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“Quando le modelle sfilavano con i miei abiti al Grand Hotel et de Milan…”

Delia Riva, titolare dell’omonima boutique di moda prêt-à-porter in via Carducci 34, racconta la sua vita di imprenditrice nella Milano del secondo ‘900. Dal 2006 Carlotta Ferrari, figlia di Delia, gestisce il negozio con la madre: “Il tempo passa, i mezzi cambiano, i valori restano”.

Via Carducci oggi è una strada ad alto scorrimento, molto trafficata, in cui gli spostamenti sono resi difficili dai lavori – in via di ultimazione – legati al cantiere della M4, da pochi mesi aperta sull’intera tratta da Linate a San Cristoforo.

È una delle zone del centro più ricche di storia, custodi di un passato che ha reso grande Milano. Ci troviamo nell’antico sestiere di Porta Vercellina, a due passi dalla basilica di Sant’Ambrogio, una delle più antiche chiese di Milano. Poco oltre, la pusterla omonima nelle mura medievali segnava l’ingresso nella città antica per chi proveniva dalle campagne circostanti; al di là scorreva il Naviglio di San Girolamo che, dopo aver attraversato l’attuale via Carducci, si congiungeva a sud presso il ponte degli Olocati con il Naviglio Interno per sfociare in Darsena dopo aver attraversato la celebre Conca di Viarenna. 

È un quartiere in cui si trovavano i palazzi di importanti famiglie del patriziato e più in generale della nobiltà milanese: se si consulta un prezioso documento risalente al 1770 riguardante le famiglie illustri milanesi intitolato Catalogo della Nobiltà conservato nell’Archivio di Stato di Milano, si nota che in questa zona si trovavano le vaste proprietà immobiliari dei Borromeo, i palazzi dei Litta Visconti Arese in corso Magenta, dei Visconti d’Aragona in via Sant’Agnese, dei Terzago in via Cappuccio, dei Pusterla e degli Andreotti nello stradone di San Vittore. Da un po’ di tempo mi chiedo quale sia l’anima pulsante di questa zona e, se esiste, come sia legata al passato illustre che ho ricordato. Un aiuto importante per capire alcuni aspetti della perenne vitalità del quartiere, tuttora abitato da illustri esponenti di famiglie milanesi, mi è stato dato dall’incontro con la signora Delia Riva, il cui negozio di alta moda femminile (Delia Riva Boutique: https://www.rivadeliaboutique.it) si trova in via Carducci 34. 

Suono il campanello. Mi apre la dottoressa Carlotta Ferrari, figlia della Signora Riva, attuale direttrice e responsabile della divisione social media della boutique. È una giovane elegante, raffinata, dall’eloquio lucido, che mi accoglie con affabilità. Mi invita ad entrare in un secondo ambiente del negozio, dove ho il piacere di conoscere la signora Delia Riva, colei che avviò l’attività commerciale nella Milano anni Sessanta portandola agli attuali livelli di eccellenza. Il rito della moka è fondamentale e, mentre sorseggio l’ottimo caffè portatomi da Carlotta, ascolto con interesse la signora Riva, nel cui viso risaltano gli occhi lucenti di una personalità forte, tutta proiettata nell’azione appassionata della commerciante di moda che nella stessa gestualità esprime una intraprendenza mai venuta meno con il passare degli anni. 

Delia Riva e Carlotta Ferrari

In che tipo di famiglia è cresciuta?

“Mio padre Celestino, che è stato chiamato a servire la patria in guerra, gestiva un’attività specializzata nella rottamazione dei metalli (soprattutto ferro): la sua azienda si trovava nell’area delle antiche Cascine Pismonte [oggi purtroppo scomparse, furono demolite circa vent’anni fa, NdR]. In realtà, la sua attività di “Rottamatt” si estendeva a diversi altri campi: ricordo ad esempio che rivendeva i vecchi vestiti della Scala a un signore il cui negozio si affacciava sul Naviglio Grande”. 

L’area delle cascine Pismonte nella zona sud di Milano, in aperta campagna, confinava con rogge e canali (tra cui la Vettabbia) che scorrono tuttora fino a Chiaravalle. In quelle zone erano molto presenti un tempo gli stabilimenti per la fabbricazione della carta, anche con gli stracci che servivano a produrre quella di pregio.

