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ASL 2021: studi su Milano napoleonica e sulla città universitaria del primo ‘900

Il volume pubblicato dalla Società Storica Lombarda è dedicato alle istituzioni culturali e scientifiche che fiorirono in città nei primi anni del secolo scorso; la seconda sezione centrata sul bicentenario napoleonico e portiano.

L’Archivio Storico Lombardo 2021 (Milano, Scalpendi Editore, 415p). presenta contributi di notevole interesse nel campo degli studi storici. La prima sezione del libro è dedicata alla Milano degli anni Venti del Novecento, la seconda al bicentenario dalla morte di Napoleone e del poeta milanese Carlo Porta (1821-2021). In questa sede ci si soffermerà brevemente su queste parti, anche se occorre precisare che le altre sezioni del volume presentano saggi di notevole originalità, come ad esempio quello di Marino Viganò su Varese negli anni tormentati della dominazione francese del ducato di Milano (1499-1512; 1515-1521) oppure il contributo di Elisa Occhipinti sulle Tracce di Lombardia nella Divina Commedia ove è preso in esame il concetto medievale di Lombardia in Dante. 

Nella prima sezione dell’Annale 2021 i contributi prendono in esame le istituzioni universitarie e culturali esistenti nella Milano dei primi anni del XX secolo, una città interessata all’epoca da un profondo cambiamento nella sua struttura urbanistica. L’aumento demografico della popolazione, che superava largamente il mezzo milione di abitanti nel 1911 (600.612 cittadini) costrinse l’amministrazione a superare il vecchio piano regolatore Beruto sostituendolo a partire dal 1912 con quello Masera-Pavia: il nuovo piano creò le condizioni per l’imponente trasformazione del comune urbano. Varrà la pena ricordare in proposito la sostituzione dei viali alberati lungo il tracciato dei Bastioni, che furono demoliti per costruire nuove arterie stradali. 

Come mette in evidenza Adele Buratti Mazzotta nel saggio di introduzione alla prima sezione, il piano Masera-Pavia, nell’allargare ulteriormente la struttura urbanistica ad anelli concentrici fino a comprendere nuove aree dell’antico contado, intese rispondere all’accresciuta attività industriale della città; esso intese pure far fronte alla richiesta di nuove abitazioni dovuta all’aumento demografico che si è sopra ricordato. Fu in questa Milano in tumultuoso sviluppo urbanistico che si costruirono le prime case, rese effettive ad opera dell’Istituto Autonomo Case Popolari (fondato nel 1908) sotto la guida energica dell’architetto Giovanni Broglio.

In questa Milano rinnovata sorsero istituzioni universitarie e culturali destinate ad arricchire la vita sociale della città. Occorre ricordare in primo luogo il Politecnico, il cui edificio venne costruito nell’area un tempo agricola delle Cascine Doppie tra il 1915 e il 1927. Un’altra importante novità, come messo in evidenza nel saggio di Lorenzo Ornaghi, fu la fondazione nel 1921 dell’Università Cattolica per volontà di padre Agostino Gemelli e di un gruppo di cattolici italiani particolarmente sensibili al progresso della scienza e della cultura. La prima sede si trovava in via Sant’Agnese 2, poi trasferita nei chiostri bramanteschi dell’ex Ospedale Militare di Sant’Ambrogio negli anni Trenta. Padre Gemelli volle che i giovani cattolici italiani ricevessero una formazione rigorosa, informata ai più aggiornati metodi didattici allora esistenti, sul modello di atenei quali l’università di Lovanio o di Berlino: l’obiettivo era la costituzione di una classe dirigente cattolica culturalmente attrezzata per favorire la rinascita cristiana nell’Italia del primo Dopoguerra. 

