movimento in grado di sostenere la battaglia per l’indipendenza al congresso di Parigi. In quel fatidico aprile del 1814, il viceré resisteva valorosamente con il suo esercito contro gli austriaci dilagati in Veneto fino al Mincio. Il 16 aprile a Schiarino Rizzino, un castello non molto distante da Mantova, il Beauharnais aveva firmato con l’Austria un armistizio in base al quale gli veniva riconosciuto il diritto di inviare a Parigi una deputazione per sostenere i suoi diritti sul trono di Milano. Tale missione fu affidata ai generali Achille Fontanelli e Antonio Bertoletti, i quali partirono subito per la Francia. Il senato del regno italico, un collegio rappresentativo con poteri prevalentemente consultivi, scelse di inviare due deputati tiepidamente filonapoleonici come Luigi Castiglioni e Diego Guicciardi, i quali tuttavia non poterono raggiungere la capitale francese per lo scoppio della rivoluzione. Se la deputazione avesse avuto i poteri necessari per operare a Parigi per conto del vicerè, non sarebbe stato difficile ottenere il riconoscimento del Beauharnais come re d’Italia al posto di Napoleone, ormai esiliato all’isola d’Elba. Egli godeva infatti della potente amicizia dello zar Alessandro I. Era inoltre legato da un vincolo familiare al re di Baviera Massimiliano I di Wittelsbach avendone sposato la figlia Amalia Augusta. Gli eventi assunsero una piega diversa. Il partito della “cabala”, quantunque fosse in grado di riscuotere alcuni consensi nell’Europa delle corti, era oggetto di un odio feroce da parte della popolazione lombarda che il 20 aprile non esitò a insorgere facendo la rivoluzione.    
Duramente provati dall’elevata tassazione che Napoleone aveva imposto al regno per finanziare le guerre francesi, sconvolti dalla morte di tanti giovani sui campi di Russia e di Germania che avevano militato valorosamente nella Grande Armée, i rivoluzionari lombardi volevano la fine del regime napoleonico. Quanti avevano aiutato il despota francese a sfruttare il popolo prestando servizio in posti di responsabilità nella burocrazia (ministri e direttori generali) furono cacciati. Ad essere colpiti furono principalmente i ministri del governo e non pochi funzionari della pubblica amministrazione. Nel mio lavoro ho dimostrato che gli impiegati pubblici modenesi e reggiani furono i più odiati dai lombardi per la loro fedeltà al regime napoleonico. La reazione colpì tuttavia quasi tutti i funzionari che erano stati ligi a Napoleone, anche quanti potevano vantare origini lombarde, venete o addirittura novaresi come il ministro delle finanze Giuseppe Prina: la feroce uccisione di questo funzionario, linciato dalla folla milanese con i puntali delle ombrelle, è descritta nel libro in modo approfondito sulla base di alcuni documenti risalenti a quell’epoca.
La stragrande maggioranza dei rivoluzionari lombardi si divideva sostanzialmente nei due partiti che si sono accennati all’inizio. Il primo raccoglieva i “cisalpini”: uomini appartenenti al ceto medio burocratico, alla borghesia lombarda del commercio e dell’artigianato, i quali chiedevano l’indipendenza di uno Stato esteso a larga parte della valle padana centro-occidentale. Come il partito dei funzionari fedeli al Beauharnais, essi aspiravano quindi a uno Stato padano italico. Diversamente dagli uomini del cessato governo italico, questi lombardi chiedevano tuttavia che il regno fosse governato da un sovrano non appartenente alla dinastia napoleonica. Erano disposti a sostenere la candidatura di un principe di casa d’Austria il cui potere fosse limitato da una Costituzione disegnata sul modello inglese o sulla falsariga di una Costituzione moderata ispirata alla Carta francese del 1791. Varrà la pena ricordare tra gli esponenti più importanti di questo movimento il cremonese Gaetano Pietro Cadolino, il comasco Ludovico Giovio.
Il secondo partito era formato invece dalla nobiltà lombarda più tradizionalista, la quale aveva colto nel crollo del regime napoleonico una straordinaria opportunità per rifondare uno Stato assai vicino all’antico principato regionale visconteo-sforzesco ad egemonia patrizia: lo Stato che si era venuto formando nei secoli della dominazione spagnola e nei primi cinquant’anni del XVIII secolo, nel primo periodo della dominazione austriaca. Questa nobiltà (Luigi Carlo Rasini, Alfonso Castiglioni, Giacomo Mellerio) chiedeva un regno indipendente limitato all’incirca all’attuale regione Lombardia, alla Liguria, all’alto e basso novarese, a una parte dell’alessandrino: un territorio quest’ultimo che si rendeva necessario per congiungere il Genovesato con il Milanese. Aspiravano anch’essi a un regno governato da un principe di casa d’Austria, ma era importante che l’assetto costituzionale del potere riprendesse  i peculiari moduli di governo della società d’ancien régime: la gestione dell’amministrazione pubblica doveva essere esercitata in una sorta di regime a mezzadria tra la burocrazia professionale del monarca e la nobiltà locale. Tale partito era ben presente in seno al governo provvisorio succeduto a quello napoleonico.
Occorre inoltre ricordare che, tra quanti parteciparono alla rivoluzione, c’era una piccola frangia di patrioti italiani i quali, a voler prendere in esame le loro rivendicazioni sul piano geopolitico, possono considerarsi gli antenati degli attuali paladini dell’Unità d’Italia. Erano uomini assai vicini alla massoneria e alle prime sette carbonare, i quali si battevano per un regno esteso a gran parte della penisola, governato dal re di Napoli Gioacchino Murat.
Quando i rivoluzionari lombardi conquistarono il governo dello Stato in seguito alla rivolta popolare del 20 aprile fu inviata al congresso delle potenze alleate una nuova deputazione in sostituzione di quella napoleonica per ottenere il riconoscimento di uno Stato indipendente in una parte più o meno estesa della Padania centro-occidentale. Tali piani furono destinati al fallimento: il viceré Eugenio, amareggiato per l’odio che i lombardi nutrivano nei suoi confronti, sconvolto per la feroce uccisione del ministro Prina, firmò un trattato con l’Austria (capitolazione di Mantova: 23 aprile 1814) con il quale cedeva all’Impero asburgico quel che restava del regno italico nonché le stesse piazzeforti che ancora resistevano valorosamente al nemico. Gli austriaci si videro consegnare su un piatto d’argento quel che restava del regno italico, senza colpo ferire. Con tale atto di diritto internazionale il viceré non solo rinunciò ai suoi piani per succedere a Napoleone come re d’Italia; compromise gli stessi programmi dei rivoluzionari, i quali non poterono più contare su un esercito “nazionale” con cui far valere materialmente l’indipendenza dei territori lombardi. Come scrisse da Parigi il patrizio milanese Federico Confalonieri alla moglie Teresa Casati, “noi siam venduti”.
TITOLO: I Lombardi contro l’Italia di Napoleone. La battaglia perduta per uno Stato indipendente in Padania AUTORE:  Gabriele Coltorti; EDITORE: San Marino: Il Cerchio, 2012; PAGINE: 112