“Mio padre era molto bravo a rivendere la merce. Venivo da una famiglia di commercianti. Mio padre Celestino e mia mamma Giovanna lavoravano lì in azienda: erano conosciuti come sciur Riva e sciura Riva. Io e mia sorella Giusy siamo cresciute in quegli ambienti, fatti di duro lavoro e sacrifici. Le cascine Pismonte sono state per tutta la mia infanzia e adolescenza una presenza costante. Pensi che per il compleanno i miei genitori erano soliti regalarmi una pecora o un asino!”

Che tipo di formazione ha avuto?

“Non ero molto portata negli studi e andai subito a lavorare. Terminata la scuola dell’obbligo, all’età di diciassette anni frequentai un corso in via Larga sulla moda: ci insegnavano come adattare la vestibilità dei capi alla figura del corpo femminile”.  

Delia Riva Boutique

Quando ha deciso di aprire la boutique?

“Fu nel 1967: io e il ragazzo che frequentavo all’epoca, assieme a un’altra coppia, decidemmo di aprire il negozio con il nome “Shop 34”. È stata una delle prime boutique “a scaffale aperto”: ricordo che all’epoca c’era solo “Lella Sport” in via San Pietro all’Orto ad avere questo tipo di allestimento degli ambienti: niente cassettiere o armadi ove riporre gli abiti; solo scaffali dove sistemarli per lasciare alle clienti la libertà di vederli, di toccarne i tessuti e di chiederli per una prova”. 

Gli anni Sessanta sono stati indubbiamente cruciali. Usciva alla ribalta una generazione di giovani desiderosi di mettersi in gioco, animati dal desiderio di affermarsi, spesso in opposizione a una società – quella della fine anni Cinquanta e primi anni Sessanta – vista in un processo di tumultuosa crescita economica, giudicata corrotta e ancora arretrata culturalmente, intrappolata da costumi patriarcali. Gigliola Cinquetti vinceva nel 1964 il Festival di Sanremo con Non ho l’età: il look semplice della giovane cantante, tutta “acqua e sapone”, divenne presto il simbolo della purezza contro il marciume del decadimento morale. 

Caterina Caselli cantava la celebre Nessuno mi può giudicare nel 1966, una canzone che esprimeva non solo la libertà femminile, ma anche la rivolta di tanti giovani contro le convenzioni sociali. Lei come ha vissuto la fine degli anni Sessanta e i primi Settanta?

“Eravamo una bella compagnia che si divertiva. Milano era una città che rifletteva tutte le contraddizioni di quegli anni. Ricordo che ci portavano in giro per la città su meravigliose macchine sportive, erano spider di colore rosso. Dopo il cinema, si andava al Derby di via Monterosa, poi al Charlie Max che era uno dei locali più alla moda. Furono anni indimenticabili. Fu proprio allora che organizzai una sfilata al Grand Hotel et de Milan di via Manzoni in cui feci sfilare le modelle con gli abiti della mia boutique: pensi che in quell’occasione vennero a suonare i “Ragazzi della via Gluck”, cioè il gruppo di Adriano Celentano! Fu un evento memorabile!”

Poi sono arrivati gli anni Settanta…

Milano, 14 maggio 1977, foto di Paolo Pedrizzetti

“La lotta armata, gli scontri tra manifestanti e polizia, i primi morti. Il 14 maggio 1977, durante una manifestazione, uno spezzone di “autonomia operaia” si staccò dal corteo portandosi verso il carcere di San Vittore; all’incrocio con via De Amicis ebbe inizio uno scontro a fuoco con la polizia che era schierata a pochi metri. L’agente Antonio Custra fu colpito a morte. Uno dei manifestanti più violenti venne fotografato in quei momenti: la testa coperta da un passamontagna, le gambe divaricate, le braccia tese e due mani che impugnavano una pistola puntata verso la polizia. Quella fotografia, scattata a pochi metri dal negozio, divenne il simbolo dell’Italia negli anni di piombo”. 

“Ricordo che furono lanciati lacrimogeni contro le mie vetrine e questo gettò nel terrore le persone che erano in strada: io ne feci entrare alcune in negozio perché potessero attendere la fine dei disordini ed essere fuori pericolo”.

