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“Quando le modelle sfilavano con i miei abiti al Grand Hotel et de Milan…”

Delia Riva, titolare dell’omonima boutique di moda prêt-à-porter in via Carducci 34, racconta la sua vita di imprenditrice nella Milano del secondo ‘900. Dal 2006 Carlotta Ferrari, figlia di Delia, gestisce il negozio con la madre: “Il tempo passa, i mezzi cambiano, i valori restano”.

Via Carducci oggi è una strada ad alto scorrimento, molto trafficata, in cui gli spostamenti sono resi difficili dai lavori – in via di ultimazione – legati al cantiere della M4, da pochi mesi aperta sull’intera tratta da Linate a San Cristoforo.

È una delle zone del centro più ricche di storia, custodi di un passato che ha reso grande Milano. Ci troviamo nell’antico sestiere di Porta Vercellina, a due passi dalla basilica di Sant’Ambrogio, una delle più antiche chiese di Milano. Poco oltre, la pusterla omonima nelle mura medievali segnava l’ingresso nella città antica per chi proveniva dalle campagne circostanti; al di là scorreva il Naviglio di San Girolamo che, dopo aver attraversato l’attuale via Carducci, si congiungeva a sud presso il ponte degli Olocati con il Naviglio Interno per sfociare in Darsena dopo aver attraversato la celebre Conca di Viarenna. 

È un quartiere in cui si trovavano i palazzi di importanti famiglie del patriziato e più in generale della nobiltà milanese: se si consulta un prezioso documento risalente al 1770 riguardante le famiglie illustri milanesi intitolato Catalogo della Nobiltà conservato nell’Archivio di Stato di Milano, si nota che in questa zona si trovavano le vaste proprietà immobiliari dei Borromeo, i palazzi dei Litta Visconti Arese in corso Magenta, dei Visconti d’Aragona in via Sant’Agnese, dei Terzago in via Cappuccio, dei Pusterla e degli Andreotti nello stradone di San Vittore. Da un po’ di tempo mi chiedo quale sia l’anima pulsante di questa zona e, se esiste, come sia legata al passato illustre che ho ricordato. Un aiuto importante per capire alcuni aspetti della perenne vitalità del quartiere, tuttora abitato da illustri esponenti di famiglie milanesi, mi è stato dato dall’incontro con la signora Delia Riva, il cui negozio di alta moda femminile (Delia Riva Boutique: https://www.rivadeliaboutique.it) si trova in via Carducci 34. 

Suono il campanello. Mi apre la dottoressa Carlotta Ferrari, figlia della Signora Riva, attuale direttrice e responsabile della divisione social media della boutique. È una giovane elegante, raffinata, dall’eloquio lucido, che mi accoglie con affabilità. Mi invita ad entrare in un secondo ambiente del negozio, dove ho il piacere di conoscere la signora Delia Riva, colei che avviò l’attività commerciale nella Milano anni Sessanta portandola agli attuali livelli di eccellenza. Il rito della moka è fondamentale e, mentre sorseggio l’ottimo caffè portatomi da Carlotta, ascolto con interesse la signora Riva, nel cui viso risaltano gli occhi lucenti di una personalità forte, tutta proiettata nell’azione appassionata della commerciante di moda che nella stessa gestualità esprime una intraprendenza mai venuta meno con il passare degli anni. 

Delia Riva e Carlotta Ferrari

In che tipo di famiglia è cresciuta?

“Mio padre Celestino, che è stato chiamato a servire la patria in guerra, gestiva un’attività specializzata nella rottamazione dei metalli (soprattutto ferro): la sua azienda si trovava nell’area delle antiche Cascine Pismonte [oggi purtroppo scomparse, furono demolite circa vent’anni fa, NdR]. In realtà, la sua attività di “Rottamatt” si estendeva a diversi altri campi: ricordo ad esempio che rivendeva i vecchi vestiti della Scala a un signore il cui negozio si affacciava sul Naviglio Grande”. 

L’area delle cascine Pismonte nella zona sud di Milano, in aperta campagna, confinava con rogge e canali (tra cui la Vettabbia) che scorrono tuttora fino a Chiaravalle. In quelle zone erano molto presenti un tempo gli stabilimenti per la fabbricazione della carta, anche con gli stracci che servivano a produrre quella di pregio.

“Mio padre era molto bravo a rivendere la merce. Venivo da una famiglia di commercianti. Mio padre Celestino e mia mamma Giovanna lavoravano lì in azienda: erano conosciuti come sciur Riva e sciura Riva. Io e mia sorella Giusy siamo cresciute in quegli ambienti, fatti di duro lavoro e sacrifici. Le cascine Pismonte sono state per tutta la mia infanzia e adolescenza una presenza costante. Pensi che per il compleanno i miei genitori erano soliti regalarmi una pecora o un asino!”

Che tipo di formazione ha avuto?

“Non ero molto portata negli studi e andai subito a lavorare. Terminata la scuola dell’obbligo, all’età di diciassette anni frequentai un corso in via Larga sulla moda: ci insegnavano come adattare la vestibilità dei capi alla figura del corpo femminile”.  

Delia Riva Boutique

Quando ha deciso di aprire la boutique?