Milano tra megalopoli padana e “megistopoli” europea

Trent’anni fa l’eminente geografo Jean Gottmann sosteneva che nel Nord Italia si era formata una magalopoli simile a quella da lui scoperta nel Nord America, tra l’Atlantico e la catena dei monti Appalachi. Si veda a tal proposito il saggio di Gottmann Verso una megalopoli padana? nel volume curato da Calogero Muscarà e intitolato Megalopoli mediterranea (Milano, Franco Angeli 1978, pp.19-31). Ma quali sarebbero le caratteristiche di una megalopoli? Secondo il geografo francese essa è tale se presenta:
  • 1   un’area densamente urbanizzata ove la maggioranza degli abitanti adotta stili di vita urbani;
  • 2.   una popolazione compresa tra i 20 e i 25 milioni di abitanti;
  • 3.   l’esistenza di larghi spazi non urbanizzati costituiti da campi agricoli, boschi o zone montuose;  
  • 4.    una struttura “polinucleare” o “a nebulosa” tale da renderla un grande mosaico con un certo numero di zone differenti;
  • 5.    un livello di comunicazioni-informazioni altamente sviluppato basato sui mass media
  • 6.     un’alta mobilità degli abitanti

Nel caso del Nord Italia Gottmann sosteneva che la megalopoli padana sembrava rispondere a tali requisiti, non foss’altro perché già allora le aree metropolitane di Milano, Genova, Torino, Venezia e Bologna, i centri urbani di Bergamo, Brescia, Verona, Vicenza, Padova, Treviso, Bologna, Parma, Modena e via dicendo confinavano e “dialogavano” con i vasti spazi circostanti occupati da boschi, campi e rilievi montuosi. D’altra parte, se ci pensiamo bene, il Nord Italia è contraddistinto ancora oggi da un’area fittamente urbanizzata ove gli spazi agricoli o, per dir così, selvaggi (rilievi montuosi) convivono con quelli cittadini. I paesi di montagna sono addirittura frequentati nei mesi estivi da un turismo urbano che li concepisce come “seconda patria”, oasi felice ove i cittadini amano trascorrere serenamente le vacanze estive dimenticando per alcune settimane i frenetici ritmi urbani. Oggi il Nord Italia conta 27 milioni di abitanti, gran parte dei quali lavora spostandosi dai comuni della collina, dell’alta e della “bassa” pianura verso le città metropolitane ove sono concentrate aziende attive nel terziario o quaternario (terziario dei massmedia). Siamo quindi dinanzi a un alto tasso di mobilità, in linea con quanto notava il geografo francese.

Gottmann sosteneva addirittura che l’asse Genova-Venezia renderebbe la pianura padana una megalopoli “trans-istmica” perché tale fascia di territorio ha consentito in passato – e consente tuttora – di gestire importanti rapporti commerciali tra due grandi aree: il sud est mediterranaeo e il nord ovest dell’Europa. Basti ricordare a tal proposito il ruolo fondamentale rivestito dai mercanti genovesi, veneziani e pisani in campo finanziario e nei traffici delle spezie orientali. D’altra parte le città di Milano, Genova, Venezia e Firenze potevano contare già nel basso Medioevo su un mercato internazionale che oltrepassava largamente le fiere che si tenevano ordinariamente nelle vicine regioni. 