Qui ci troviamo in una delle vie centrali di Milano: anche a quell’epoca questa zona era costosa da un punto di vista immobiliare?

“Si, questo è un quartiere da sempre legato a doppio filo con la storia del patriziato, della nobiltà e della illustre borghesia milanese. A pochi metri da qui ci sono le case dei Borromeo, di fronte si trova un immobile dei Caccia Dominioni”. 

“Il palazzo in cui ci troviamo fu costruito nei primi anni Sessanta dall’INPS. Quando si rese libero il locale e facemmo richiesta per prenderlo in affitto, ci proposero un canone di locazione di cinque milioni all’anno, che negli anni Sessanta era una cifra altissima. Mio padre mi impose di non accettare e aveva ragione perché  non saremmo certamente riusciti a sostenere i costi di affitto. Fu così che decidemmo di optare per una soluzione mensile dal canone più ragionevole”. 

“Gli affari per fortuna furono buoni fin dall’inizio e con il passare degli anni si accrebbero progressivamente, anche grazie alla mia capacità di seguire il nuovo che stava arrivando e fissando al contempo una mia linea”. 

“Il punto in cui si trovava il negozio fu fondamentale per il nostro successo: ricordo ad esempio che da noi venivano spesso le dipendenti della Rinascente, i cui uffici erano vicinissimi, in via Olona”.

L’interno del negozio in un allestimento recente

Quali marchi tenevate?

“Ricordo ad esempio le camicie di seta disegnate da Emmanuel Schvili, che negli anni seguenti avrebbe diversificato, investendo soprattutto nella produzione di capi con le stampe dei cartoni animati. Poi avevo Alberta Ferretti, Giorgio Grati, Bibak, Renato Balestra, Enrico Coveri Jeans. Ma il cambiamento più radicale e rivoluzionario nella moda femminile arrivò negli anni Settanta con i Jeans Bible di Jesus con il celebre slogan pubblicitario: “Non avrai altro Jesus all’infuori di me”. Quello slogan suscitò la reazione della Chiesa cattolica, che spinse le autorità a ritirare i cartelloni pubblicitari”.

Sulla vicenda Pier Paolo Pasolini scrisse un lungo articolo il 17 maggio 1973 in cui, criticando i “censori” ecclesiastici, prendeva le difese di quella pubblicità: “C’è, nel cinismo di questo slogan – scrisse Pasolini sul “Corriere della Sera” – un’intensità e una innocenza di tipo assolutamente nuovo, benché probabilmente maturato a lungo in questi ultimi decenni (per un periodo più breve in Italia). Esso dice appunto, nella sua laconicità di fenomeno rivelatosi di colpo alla nostra coscienza, e già così completo e definitivo, che i nuovi industriali e i nuovi tecnici sono completamente laici, ma di una laicità che non si misura più con la religione”.

“Fu un inno alla libertà femminile. Le donne giravano con gli zoccoli Louis Vuitton e la moda di quegli anni vedeva l’affermarsi della borsa LV e dei Rolex. Noi vendevamo gli abiti di Gianni Baldini, le camicie di seta a 12.000 lire e i Jeans Jesus. Poi in quegli anni Settanta si affermò l’attenzione per il fondo schiena”. 

Ricordo che Baldini fu il primo nel 1962 ad affidare a Walter Albini la propria collezione “Le mille e una notte”. 

“Se penso ad Alberta Ferretti e alla filosofia che sottostava alla linea dei suoi abiti, si puntava chiaramente all’immagine di una donna sportiva ed elegante. Le clienti venivano da noi e ordinavano tanti capi di una stessa taglia scegliendoli tra i vari marchi. Ricordo che all’epoca la donna si cambiava tre volte al giorno: la mattina si sceglieva un abbigliamento sobrio per il lavoro, il pomeriggio uno per le “commissioni” come allora si diceva a proposito degli acquisti dopo il lavoro, poi il vestito per la sera a teatro o nei locali della mondanità. Uno stile di vita che vide in noi negozianti delle figure fondamentali per indirizzare le clienti negli ordini significativi che venivano fatti”. 

In quegli anni Settanta quali cambiamenti vi furono nella gestione del negozio?