“Fu nel 1967: io e il ragazzo che frequentavo all’epoca, assieme a un’altra coppia, decidemmo di aprire il negozio con il nome “Shop 34”. È stata una delle prime boutique “a scaffale aperto”: ricordo che all’epoca c’era solo “Lella Sport” in via San Pietro all’Orto ad avere questo tipo di allestimento degli ambienti: niente cassettiere o armadi ove riporre gli abiti; solo scaffali dove sistemarli per lasciare alle clienti la libertà di vederli, di toccarne i tessuti e di chiederli per una prova”. 

Gli anni Sessanta sono stati indubbiamente cruciali. Usciva alla ribalta una generazione di giovani desiderosi di mettersi in gioco, animati dal desiderio di affermarsi, spesso in opposizione a una società – quella della fine anni Cinquanta e primi anni Sessanta – vista in un processo di tumultuosa crescita economica, giudicata corrotta e ancora arretrata culturalmente, intrappolata da costumi patriarcali. Gigliola Cinquetti vinceva nel 1964 il Festival di Sanremo con Non ho l’età: il look semplice della giovane cantante, tutta “acqua e sapone”, divenne presto il simbolo della purezza contro il marciume del decadimento morale. 

Caterina Caselli cantava la celebre Nessuno mi può giudicare nel 1966, una canzone che esprimeva non solo la libertà femminile, ma anche la rivolta di tanti giovani contro le convenzioni sociali. Lei come ha vissuto la fine degli anni Sessanta e i primi Settanta?

“Eravamo una bella compagnia che si divertiva. Milano era una città che rifletteva tutte le contraddizioni di quegli anni. Ricordo che ci portavano in giro per la città su meravigliose macchine sportive, erano spider di colore rosso. Dopo il cinema, si andava al Derby di via Monterosa, poi al Charlie Max che era uno dei locali più alla moda. Furono anni indimenticabili. Fu proprio allora che organizzai una sfilata al Grand Hotel et de Milan di via Manzoni in cui feci sfilare le modelle con gli abiti della mia boutique: pensi che in quell’occasione vennero a suonare i “Ragazzi della via Gluck”, cioè il gruppo di Adriano Celentano! Fu un evento memorabile!”

Poi sono arrivati gli anni Settanta…

Milano, 14 maggio 1977, foto di Paolo Pedrizzetti

“La lotta armata, gli scontri tra manifestanti e polizia, i primi morti. Il 14 maggio 1977, durante una manifestazione, uno spezzone di “autonomia operaia” si staccò dal corteo portandosi verso il carcere di San Vittore; all’incrocio con via De Amicis ebbe inizio uno scontro a fuoco con la polizia che era schierata a pochi metri. L’agente Antonio Custra fu colpito a morte. Uno dei manifestanti più violenti venne fotografato in quei momenti: la testa coperta da un passamontagna, le gambe divaricate, le braccia tese e due mani che impugnavano una pistola puntata verso la polizia. Quella fotografia, scattata a pochi metri dal negozio, divenne il simbolo dell’Italia negli anni di piombo”. 

“Ricordo che furono lanciati lacrimogeni contro le mie vetrine e questo gettò nel terrore le persone che erano in strada: io ne feci entrare alcune in negozio perché potessero attendere la fine dei disordini ed essere fuori pericolo”.

Qui ci troviamo in una delle vie centrali di Milano: anche a quell’epoca questa zona era costosa da un punto di vista immobiliare?

“Si, questo è un quartiere da sempre legato a doppio filo con la storia del patriziato, della nobiltà e della illustre borghesia milanese. A pochi metri da qui ci sono le case dei Borromeo, di fronte si trova un immobile dei Caccia Dominioni”. 

“Il palazzo in cui ci troviamo fu costruito nei primi anni Sessanta dall’INPS. Quando si rese libero il locale e facemmo richiesta per prenderlo in affitto, ci proposero un canone di locazione di cinque milioni all’anno, che negli anni Sessanta era una cifra altissima. Mio padre mi impose di non accettare e aveva ragione perché  non saremmo certamente riusciti a sostenere i costi di affitto. Fu così che decidemmo di optare per una soluzione mensile dal canone più ragionevole”. 

“Gli affari per fortuna furono buoni fin dall’inizio e con il passare degli anni si accrebbero progressivamente, anche grazie alla mia capacità di seguire il nuovo che stava arrivando e fissando al contempo una mia linea”. 

“Il punto in cui si trovava il negozio fu fondamentale per il nostro successo: ricordo ad esempio che da noi venivano spesso le dipendenti della Rinascente, i cui uffici erano vicinissimi, in via Olona”.

L’interno del negozio in un allestimento recente

Quali marchi tenevate?

“Ricordo ad esempio le camicie di seta disegnate da Emmanuel Schvili, che negli anni seguenti avrebbe diversificato, investendo soprattutto nella produzione di capi con le stampe dei cartoni animati. Poi avevo Alberta Ferretti, Giorgio Grati, Bibak, Renato Balestra, Enrico Coveri Jeans. Ma il cambiamento più radicale e rivoluzionario nella moda femminile arrivò negli anni Settanta con i Jeans Bible di Jesus con il celebre slogan pubblicitario: “Non avrai altro Jesus all’infuori di me”. Quello slogan suscitò la reazione della Chiesa cattolica, che spinse le autorità a ritirare i cartelloni pubblicitari”.