Agli anni Venti del Novecento risale anche la fondazione dell’Università degli Studi di Milano: fu in seguito alla riforma Gentile che fu possibile costituire nel capoluogo lombardo un ateneo pubblico in grado di competere con quello antico e prestigioso di Pavia. Nel 1924 l’Università degli Studi con sede negli antichi chiostri dell’Ospedale Maggiore in via Festa del Perdono si aggiunse quindi alla Cattolica nel panorama delle istituzioni accademiche milanesi, articolata nelle facoltà di Medicina e Chirurgia, di Lettera e Filosofia, di Giurisprudenza, di Scienze fisiche, matematiche e sperimentali. 

Di notevole interesse per la qualità e l’originalità dei saggi è anche la seconda sezione dell’Annale dedicata come si è accennato al bicentenario napoleonico. Carlo Capra si sofferma sulle numerose pubblicazioni dedicate al tema negli ultimi due anni, prova di un rinnovato interesse per il periodo napoleonico. Di immediata lettura è ad esempio il libro di Andrea Merlotti e Paola Bianchi, Andare per l’Italia di Napoleone (Il Mulino, Bologna 2021)ove sono presi in esame i luoghi della penisola di più stretta relazione con la famiglia Bonaparte, con una penetrante analisi delle dimore e monumenti napoleonici i cui ambienti rivestirono un ruolo importante non solo nell’Italia del Risorgimento, ma anche nell’Italia liberale e negli anni del regime fascista. 

Un altro studio interessante è quello di Vittorio Criscuolo dedicato all’esilio di Sant’Elena e in particolar modo alla formazione del culto romantico di Napoleone (Ei fu. La morte di Napoleone, Bologna, Il Mulino 2021); sulla base delle memorie scritte negli ultimi anni della sua vita, Bonaparte volle essere ricordato come erede della Rivoluzione, promotore delle scienze e delle arti, combattente e difensore della libertà dei popoli. Un’immagine distante anni luce dall’effettivo stile di governo e dalla natura dei regimi autoritari ch’egli instaurò in Europa negli anni in cui il suo potere raggiunse l’apogeo; un’immagine ch’egli tuttavia riuscì a trasmettere con successo a tanti patrioti romantici che nel culto della sua memoria, nel ricordo delle gesta militari e delle esperienze fondamentali che pure furono possibili nel campo della cultura, delle arti, delle scienze nelle monarchie amministrative napoleoniche, trovarono ispirazione per immaginare un nuovo ordine costituzionale da opporre all’Europa conservatrice uscita dal Congresso di Vienna. 

Un altro saggio di notevole interesse è il contributo di storia demografica di Emanuele Pagano che, sulla base dello studio sistematico degli atti di matrimonio firmati dai nubendi davanti all’ufficiale di stato civile negli anni 1807, 1808 e 1809, ha preso in esame il tema dell’immigrazione, dei mestieri e delle professioni nella Milano capitale del regno italico: la modernità delle istituzioni napoleoniche con le novità portate in tanti ambiti della vita civile non intaccarono fenomeni di lunga durata come le scelte matrimoniali che coinvolsero famiglie che appartenevano nella stragrande maggioranza dei casi alla stessa classe sociale; relativamente alla mobilità del mercato del lavoro, Milano si confermava città di immigrazione di tanti lavoratori i cui territori di provenienza restavano però in gran parte quelli legati a Milano per la vicinanza geografica o per i tradizionali legami storico-culturali risalenti allo Stato di Milano di antico regime.

Occorre inoltre ricordare il saggio di Gian Marco Gaspari che si sofferma sull’ode in morte di Napoleone scritta da Pietro Custodi, ex funzionario del ministero delle finanze italico, celebre economista del primo Ottocento: la poesia, composta poco tempo dopo il celebre Cinque Maggio, è interessante perché, originata anch’essa dalla notizia della scomparsa dell’Empereur, rivela ideali e giudizi nei confronti di Napoleone notevolmente diversi da quelli di Manzoni. Se questi – come noto – rinviava ai posteri un giudizio complessivo sulle sue imprese, Custodi nei suoi versi non perdonò a Bonaparte di aver tradito gli ideali di libertà instaurando regimi autoritari le cui strutture amministrative servirono ai vincitori per rendere ancor più schiave le popolazioni conquistate.