Giusy Riva, sorella di Delia

“Cambiò anzitutto il nome della boutique perché divenni l’unica proprietaria con l’insegna Riva nel 1970. Nel 1973, in seguito alla chiusura del negozio in via Pismonte, mia sorella Giusy venne ad aiutarmi: le clienti aumentavano e anche piuttosto velocemente”.

Se potesse scegliere un decennio tra gli anni Settanta, Ottanta, Novanta e Duemila, quale fu quello in cui i guadagni furono maggiori?

“Senza dubbio gli anni Ottanta. Seppi instaurare un rapporto di fiducia con le persone che venivano in negozio, tutto basato sull’eccellenza del servizio: seppi costruirmi uno zoccolo duro di clienti affezionate. Alcune continuano tuttora a passare da me per comprare abiti e rinnovare il guardaroba. Se questo è successo, è stato anche il risultato di un certo rapporto di amicizia che si è stabilito con molte di loro”.  

Cosa ricorda degli anni Novanta?

“Introdussi nuove linee. Decisivo fu l’incontro con Mariella Burani, i cui abiti tenni in negozio per tanti anni. Qui può vedere alcuni poster pubblicitari della Burani, in cui si nota l’attenzione per una linea molto sofisticata, ma ‘sdrammatizzata’ con l’inserimento di elementi grintosi come i biker boots abbinati a gonne di seta stampate con pizzi meravigliosi .”

Com’è cambiato lo stile di vita delle donne? 

“A partire dagli anni Duemila abbiamo avuto un cambiamento notevole nei costumi femminili. L’uso di cambiarsi due o tre volte al giorno è divenuto raro. Ora si tende a portare un vestito per tutta la giornata. Questo ha comportato una netta riduzione negli ordini alla casa madre: le ditte producono solo sul venduto, in base agli ordini dei negozianti. Questo significa che non abbiamo capi in più qualora ci sia una richiesta ulteriore di merce per un riassortimento della linea durante la stagione. Il negoziante deve effettuare gli ordini in modo oculato, cercando di intuire le richieste del mercato: non può ordinare capi in quantità eccessiva che poi non riesce a vendere”. 

Allestimento natalizio della boutique Delia Riva

Carlotta Ferrari, che dal 2006 dirige il negozio con la madre, dopo avermi mostrato gli ambienti della boutique – i cui arredi presentano gli stessi allestimenti degli anni Sessanta – mi descrive i cambiamenti degli ultimi anni. Oggi le clienti possono trovare capi di abbigliamento delle seguenti aziende: Angelo Marani, Clips, 1-One, Le Tricot Perugia, Tricot Chic, Diego M. 

Carlotta poi mi racconta che è intervenuto un mutamento radicale nei rapporti con la clientela: il contatto con il cliente avviene in modi completamente diversi rispetto all’epoca in cui sua madre avviò giovanissima la sua attività. La pubblicità sui social, l’investimento nella comunicazione sono oggi fondamentali per raggiungere nuovi target. Vedo in lei la stessa determinazione ed entusiasmo della signora Riva: l’eleganza del portamento, la signorilità ed estrema affabilità nell’accogliere la clientela, la passione con cui segue gli andamenti del mercato e va alla ricerca delle novità nel campo della moda.

Carlotta Ferrari e Delia Riva

La dottoressa Ferrari mi spiega come la promozione di nuove collezioni sui social sia stimolante, ricca di sorprese: consente di entrare in contatto con una clientela enormemente più vasta rispetto a quella a cui si rivolgeva la signora Riva.  Precisa tuttavia che “se i mezzi cambiano, i valori restano”: la visita in negozio resta fondamentale e l’assistenza alla cliente è un rapporto umano che si costruisce nel tempo, da cui nascono legami che l’uso ragionato dei social contribuisce a consolidare. Il rito della moka è un tratto distintivo di Delia Riva Boutique: consente alle clienti di conoscere la storia del negozio, esprimere i propri gusti e preferenze nella scelta degli abiti, indirizzare con serenità gli acquisti sui capi più adatti.

Riapertura dei Navigli: un’occasione da non perdere

Nello scorso weekend il sindaco di Milano Giuseppe Sala si è recato a Chicago per partecipare a un convegno sulle “Urban Waterways”. Invitato ad intervenire dal sindaco di Chicago Emanuel Rahm, Sala ha parlato delle grandi opportunità che la riapertura dei Navigli potrebbe portare a Milano nell’incremento del turismo e nel decisivo miglioramento della qualità della vita urbana grazie alla fruizione di più ampi spazi pubblici fatti di verde e di canali.