Sulla vicenda Pier Paolo Pasolini scrisse un lungo articolo il 17 maggio 1973 in cui, criticando i “censori” ecclesiastici, prendeva le difese di quella pubblicità: “C’è, nel cinismo di questo slogan – scrisse Pasolini sul “Corriere della Sera” – un’intensità e una innocenza di tipo assolutamente nuovo, benché probabilmente maturato a lungo in questi ultimi decenni (per un periodo più breve in Italia). Esso dice appunto, nella sua laconicità di fenomeno rivelatosi di colpo alla nostra coscienza, e già così completo e definitivo, che i nuovi industriali e i nuovi tecnici sono completamente laici, ma di una laicità che non si misura più con la religione”.

“Fu un inno alla libertà femminile. Le donne giravano con gli zoccoli Louis Vuitton e la moda di quegli anni vedeva l’affermarsi della borsa LV e dei Rolex. Noi vendevamo gli abiti di Gianni Baldini, le camicie di seta a 12.000 lire e i Jeans Jesus. Poi in quegli anni Settanta si affermò l’attenzione per il fondo schiena”. 

Ricordo che Baldini fu il primo nel 1962 ad affidare a Walter Albini la propria collezione “Le mille e una notte”. 

“Se penso ad Alberta Ferretti e alla filosofia che sottostava alla linea dei suoi abiti, si puntava chiaramente all’immagine di una donna sportiva ed elegante. Le clienti venivano da noi e ordinavano tanti capi di una stessa taglia scegliendoli tra i vari marchi. Ricordo che all’epoca la donna si cambiava tre volte al giorno: la mattina si sceglieva un abbigliamento sobrio per il lavoro, il pomeriggio uno per le “commissioni” come allora si diceva a proposito degli acquisti dopo il lavoro, poi il vestito per la sera a teatro o nei locali della mondanità. Uno stile di vita che vide in noi negozianti delle figure fondamentali per indirizzare le clienti negli ordini significativi che venivano fatti”. 

In quegli anni Settanta quali cambiamenti vi furono nella gestione del negozio?

Giusy Riva, sorella di Delia

“Cambiò anzitutto il nome della boutique perché divenni l’unica proprietaria con l’insegna Riva nel 1970. Nel 1973, in seguito alla chiusura del negozio in via Pismonte, mia sorella Giusy venne ad aiutarmi: le clienti aumentavano e anche piuttosto velocemente”.

Se potesse scegliere un decennio tra gli anni Settanta, Ottanta, Novanta e Duemila, quale fu quello in cui i guadagni furono maggiori?

“Senza dubbio gli anni Ottanta. Seppi instaurare un rapporto di fiducia con le persone che venivano in negozio, tutto basato sull’eccellenza del servizio: seppi costruirmi uno zoccolo duro di clienti affezionate. Alcune continuano tuttora a passare da me per comprare abiti e rinnovare il guardaroba. Se questo è successo, è stato anche il risultato di un certo rapporto di amicizia che si è stabilito con molte di loro”.  

Cosa ricorda degli anni Novanta?

“Introdussi nuove linee. Decisivo fu l’incontro con Mariella Burani, i cui abiti tenni in negozio per tanti anni. Qui può vedere alcuni poster pubblicitari della Burani, in cui si nota l’attenzione per una linea molto sofisticata, ma ‘sdrammatizzata’ con l’inserimento di elementi grintosi come i biker boots abbinati a gonne di seta stampate con pizzi meravigliosi .”

Com’è cambiato lo stile di vita delle donne? 

“A partire dagli anni Duemila abbiamo avuto un cambiamento notevole nei costumi femminili. L’uso di cambiarsi due o tre volte al giorno è divenuto raro. Ora si tende a portare un vestito per tutta la giornata. Questo ha comportato una netta riduzione negli ordini alla casa madre: le ditte producono solo sul venduto, in base agli ordini dei negozianti. Questo significa che non abbiamo capi in più qualora ci sia una richiesta ulteriore di merce per un riassortimento della linea durante la stagione. Il negoziante deve effettuare gli ordini in modo oculato, cercando di intuire le richieste del mercato: non può ordinare capi in quantità eccessiva che poi non riesce a vendere”. 

Allestimento natalizio della boutique Delia Riva

Carlotta Ferrari, che dal 2006 dirige il negozio con la madre, dopo avermi mostrato gli ambienti della boutique – i cui arredi presentano gli stessi allestimenti degli anni Sessanta – mi descrive i cambiamenti degli ultimi anni. Oggi le clienti possono trovare capi di abbigliamento delle seguenti aziende: Angelo Marani, Clips, 1-One, Le Tricot Perugia, Tricot Chic, Diego M. 

Carlotta poi mi racconta che è intervenuto un mutamento radicale nei rapporti con la clientela: il contatto con il cliente avviene in modi completamente diversi rispetto all’epoca in cui sua madre avviò giovanissima la sua attività. La pubblicità sui social, l’investimento nella comunicazione sono oggi fondamentali per raggiungere nuovi target. Vedo in lei la stessa determinazione ed entusiasmo della signora Riva: l’eleganza del portamento, la signorilità ed estrema affabilità nell’accogliere la clientela, la passione con cui segue gli andamenti del mercato e va alla ricerca delle novità nel campo della moda.