Il 2021 è stato anche il bicentenario della morte del poeta milanese Carlo Porta. Nel saggio che chiude questa seconda sezione sui due bicentenari, Renato Marchi si è soffermato sullo studio del Giovanni Maria Visconti, opera che il Porta scrisse con Tommaso Grossi per uno spettacolo che si sarebbe dovuto tenere al Teatro della Canobbiana nel Carnevale del 1818. L’argomento, tratto dalla storia medievale di Milano, verteva sulle malefatte del duca Giovanni Maria Visconti: questi, assunto il governo del Ducato nel 1402 alla morte del padre Gian Galeazzo, venne assassinato nel 1412 nella chiesa di San Gottardo per una congiura di palazzo. L’opera teatrale, in stile tragicomico, mescola elementi di storia e di finzione, contiene parti in milanese e parti in italiano. Marchi ricostruisce le origini di questo lavoro, da cui risalta lo stile romantico di Grossi e Porta in un periodo storico caratterizzato dalla nota querelle tra classici e romantici. L’opera, scritta di getto in soli quindici giorni, non potè essere rappresentata a teatro per l’intervento di una censura austriaca in quegli anni particolarmente attiva. Varrà la pena ricordare in proposito la coeva chiusura del Conciliatore, la rivista cui collaborarono gli esponenti più illustri della Milano romantica.

Padre Gemelli e le finalità dell’Università Cattolica

Riprendiamo la storia dei chiostri di Sant’Ambrogio. Cominciamo da una data precisa: il 30 ottobre 1932. In quel giorno l’antico monastero divenne sede dell’Università Cattolica del Sacro Cuore. In realtà, l’ateneo esisteva già da alcuni anni: la data di nascita risale al 7 dicembre 1921.

Padre Gemelli, Olgiati, Necchi
Monsignor Francesco Olgiati, padre Agostino Gemelli, Ludovico Necchi in una foto del 1919. Foto Masha Sirago

La fondazione dell’Università Cattolica fu dovuta all’incrollabile forza di volontà del francescano Agostino Gemelli (al secolo Edoardo, 1878-1959). Un vivace gruppo di intellettuali cattolici lo aiutò nella realizzazione di questa impresa: monsignor Francesco Olgiati, Armida Barelli, Ludovico Necchi, il conte Ernesto Lombardo.

Padre Agostino Gemelli in una foto dei primi anni del Novecento. Da http://stelleincielofratellosolesorellaluna.blogspot.it/2013/05/padre-agostino-gemelli-ofm-fondatore.html
Padre Agostino Gemelli in una foto dei primi anni del Novecento. Da http://stelleincielofratellosolesorellaluna.blogspot.it/2013/05/padre-agostino-gemelli-ofm-fondatore.html

I chiostri di Sant’Ambrogio erano familiari da tempo al fondatore. Qui Edoardo aveva passato una parte della giovinezza. Nel 1902, appena laureato in medicina, vi trascorse il periodo del servizio militare con l’incarico di curare i soldati rimasti gravemente feriti. In quei cortili Gemelli, che si era allontanato dalla pratica religiosa fin dagli anni del liceo, sentì rinascere la fede grazie ad alcuni amici e all’incontro con i francescani dediti alla cura dei malati. L’anno dopo giunse – improvvisa – la vocazione religiosa: Edoardo entrò nell’ordine di San Francesco alla fine del 1903 nonostante la forte contrarietà dei genitori, i quali non esitarono a sostenere una campagna giornalistica per evitare che il figlio entrasse in convento.

Torniamo all’Università Cattolica. Quali furono le ragioni che spinsero padre Gemelli e i suoi collaboratori a fondarla nel 1921? Possiamo affermare anzitutto che la situazione dei cattolici italiani non era allora particolarmente critica. Le riserve della classe politica nazionale nei loro confronti erano cadute in gran parte: durante la prima guerra mondiale i cattolici si erano dimostrati leali servitori dello Stato; nel dopoguerra  don Luigi Sturzo fondò un partito cattolico che aveva consentito alle masse una larga partecipazione alla vita politica dopo anni di distacco. Deputati cattolici erano addirittura al governo del Paese. La fondazione dell’Università Cattolica costituiva in fondo il coronamento di un percorso di avvicinamento all’alta cultura scientifica – nazionale e internazionale – che era stato assai lungo e tormentato.