La riapertura di quasi otto chilometri di naviglio in via Melchiorre Gioia e in centro città, garantendo il collegamento della Martesana con la Darsena di Porta Ticinese, renderebbe possibile la realizzazione di un grande progetto di navigazione turistica su scala milanese, regionale e perfino europea: difatti, qualora fosse realizzata tale opera, uno svizzero di Locarno, un italiano che vive sul Lago di Como, un turista del Lago Maggiore potrebbero raggiungere il centro di Milano attraversando con un servizio di battelli i Navigli Grande, Pavese e Martesana resi completamente navigabili. Si capisce quindi come la riapertura dei questi otto chilometri di canale, in città e in centro città, sia vitale per la riattivazione dell’intero sistema dei navigli lombardi.

Nyhavn
Nyhavn, antico porto di Copenaghen in centro città

La città ambrosiana potrebbe disporre di un’altra risorsa importante per la promozione turistica del territorio in campo internazionale: Milano sarebbe non solo una città lavorativa che potrà contare su una invidiabile rete di trasporto pubblico (con la M4 sarà possibile raggiungere il centro da Linate in 15 minuti!); con la riapertura dei navigli la metropoli ambrosiana sarebbe  attraente sotto il profilo della vivibilità e dell’ambiente: la rete dei canali, riattivata da Pavia fino ai Laghi, consentirà di competere ad armi pari con metropoli quali Amsterdam, Copenaghen, Amburgo e San Pietroburgo. Assieme ai più ampi spazi di verde pubblico che saranno resi possibili grazie al recupero dei sette scali ferroviari, la disponibilità di una rete di canali navigabili metterà Milano nelle condizioni di essere non solo una metropoli del business, ma anche una città in grado di offrire una elevata qualità di vita urbana come città d’acque e del verde.

Perché questo si avveri tra qualche anno, è tuttavia importante che i milanesi partecipino in massa al referendum che l’amministrazione comunale ha indetto in autunno e votino Sì al progetto di riapertura dei navigli. Il costo del progetto, che era stato stimato inizialmente a 400 milioni di euro, è stato da alcuni esperti ridimensionato a poco più di 200 milioni per il risparmio che ad esempio l’utilizzo dei cantieri della M4 in centro città potrebbe recare all’opera di scavo e di apertura del nuovo canale. Il Sindaco Beppe Sala, che è uomo concreto e tutt’altro che sprovveduto, intende disporre però di una stima il più possibile attendibile dei costi. A tal fine ha formato una squadra di esperti che si esprimerà nei prossimi mesi consentendogli di porre i milanesi dinanzi a un progetto preciso ove saranno indicati i costi veri e propri e i mezzi per farvi fronte. La riapertura dei navigli, com’era prevedibile, ha diviso la città in favorevoli e contrari.

Piazza Vetra con il Naviglio
Come sarebbe il Parco delle Basiliche (dietro San Lorenzo e Sant’Eustorgio) con il Naviglio riaperto

Come Urbanfile ha già evidenziato in un post del 14 marzo scorso, la direttrice del Master turismo in Bocconi, Magda Antonioli, ha sottolineato i benefici della riapertura sotto il profilo del turismo e soprattutto dell’accresciuta valorizzazione di alcune zone periferiche: basti pensare al parco della Biblioteca degli Alberi, a piazza Gae Aulenti e al quartiere City Life in via Melchiorre Gioia; in centro città vi sarebbe invece un’ulteriore attrazione turistica grazie al nuovo canale (la cui larghezza media sarebbe di sette metri) in punti che ancora riflettono la struttura urbanistica dell’antico naviglio: via San Marco in zona Brera; piazza Cavour-via Senato vicino al viale alberato di via Marina a due passi dai giardini pubblici di via Palestro e dal parco della Villa Reale; via Francesco Sforza vicino al parco della Guastalla e dietro all’Università Statale; via Molino delle Armi lungo il parco delle Basiliche tra San Lorenzo e Sant’Eustorgio; via Conca del Naviglio e via De Amicis a pochi metri dal parco dell’Anfiteatro romano.