Carlotta Ferrari e Delia Riva

La dottoressa Ferrari mi spiega come la promozione di nuove collezioni sui social sia stimolante, ricca di sorprese: consente di entrare in contatto con una clientela enormemente più vasta rispetto a quella a cui si rivolgeva la signora Riva.  Precisa tuttavia che “se i mezzi cambiano, i valori restano”: la visita in negozio resta fondamentale e l’assistenza alla cliente è un rapporto umano che si costruisce nel tempo, da cui nascono legami che l’uso ragionato dei social contribuisce a consolidare. Il rito della moka è un tratto distintivo di Delia Riva Boutique: consente alle clienti di conoscere la storia del negozio, esprimere i propri gusti e preferenze nella scelta degli abiti, indirizzare con serenità gli acquisti sui capi più adatti.

“Amo vestire, non sopporto chi si copre”

Lino Ieluzzi si racconta: “Sono cresciuto in una famiglia severa vecchio stampo. Mia mamma era una sarta e mi ha trasmesso la passione per i vestiti. Ho iniziato a lavorare presto”

Per chi proviene dal centro, via Antonio Scarpa è una delle prime strade che si incrociano sul lato destro con corso Vercelli. Siamo in una fascia della città vicinissima alla cerchia dei Bastioni, che un tempo faceva parte del Comune dei Corpi Santi, a due passi dal sestiere di Porta Vercellina. Una zona il cui paesaggio, fino all’Unità d’Italia, era dominato da campi, rogge, canali ai lati dell’antica strada verso Vercelli. All’inizio del corso si trovava l’Osteria della Berta Filava, ritrovo per cacciatori e compagnie di amici che ne apprezzavano la vicinanza alle campagne circostanti. L’area fu densamente urbanizzata nel periodo successivo e divenne – a partire dagli anni Ottanta del Novecento – uno dei quartieri più importanti della città. Oggi, corso Vercelli, con le sue vie laterali, resta un ricco quartiere di Milano, anche se negli ultimi anni ha cambiato la sua identità. 

Mercoledì entro in via Scarpa, la percorro per alcuni metri e subito vedo, sulla soglia della sua boutique, Lino Ieluzzi, con cui ho un appuntamento alle 15 per un’intervista. Due taxi sono in sosta davanti a questo negozio di notevoli dimensioni: cinque vetrine ben riconoscibili dalle eleganti tende parasole di colore verde scuro, ove risaltano i fregi dello stemma dell’azienda: “AB” (Al Bazar). Lui mi saluta con affabilità, scambiamo quattro chiacchiere con i dipendenti della sua boutique. Vedo alcuni clienti aggirarsi per questi ambienti eleganti, tra raffinate scrivanie in legno, tavolini, mensole, armadi di squisita fattura. Ieluzzi mi accompagna in un piccolo spazio nel cortile sul retro: ci sediamo ai lati di un semplice tavolino da giardino a forma circolare. Qui ha luogo l’intervista. 

Lino Ieluzzi in una foto recente tratta dal suo account Instagram

Chi è Pasquale Ieluzzi conosciuto come “Lino Ieluzzi”,  insignito il 27 dicembre 2010 del titolo di  “Commendatore” dal Capo dello Stato Giorgio Napolitano su iniziativa del Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi?  Classe 1945, Ieluzzi con la sua boutique “Al Bazar” è da tempo una istituzione nella Milano dell’alta moda uomo. Intervistarlo mi consente di accedere alla preziosa testimonianza di un imprenditore che si è fatto da sé, si è costruito una posizione nel commercio di vestiti e questo unicamente grazie alla passione, alla cura meticolosa nel lavoro, nel lanciare il suo stile di abbigliamento.

In che tipo di famiglia sei cresciuto? Quale mestiere facevano i tuoi genitori?

“Sono nato in una famiglia vecchio stampo di origini pugliesi. I miei genitori abitavano a Baggio. Io, mio fratello e mia sorella siamo cresciuti in un ambiente povero ma dignitoso, in una famiglia in cui vigevano le dure regole di mio padre, che lavorava nel corpo della guardia di finanza. A lui dovevamo sempre dare del ‘voi’ quando ci rivolgevamo alla sua persona.  Mia madre invece lavorava in casa, faceva la sarta. Ero certamente più legato a lei, che mi ha trasmesso il gusto per il vestire”.  

Come sono stati gli anni della tua adolescenza? Qual è stato il tuo percorso di studi prima di lavorare?

“Ho iniziato a lavorare presto, prima in un negozio di mobili a Baggio, poi in una ditta di traslochi. Ricordo bene quando che mi chiamavano per smontare e montare mobili. Era un modo per guadagnare qualcosina. Certo, un periodo minimo di formazione ho dovuto farlo: frequentai le scuole serali. Avevo una gran voglia di riuscire, di farcela nella vita, di guadagnarmi una posizione che mi potesse consentire di vivere bene. Era la voglia di farcela a spingermi in avanti. Non mi facevo problemi nel tentare un lavoro che attirava la mia curiosità: mi mettevo in gioco. Ho seguito anche un corso di parrucchieri da donna in corso Vercelli. Non stavo mai con le mani in mano, come si dice. Tieni presente che provenivo da una famiglia che non navigava nell’oro: i miei genitori facevano sacrifici per mantenerci. Sentivo l’esigenza di uscire dalla povertà, seppur dignitosa, in cui ci trovavamo”. 