Godefroid Kurth (1847-1916). Photo Institut Jules-Destrée (Droits SOFAM)
Godefroid Kurth (1847-1916). Photo Institut Jules-Destrée (Droits SOFAM)

Vent’anni prima, negli ultimi anni dell’Ottocento i cattolici italiani godevano in Europa di un credito assai limitato nel campo degli studi. Alcuni intellettuali, essi stessi cattolici, li consideravano addirittura una massa di ignoranti. Al congresso internazionale degli scienziati cattolici tenuto a Friburgo tra il 16 e il 20 agosto 1897, lo storico belga Godefroid Kurth rivolse critiche spietate. A chi proponeva di scegliere Roma per la riunione degli scienziati da tenersi l’anno successivo egli rispose: “Il nostro è un congresso scientifico. Ora io vi domando: ci vien forse da Roma e dall’Italia la luce scientifica? Dove sono le sue alte scuole, i suoi istituti, le sue pubblicazioni?”.  L’analisi del Kurth fotografava in modo impietoso lo stato della cultura cattolica italiana alla fine dell’Ottocento ma era ancora valida per certi versi nel primo ventennio del Novecento.

Si capisce quindi come l’Università Cattolica fosse stata fondata al fine di sanare la mancanza di cultura scientifica nei cattolici italiani. Non fu un caso se l’ateneo venne stabilito a Milano, città più aperta al progresso e alla modernità rispetto a Roma. Le prime facoltà furono Filosofia e Scienze sociali. Come ricordava padre Gemelli in un discorso degli ultimi anni, le finalità dell’ateneo alle sue origini erano due:

Padre Gemelli
Padre Agostino Gemelli da http://www.studisemeriani.it/archives/3228.

“Nacque la nostra Università con questo duplice programma: innanzitutto preparare all’Italia giovani cattolici in guisa che essi potessero diventare attivi membri della comunità sociale; in secondo luogo, ma non come compito secondario bensì principale, elaborare le dottrine alle quali questi giovani debbono richiamarsi nella loro azione; difatti ciò di cui il mondo ha bisogno sono soprattutto le idee”.  Egli fornì agli studenti una preparazione scientifica informata ai severi standard delle università belghe e tedesche. L’Università Cattolica doveva essere la prova che in Italia scienza e fede non erano inconciliabili.

Lo Stradone e i chiostri di Sant’Ambrogio nel sestiere di Porta Vercellina

Lo "Stradone di Sant'Ambrogio" quale appare oggi dopo i lavori urbanistici.
Lo “Stradone di Sant’Ambrogio” quale appare oggi dopo i lavori urbanistici.

Guardando la basilica di Sant’Ambrogio, costeggiando l’attigua piazza sulla sinistra si accede all’ampio viale che corre parallelo all’antico naviglio di San Girolamo (oggi via Carducci). Quel viale era conosciuto come Stradone di Sant’Ambrogio. Oggi, dopo i lavori urbanistici che hanno interessato l’isolato per molti anni, è divenuto finalmente una piacevole area pedonale intervallata da spazi verdi fino alla Caserma Garibaldi. A quel punto il viale, dopo aver costeggiato i giardini e le case della basilica ambrosiana, piega a gomito sulla destra per terminare in Largo Gemelli.

La strada è percorsa in prevalenza dagli studenti della vicina Università Cattolica. L’ateneo ha sede proprio lì, in quei magnifici chiostri dietro la basilica di Sant’Ambrogio che facevano parte anticamente di un convento abitato dai monaci benedettini dal 789 d.C. fino alla fine del Quattrocento. I canonici, vale a dire i chierici addetti al servizio in chiesa, abitavano invece nelle case vicine all’altra area della basilica. I rapporti tra i monaci e i canonici furono a dir poco complessi, segnati da rivalità che nel Medioevo erano assai diffuse tra corporazioni gelose dei loro diritti particolari.