Ma il geografo francese andava oltre. A suo parere, l’Italia settentrionale potrebbe essere considerata il bastione meridionale di una “megistopoli” europea, intendendo con questo termine l’area comprendente la parte meridionale della Gran Bretagna con Londra, Parigi e l’Ile de France, la Francia centro e sud orientale, la Germania occidentale, l’Italia del Centro Nord. Una vastissima regione europea caratterizzata da una ricchezza piuttosto elevata. E’ significativo che tale “megistopoli” sia tuttora costituita in larghissima parte da regioni i cui abitanti hanno il più alto reddito pro capite dell’Unione Europea.

Ho riportato per sommi capi le analisi originali di Gottmann perché ad esse è corso il pensiero mentre leggevo, alcuni giorni fa, un vecchio scritto di Carlo Cattaneo. Nel 1860, un anno prima che venisse proclamato il regno d’Italia sabaudo, il grande intellettuale e patriota lombardo scriveva che Milano non solo costituiva il centro dell’Alta Italia, ma si trovava all’interno di un asse che era stato per secoli il cuore dell’economia europea. Egli descriveva “l’antico e moderno incivilimento” partendo da una riflessione sulla posizione geo-economica di Milano:
 
“Il fatto geografico fondamentale consiste in ciò: che Milano è sul grande asse trasversale dell’Alta Italia; e nel tempo stesso è sul grande asse commune della penisola italiana, dei due mari e delle isole; il quale si continua e si ripete nella gran valle del Reno, lungo la linea di contatto d’altre due grandi nazioni; e di là si connette pei Paesi Bassi alle Isole Britanniche, come dall’opposta estremità si prolunga verso la Grecia, l’Asia Minore, la Siria, l’Egitto. Può dirsi questa la via maestra dell’antico e moderno commercio, dell’antico e moderno incivilimento.

Roma è il centro di posizione e di gravità di tutto il sistema italiano; ma se si considera solo l’Alta Italia e quella popolazione di quattordici o quindici milioni che stanzia tra Roma e le Alpi, si vede che circa un terzo di essa vive a levante di Milano, un terzo a ponente, un terzo a mezzodì. La Svizzera, nella direzione del suo centro e di Basilea, compie la crociera”. CARLO CATTANEO, La ferrovia di Como in “Il Politecnico”, VIII, fasc.XLIII, 1860, pp.34-43.

In effetti, consultando le fonti dell’epoca, i dati sembrano in gran parte coincidere con quanto scriveva Cattaneo. Consultando la Statistica del Regno d’Italia, (Censimento generale 31 dicembre 1861, Firenze 1865) si ricava che nei territori a sud di Milano (gli ex ducati di Parma e Piacenza, Modena e Reggio, la Romagna pontificia, l’ex granducato di Toscana e le Marche papali) vivevano  4 milioni e 900 mila abitanti, la Lombardia contava 3 milioni e centomila abitanti che, sommati al Veneto e a Mantova (ancora austriaci nel 1861), toccavano anch’essi i cinque milioni di persone; il Piemonte e la Liguria contavano 3 milioni e 600 mila abitanti, ma occorre aggiungere nel calcolo i territori di Nizza e Savoia, ceduti alla Francia nello stesso anno in cui Cattaneo scriveva il suo articolo: anche qui, la popolazione si attestava presumibilmente sui 4 milioni e mezzo di abitanti, assai vicino ai 5 milioni. 

Oggi l’Alta Italia conta una popolazione decisamente superiore rispetto ai quindici milioni di abitanti cui faceva riferimento Cattaneo. Ci si potrebbe domandare se, confermata l’esistenza di questa ricca megalopoli europea, in un prossimo futuro non possano determinarsi le condizioni per una sua indipendenza politica all’interno dell’Unione Europea. 

L’indole dei Milanesi secondo Carlo Cattaneo

Carlo Cattaneo fu autore di un’interessante guida di Milano rimasta purtroppo incompiuta. Mentre leggevo la sua opera, scritta nella prima metà dell’Ottocento, mi son imbattuto in una descrizione dei milanesi che sembra esser fatta da un contemporaneo. Un ritratto straordinariamente moderno se consideriamo che venne scritto nella prima metà dell’Ottocento, nella piccola Milano austriaca popolata da soli 125.000 abitanti: 

“In confronto alle altre città d’Italia, Milano ha minor numero di cruscanti, di puristi, di periodisti, di parolaj d’ogni razza e d’ogni partito. Qui le persone studiose si ingegnano di essere contemporanei del loro secolo e non s’affannano di ritardare, per quanto è lor possibile, i progressi dell’intellettuale perfezionamento ne’ loro concittadini distraendoli dallo studio delle cose a quello di una insetata verbosità”. Appunti per una guida di Milano: un manoscritto inedito di Carlo Cattaneo in «Il Risorgimento», anno XLI (ottobre 1989), fasc. n.3, pp.226-227.