Quando hai capito che il commercio nell’alta moda uomo sarebbe stata la tua strada?

“La moda mi è sempre piaciuta. Come ti dicevo, mia mamma era sarta. Con i primi soldi che feci con i lavoretti di cui ti parlavo, iniziai ad acquistare grandi stock di abiti e li vendevo fuori dalle scuole e dalle università. Gli anni Sessanta sono stati per me un periodo di continua sperimentazione: ho lavorato in un parrucchiere da donna, poi in una ditta di orologi petrolio, finché sono stato impiegato come commesso in un negozio di abbigliamento uomo, qui, in via Scarpa”. 

Ieluzzi mi accompagna in uno dei molti ambienti della sua boutique e mi dice:

Lino Ieluzzi in una foto dei primi anni Settanta

“Vedi questo spazio?  Qui si trovava il negozio di appena 20 metri quadri, con una sola vetrina sulla via, in cui iniziai a lavorare come commesso. Allora – anni Sessanta e primi Settanta – era una semplice jeanseria. I titolari erano una famiglia romagnola: eravamo in due a lavorare come commessi. Vendevamo, oltre ai jeans, camicie indiane, giacche usate. Era un mondo sideralmente opposto rispetto a quello che sarebbe arrivato di lì a poco. La gente si vestiva in modo semplice, l’uomo era completamente dimenticato nella cura del vestire. Dominava la cultura hippie, il culto della libertà interiore senza regole,  le simpatie di tanti giovani andavano verso forme di egalitarismo e di comunitarismo, per non parlare di tanti fanatici ubriacati dall’ideologia comunista o da quella fascista”.

Quelli sono stati anni difficili. La contestazione nel 1968, la bomba di piazza Fontana nel 1969 e gli anni Settanta, gli anni di Piombo con le violenze dei gruppi terroristici. Tu come li hai vissuti?

“Vero, sono stati anni controversi, di passaggio ma anche pieni di sfide e di opportunità. Quando i titolari della jeanseria si ritirarono, nel 1971, ebbi l’opportunità di proseguire nell’attività rilevando il negozio. Nel 1975 chiamai Maurizio Morazzoni, un mio caro amico d’infanzia che aveva fatto alcune esperienze sul campo e gli chiesi di entrare come socio nella società Al Bazar Srl. Fu allora che iniziò la nostra impresa in un mondo completamente nuovo: trasformammo radicalmente quel piccolo spazio di 20 metri quadrati. Da attività commerciale di jeanseria diventammo un negozio completamente diverso.

Fu un’intuizione. Capii che la moda stracciona non sarebbe durata a lungo: in quella Milano di metà anni Settanta intravedevo il profilarsi di una società nuova, fatta di uomini nuovi, che sentivo avrebbero contato moltissimo di lì a poco; una generazione di imprenditori tanto ambiziosi quanto determinati nel lavoro per conseguire il successo nell’intrapresa privata. Capii in anticipo che l’uomo, tanto smitizzato fino ad allora, sarebbe stato più ambizioso e avrebbe meritato di essere vestito con la stessa cura e attenzione ai particolari che si seguono nell’abbigliamento femminile. Abbassai la saracinesca e, quando la rialzammo, il negozio era completamente diverso: sobrio, elegante, con abiti gessati, giacche raffinate al posto delle vecchie ceste ove prima erano ammassate le semplici camicie americane. 

A guidarmi è stata la passione, la fiducia nelle mie capacità, l’ottimismo e il desiderio di costruirmi una vita fatta di benessere economico. Con il nuovo negozio iniziammo a vendere bene: stavamo conseguendo ottimi risultati, il che non passò inosservato. Il risultato fu che ben presto fummo vittima di quello che all’epoca si chiamava “esproprio proletario”: una rapina a mano armata. Però, ripeto, fatta eccezione per quella brutta pagina, ricordo con piacere e un po’ di nostalgia gli anni Settanta! Sarà che ero anch’io un’altra persona: un ragazzo giovane, bello, con tanti capelli biondi e una voglia matta di affermarmi, di farmi strada. Volevo realizzarmi in quello che avevo ormai scoperto essere il lavoro per cui mi sentivo portato: il commerciante”.

Gli anni Ottanta hanno segnato un cambiamento nei costumi degli italiani, nel loro stile di vita. I cittadini volevano dimenticare gli anni della tensione, delle sparatorie, degli estremismi di destra e di sinistra. 

Raggiunsero il successo tante aziende nella moda, nel design, nell’artigianato: il Made in Italy si affermava con le produzioni di alta qualità. Gli italiani si arricchivano, spendevano di più. Nel privato si affermava una classe di piccoli e medi imprenditori di notevole livello, determinati nella realizzazione dei loro obiettivi.