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La basilica di Sant’Ambrogio e la Caserma San Francesco. Litografia ottocentesca a cura di Giuseppe Elena e Pietro Bertotti.

Vi siete mai chiesti per quale motivo la basilica di Sant’Ambrogio ha due campanili? Semplice: perché i canonici, stanchi di suonare le campane con i monaci del vicino convento, convinsero l’arcivescovo Anselmo V della Pusterla, nel 1128, a costruire a spese del Comune un secondo campanile sul lato opposto della facciata. E pazienza se per completare i lavori fu necessario abbattere il fianco sinistro della chiesa: per i canonici era più importante salire sul “loro” campanile. Chissà quante risate si saranno fatte i monaci quando guardavano i loro vicini dall’alto del “loro” campanile!

I benedettini risero meno quando alla fine del Quattrocento, accusati di cattivi costumi, furono costretti a sloggiare. I chiostri di Sant’Ambrogio furono affidati in commenda al cardinale Ascanio Sforza: uomo colto e raffinato, fratello del duca Ludovico il Moro, l’abate Ascanio affidò la ristrutturazione di quegli edifici religiosi all’architetto Donato Bramante, al cui stile dobbiamo la linea sublime dei capitelli a due ordini, nonché le raffinate logge in pietra e in cotto. Il cardinale assegnò questi spazi ai cistercensi di Chiaravalle, che vi abitarono fino all’arrivo degli eserciti francesi del generale Bonaparte: l’edificio, ora demaniale, divenne un ospedale militare. A tale uso continuò ad essere destinato fino agli inizi degli anni Trenta quando vi fu trasferita l’Università Cattolica. Questa però è un’altra storia che vi racconterò in un altro post….

 

Ricordo di Nicola Raponi

Il 26 novembre 2007 moriva a Milano il professor Nicola Raponi, uno dei maggiori storici dell’età moderna che abbia avuto il nostro Paese. Ricordo ancora quando lo vidi per la prima volta, in una grande aula al pianterreno della sede distaccata dell’Università Cattolica in via Sant’Agnese. Correva l’anno 1998. Raponi parve entrare quasi di nascosto, come se volesse sfuggire agli occhi indiscreti dei curiosi. Avvolto in un cappotto scuro, si recò con passo deciso verso la cattedra che si trovava in fondo all’aula, nella parte opposta rispetto all’ingresso; vi prese posto, toccò il microfono con l’indice della mano per accertarsi che gli altoparlanti fossero in funzione, tirò fuori dalla borsa i suoi quaderni fitti di note e, dopo aver dato un’occhiata al pubblico – forse per misurare il numero degli studenti – iniziò la lezione.
Il professore spiegava con una profondità di analisi che mi colpì fin dall’inizio. Il contenuto delle sue lezioni era il risultato di un paziente lavoro di scavo condotto in tanti anni di ricerche negli archivi e nelle biblioteche.
Raponi aveva un aspetto inconfondibile: i capelli, accuratamente pettinati, erano  divisi in due parti; qualche volta terminavano con un ciuffo che, scendendo sulla fronte, pareva conferire alla persona una certa qual aura di giovinezza. La voce, tenue ma al contempo lievemente roca, mi colpì per il timbro originale, non molto diverso da quello del presentatore Corrado Mantoni. La cadenza nel parlato rivelava le origini marchigiane, ma solo a tratti e mai in modo troppo marcato. I lineamenti del viso mi ricordavano quelli dell’attore Walter Matthau.
A quel tempo ero un giovane studente iscritto nell’ateneo di Largo Gemelli. Frequentavo il secondo anno del corso in Lettere moderne nella Facoltà di Lettere e Filosofia. Quando ascoltai Raponi per la prima volta, rimasi colpito dalla semplicità dell’esposizione, dall’umiltà e dalla cura con cui esponeva le questioni rinviando sempre alle fonti storiche. Ricordo che uno dei consigli che dava agli allievi era di studiare attentamente le carte lasciate da una persona o prodotte da un’istituzione; ci sollecitava a frequentare le biblioteche e gli archivi: “noi dobbiamo” – diceva a lezione –  “far rivivere il documento… un po’ come la favola della bella addormentata”.
Le lezioni terminavano quasi sempre in ritardo. Squillava la campana: il professore, immerso nelle sue riflessioni, si accingeva a concludere; Raponi continuava a tessere pazientemente i fili del ragionamento in uno sforzo di affinamento dei concetti, chiarendo le questioni oggetto di analisi. Allora ci domandava: “E’ suonata la campana?”, quasi volesse avere conferma che la lezione fosse finita.