Non sono mancati però i critici. Luca Beltrami Gadola, in un post del 15 marzo pubblicato sul sito Arcipelago Milano, ha ironizzato sul balletto di cifre in merito ai costi della riapertura. Inoltre, ha fatto osservare che le spese per la manutenzione dei canali sarebbero assai alte, come già è dimostrato – a suo giudizio – da quanto è avvenuto per la Darsena di Porta Ticinese.

“Alle proteste dei residenti e dei promotori del restauro della Darsena, spazio pubblico per eccellenza, il Comune pare abbia risposto che bisogna pur cavare qualche soldo per coprire le spese di gestione, pulizia e manutenzione della Darsena stessa spese che sembra assommino a quasi un milione di euro ogni anno. Il bando era con una base di 35.000 euro. Lungo il cammino da trentacinque al milione!”. Beltrami Gadola si chiede quanto costerà la manutenzione dei nuovi canali.

Amsterdam King's Day Boats
Quest’anno la tradizionale festa King’s Day Boats si terrà ad Amsterdam il 27 aprile!

La domanda è fondata. Sarà interessante nei prossimi mesi leggere la relazione della squadra di esperti messa in campo per volontà del Sindaco Sala. Una cosa però è certa: i canali costano come dappertutto. Lo sa bene chi abita ad Amburgo, a Copenaghen, a Venezia.  Della loro manutenzione se ne occupa il Comune mediante l’impiego delle risorse pubbliche ricavate dalle tasse locali. Può anche succedere tuttavia che il servizio sia gestito da un’azienda privata. E’ il caso di Amsterdam, dove gli interventi sulle fogne e sui canali sono gestiti non solo dal Comune mediante una tassa comunale (la gemeentebelasting), ma anche da una società privata, la Waternet, alla quale i cittadini pagano i servizi di pulizia delle acque (zuiveringsheffing), di pulitura dei canali e del mantenimento del livello d’acqua sufficiente alla navigazione. La Waternet garantisce peraltro a 1 milione e 200.000 olandesi l’accesso alla rete di acqua potabile e garantisce una rete di acque pulite nelle città, nei fiumi e nei laghi intervenendo costantemente alla loro manutenzione. I servizi costano e si pagano dunque, com’è ovvio che sia. I benefici però sono sotto gli occhi di tutti. Nessuno si sognerebbe di recarsi ad Amsterdam, a Copenaghen, a San Pietroburgo, a Venezia senza fare il giro dei canali lungo la città e i suoi dintorni. Milano può ambire a questo? Certamente sì: lo dimostra la sua storia, ove i navigli in centro città e in campagna, sono stati per secoli una infrastruttura fondamentale per l’economia del territorio e possono continuare ad esserlo per l’industria turistica. Non si capisce per quale motivo Milano non possa tornare ad essere il cuore dei Navigli lombardi.

Battelli sul canale di Amsterdam
Gite in pedalò e in battello in un canale di Amsterdam

Ma torniamo al caso di Amsterdam: nei canali sono in via di sperimentazione alcuni battelli-robot che, oltre a provvedere alla pulizia delle acque, fungono da ponti provvisori per il passaggio delle merci e delle persone in occasione di eventi speciali in cui la città è sovraffollata. Una soluzione che si potrebbe applicare anche a Milano in un futuro non troppo lontano: penso alla settimana della moda o del design. Insomma, nulla vieta che questo connubio tra acqua e tecnologia possa essere sperimentato anche da noi per la manutenzione dei canali.

Via Fatebenefratelli
Come potrebbe essere via Fatebenefratelli all’incrocio con via San Marco se venissero riaperti i Navigli

Questo tuttavia potrà avvenire solo se passerà il referendum sulla riapertura dei navigli, fissato in autunno. L’operazione, com’è ovvio, avrà i suoi costi ma consentirà alla città di tornare a disporre di una rete di canali invidiabile, i cui benefici sul piano dell’industria turistica, dell’ambiente e della qualità della vita saranno tali da ripagare ampiamente le risorse impiegate. I Navigli sono il cuore di Milano. Una Milano senza la sua cerchia interna è una Milano senza cuore. Rendiamoci conto di cosa ci giochiamo con il referendum sulla riapertura.