Berlusconi, ad esempio, dopo aver costruito quartieri e case residenziali di notevole eleganza immerse nel verde, negli anni Ottanta investe con profitto nella tv commerciale. Il successo imprenditoriale del Cavaliere fu clamoroso. Cosa ricordi di quegli anni per quanto riguarda il tuo lavoro?

“La gente amava vestirsi con stile. Noi abbiamo vissuto bene quel periodo. Tante persone che lavoravano nelle tv e nelle aziende di Berlusconi venivano da noi per acquistare abiti eleganti. Il Cavaliere era attentissimo alla forma, all’eleganza nel vestire. Ci teneva: per lui lavorare sulla propria immagine, sapersi presentare in modo impeccabile era un requisito fondamentale perché, diceva, ‘voi grazie alla televisione entrate nelle case degli italiani’. 

Per noi furono anni di grandi guadagni. Raggiungemmo un volume di affari tale da consentirci di ingrandire la superficie del negozio arrivando alle dimensioni attuali: questo fu possibile perché acquistammo i locali di un colorificio e di un ristorante che nel frattempo avevano cessato l’attività. L’allestimento degli spazi e l’arredamento caratteristico che si vede ancora oggi con i mobili in legno di noce di alta finitura sono interventi che feci proprio allora. 

Cosa ricordi di quella Milano? La Milano socialista di Tognoli e Pillitteri? 

Era una città in cui le persone si aiutavano, sicura di notte, in cui era possibile – per capirci – farsi una partita a pallone per le vie del centro e tornare a casa facendo l’autostop. Un altro mondo rispetto alla Milano di oggi, sconvolta da tanti reati di microcriminalità con scippi e violenze che sono all’ordine del giorno.

Arrivano poi gli anni Novanta, che segnarono una svolta nel bene e nel male. Caduto il Muro di Berlino, scoppiò il caso Tangentopoli con decine di politici arrestati e messi sotto processo. Milano viene amministrata da giunte di colore politico assai diverso rispetto a quelle che erano state protagoniste della vita cittadina fin dal dopoguerra. È la Milano di Marco Formentini (primo sindaco leghista di una grande città ad essere eletto direttamente dai cittadini nel 1993), poi di Gabriele Albertini che amministrò Milano per ben due mandati dal 1997 al 2006. Come sono stati questi anni per il tuo lavoro?

Lino Ieluzzi nella sua boutique in una foto degli anni Novanta.

“Abbiamo continuato a fare affari”.

Erano gli anni in cui l’amministrazione comunale vietava la libera circolazione di auto introducendo le “targhe alterne”; nel 1990-91 scoppiò la prima guerra del Golfo con l’aumento del prezzo del petrolio e le conseguenti ricadute nella contrazione dei consumi. In un’intervista rilasciata al “Corriere del Sera” nel 1990 sostenevi che, diversamente da altri negozianti, voi eravate riusciti ad uscirne bene e motivavi il buon andamento delle vendite con il rapporto di fiducia con la clientela. Affermavi: “le vendite nel 1990 sono state uguali all’anno passato…credo che i risultati vengono quando alla base c’è un buon servizio e una serietà nel rapporto con la clientela. Noi, per esempio, non abbiamo mai fatto e non faremo mai i saldi. Per correttezza verso chi compra sempre da noi”.

Confermo quello che dissi 35 anni fa. Mentirei tuttavia se ti dicessi che quelli sono stati anni facili. Nel 1990 una banda di criminali siciliani telefonò in negozio chiedendomi il pizzo e minacciandomi di morte. È stato un periodo difficile, in cui vissi per sette-otto mesi con la scorta che mi accompagnava in tutti i miei spostamenti, in particolar modo da casa al negozio. La questura mise sotto controllo i telefoni per intercettare le chiamate dei criminali. Tutto alla fine si risolse senza danni. Consapevoli che la polizia era sulle loro tracce, quei criminali mi lasciarono in pace. 

Il periodo tra la fine degli anni Novanta e gli anni Duemila è stato memorabile. Anzitutto ho introdotto nuove collezioni di abiti, che hanno ulteriormente arricchito il negozio con le ormai celebri giacche colorate in doppiopetto e monopetto. 

Ricordo poi le iniziative imprenditoriali all’estero, dove iniziarono a conoscermi negli ambienti del commercio: ho venduto le mie collezioni Al Bazar nei mall in Corea del Sud, in Giappone. In Corea mi recavo mediamente due volte all’anno: rimanevo là venti giorni per controllare l’esposizione dei miei prodotti nei negozi con cui avevamo stipulato affari. In quei paesi fui accolto con tutti gli onori e mi riservarono un trattamento speciale. Ricordo che venivano a prendermi in aeroporto con un auto di lusso, come se fossi un capo di Stato. Pensa che in Corea del Sud mi fecero ottenere un permesso di poche ore per visitare una fabbrica di vestiti che aveva sede in Corea del Nord: fu un’esperienza istruttiva. 

Lino Ieluzzi in uno scatto fotografico di Scott Schumann in S. Schumann, “The Sartorialist”, 2009.

Le mie apparizioni sulle riviste di moda iniziarono ad essere numerose. Quelli furono anni in cui mi ritrassero fotografi del calibro di Scott Schumann, le cui immagini apparvero nella rivista “The Sartorialist”. 