La storia era la disciplina che mi aveva sempre appassionato grandemente. Verso la fine dei miei studi, quando avevo ormai superato quasi tutti gli esami, mi recai quindi da Raponi per chiedergli un argomento su cui impostare la tesi di laurea.

Quando gli espressi il desiderio di scrivere la tesi sotto la sua guida scientifica, mi pose dinanzi a una scelta. Avrei potuto dedicarmi a un tema afferente alla storia delle mentalità o alla storia delle istituzioni. Nel primo caso mi disse che il lavoro non sarebbe stato particolarmente difficile. Nel secondo invece si richiedeva allo studente un sforzo maggiore perché occorreva prendere in esame le leggi e le varie normative prodotte da una istituzione pubblica e verificare poi in archivio, mediante lo spoglio dei documenti, le reali dinamiche, la prassi effettiva dell’ente amministrativo preso in esame. Decisi di percorrere questa seconda strada. Mi buttai a corpo morto nella ricerca, che verteva sullo studio delle vice prefetture nel dipartimento dell’Agogna (Novara) negli anni della repubblica e regno d’Italia (1802-1814).

Fu in quell’occasione che frequentai per la prima volta gli archivi. Quando mi trovai dinanzi alle carte dell’epoca provai un certo smarrimento: le grafie mi parevano illeggibili e spesso contenevano informazioni che rimandavano a leggi, decreti, regolamenti, protocolli di cui io, inesperto studente alle prime armi, non conoscevo quasi nulla. Solo dopo aver preso in esame svariati documenti manoscritti, il mio occhio si abituò alle varie grafie sette-ottocentesche. La determinazione, la tenacia, la pazienza ma soprattutto la passione sono doti fondamentali in qualsiasi lavoro.

Il mercoledì pomeriggio mi recavo nell’ufficio di Raponi, il quale dedicava le (lunghe) ore del ricevimento prima agli studenti, quindi ai laureandi, poi ai dottorandi e colleghi. Quando arrivava il mio turno – il che avveniva quasi sempre nel tardo pomeriggio – gli chiedevo informazioni, gli manifestavo i miei dubbi sul contenuto dei documenti che andavo studiando. Ricordo che mi sembrava di entrare in confessionale. Mentre gli esponevo lo stato delle ricerche, vedevo che il professore mi ascoltava con attenzione assorto nei suoi pensieri. Lui non mi dava risposte definitive. Credo che lo facesse di proposito, forse perché intendeva spingermi a studiare con maggiore profondità oppure perché desiderava mettere alla prova la mia preparazione sull’argomento. I colloqui erano lunghissimi – lo sanno bene i colleghi e gli ex studenti – perché a lui premeva affrontare le questioni con attenzione. Entravo nel suo studio, lasciavo socchiusa la porta come chiedeva quasi sempre di fare, mi sedevo di fronte a lui, nella parte opposta di uno scrittoio occupato in gran parte da lunghe file di libri. 

Quando gli mostravo copie di documenti che facevano nuova luce su un argomento che gli stava a cuore, i suoi occhi brillavano e si accendeva di entusiasmo. In quei momenti sembrava che fosse tornato a vestire il camice dell’archivista, la professione che aveva esercitato con passione per tanti anni affiancandola a quelle di storico e di insegnante.