So che abiti in centro, in zona Porta Ticinese, non molto distante da piazza XXIV maggio. Perché hai scelto questa parte della città invece della zona di corso Vercelli dove hai il negozio?

Sono molto legato alla casa in cui abito: me la sono acquistata con i guadagni di una vita. Ho scelto questa zona perché mi piace passeggiare lungo la Darsena e i Navigli. È una parte di Milano che mi è particolarmente cara: in fondo mi ricorda Parigi e il fluire della Senna”.  

Cosa pensi della zona in cui ci troviamo, il quartiere che ti ha formato come imprenditore, in cui hai mosso i primi passi e in cui sei rimasto con la tua splendida boutique?  

“Corso Vercelli era fino a quindici anni fa la seconda via più importante di Milano nel campo delle boutique di alta moda, dopo via Montenapoleone. Oggi la realtà è un po’ cambiata”. 

E via Antonio Scarpa?

“Io sono qui da più di cinquant’anni e contribuisco tuttora a mantenere elevata la qualità dell’offerta nel campo del commercio. Da alcuni anni hanno aperto altri negozi che contribuiscono ad assicurare alla via questi livelli.

La Galleria Vittorio Emanuele: incrocio di destini tra ‘800 e ‘900

Un volume di cultura milanese ripercorre la storia contrastata del celebre monumento del Mengoni e delle illustri personalità che ad esso furono legate

Il libro di Giovanna Ferrante, Galleria Vittorio Emanuele II. Un sogno di vetro e d’acciaio (Historica, Roma 2018, pp.115, euro 14) è un piccolo volume che ha il pregio di leggersi tutto d’un fiato. Un’opera che si può definire “anfibia” non foss’altro perché vi troviamo elementi che la avvicinano a un libro di storia, mentre altri la fanno rientrare nel genere della narrativa e questo per ragioni che esporremo più avanti. Il libro costituisce un ottimo strumento per conoscere uno dei monumenti più celebri di Milano, un volume particolarmente adatto a chi si avvicina per la prima volta alla storia della Galleria Vittorio Emanuele II.

GIOVANNA FERRANTE, Galleria Vittorio Emanuele II. Un sogno di vetro e acciaio. Historica, Roma 2018, 14 euro, 115 p.

L’autrice, che nel suo sito internet si definisce “meneghina doc ‘innamorata’ della sua città”, è attiva da tempo nel mondo della cultura ambrosiana: i suoi libri sono dedicati alla storia urbana, presa in esame nei vari campi dell’architettura, del costume, della cucina, della vita sociale e politica. Giovanna Ferrante, che in passato è stata autrice e conduttrice di trasmissioni radiofoniche presso Radio Meneghina, ha curato interessanti rubriche settimanali dedicate alla città. Insignita dell’Ambrogino d’Oro nel 2007, dal 2016 è responsabile della “Direzione Storie e Tradizioni milanesi” per il Centro Studi Grande Milano. L’autrice è quindi un’esperta di cultura milanese.

Il libro, come si è accennato, non è un’opera storica in senso stretto. E’ un racconto suggestivo in cui l’autrice ripercorre le controverse fasi di costruzione della Galleria Vittorio Emanuele II, facendo quasi rivivere le persone che ad essa furono legate in un modo o nell’altro: oltre alle analisi storiche condotte dalla Ferrante in merito ai tempi di realizzazione, all’inaugurazione e alle dimensioni di tale monumento, il lettore viene quasi portato per mano nella Milano dell’Otto e Novecento, come se fosse chiamato ad assistere a frammenti di vita quotidiana di personalità che furono legate alla storia della galleria. 

Efficace ad esempio il ritratto dell’architetto Giuseppe Mengoni – colui che vinse il concorso per la costruzione dell’edificio e lo realizzò nell’arco di più di dieci anni – descritto nell’atto di parlare al suo canarino o alla moglie mentre rivela i tormenti, le paure o le delusioni che lo attanagliavano. 

La Galleria Vittorio Emanuele all’ingresso verso Piazza del Duomo: a destra il primo Campari, a sinistra il secondo Campari (Camparino). Foto risalente ai primi anni del XX secolo.

Un’altra pagina di storia milanese è quella che si apre con il ritratto della famiglia Campari, che l’autrice disegna con grande efficacia narrativa facendo parlare la moglie di colui che fu il vero artefice del successo: Gaspare. Emigrato a Milano da Novara nella speranza di fare fortuna nell’attività di distillazione dei liquori e nella gestione di un caffè, nei primi anni Sessanta dell’Ottocento Gaspare aprì la sua attività nel Coperto dei Figini, un portico quattrocentesco che occupava il lato nord della piazza del Duomo. La demolizione di questo edificio dovuta all’allargamento della piazza e alla costruzione della Galleria non colse impreparato il commerciante novarese, che non esitò ad investire i suoi pochi fondi per prenotare uno spazio nel nuovo edificio. Il lettore apprende queste notizie dalle parole della signora Letizia, che possiamo immaginare con quale felicità avesse appreso dal marito che gran parte dei risparmi erano stati impiegati nella nuova impresa del Campari in Galleria: “Cosa stai dicendo? Non abbiamo ancora sistemato tutte le pendenze, stiamo appena cominciando a vedere i primi frutti di tanti pensieri e tanta fatica e adesso quest’altra bella novità! Gaspare, ma cosa ti viene in mente? Prima ancora di sapere cosa sarà questa nuova costruzione, no guarda, non posso crederci, hai prenotato una bottega in una Galleria che è ancora solo sulla carta” (pag,66). Da storico non posso che diffidare di questo racconto, frutto della pura immaginazione dell’autrice. E’ un discorso chiaramente inventato; ma come appare verosimile e, soprattutto, come si integra bene nel contesto storico che si sta descrivendo! Quelle non sono certo le parole di Letizia, ma qualcosa di quei pensieri dovette frullarle nella testa mentre il marito rischiava il suo patrimonio nell’investimento in Galleria. Gaspare vide giusto: il Campari divenne uno dei locali più rinomati di Milano e, mezzo secolo dopo, nel 1915, la famiglia riuscì perfino ad allargare la sua attività nel celebre passaggio vetrato del Mengoni aprendo, sul lato opposto (lato ovest), il Camparino, uno dei locali più caratteristici di Milano, tuttora esistente. 

Eugenio Torelli Viollier (1842-1900), primo direttore del “Corriere della Sera”.

L’analisi storica in questo libro si alterna così alla parte per così dire “narrativa”, rendendone accessibile la lettura anche a un pubblico di non specialisti. Si succedono le storie di Eugenio Torelli Viollier, primo direttore del “Corriere della Sera”; la prima sede del giornale si trovava in due stanze nell’ammezzato della galleria, un ufficio composto da tre redattori e quattro operai. L’autrice dedica particolare attenzione alla moglie del direttore, Maria Antonietta Torriani: fu la prima firma femminile della testata. Quella tra Torelli Viollier e la Torriani fu una relazione sofferta, dai risvolti tragici. La loro unione, durata due anni (1875-1877), fu bruscamente spezzata dalla morte improvvisa della nipote di Maria Antonietta, la giovanissima e avvenente Eva, suicidatasi mentre era ospite dei coniugi Viollier a Milano; la ragazza non resse agli attacchi di gelosia di Maria Antonietta, che l’aveva derisa davanti a conoscenti e amici, non perdonandole la relazione intima che il marito andava intrattenendo con lei. Nelle pagine della Ferrante si susseguono altre storie di personaggi che in un modo o nell’altro furono legati alla Galleria: da Ernest Hemingway a Umberto Boccioni, dal deputato radicale Felice Cavallotti agli scrittori veristi Giovanni Verga e Luigi Capuana.

Cosa è rimasto oggi di quel mondo? Come possiamo descrivere la Galleria Vittorio Emanuele al giorno d’oggi? Il monumento del Mengoni ha vissuto negli ultimi anni un’autentica evoluzione. Non si tratta solo di una diversa atmosfera che vi si respira. Ad essere cambiata sembra essere la stessa percezione che ne hanno i milanesi. Tale risultato è dipeso in buona parte dall’oculata gestione degli spazi che l’amministrazione comunale ha saputo condurre ormai da tempo. E’ di poche settimane la notizia che Giorgio Armani, dopo un confronto serrato con Tod’s, si è aggiudicato l’affitto di un locale (302 metri quadrati) ove fino a pochi mesi fa aveva sede un negozio TIM. Lo stilista ha così rafforzato la sua presenza nella Galleria ove hanno sede, ormai da anni, alcuni tra i marchi di moda più esclusivi: basti ricordare, per citarne alcuni, Prada, Luis Vuitton, Gucci.

Anche la presenza dei ristoranti si è in gran parte rinnovata ed arricchita: certo, c’è ancora il Savini, nei cui locali, tra la seconda metà dell’Ottocento e il XX secolo, si ritrovavano cantanti, attori, personalità della cultura, della classe dirigente e della classe politica italiana: qui esiste ancora il tavolo 7, un tempo riservato alla celebre cantante lirica Maria Callas e al suo compagno, l’armatore greco Aristotele Onassis. 

Carlo Cracco, chef pluripremiato, proprietario dell’omonimo ristorante in Galleria

L’arrivo di Cracco, che si è stabilito in alcuni locali del braccio meridionale, è stata una vera novità: il cuoco vicentino ha svecchiato il comparto della ristorazione di qualità, che in galleria era rimasto da troppi anni immutato per quanto concerne l’allestimento delle vetrine. Il risultato è pero che oggi il passaggio coperto del Mengoni è divenuto un salotto esclusivo, tempio del lusso, i cui spazi possono essere frequentati solo da una ricca clientela. E’ come se la galleria, da almeno un decennio, abbia finito per assumere una sua identità separata dal resto della città, un po’ come avviene nel celebre “Quadrilatero della Moda”. 

E’ vero che a riportarci alla Milano dei milanesi morigerati ci sono ancora negozi ‘normali’ come la libreria Rizzoli (oggi del Gruppo Mondadori) nel braccio nord o la Feltrinelli nel braccio sud. Esiste ancora il Camparino ove si può ammirare uno stupendo orologio risalente agli anni dell’Art Nouveau. Però l’impressione è appunto quella che ho tracciato sopra: la Galleria si è trasformata in uno spazio del lusso. 

Un tempo le cose non stavano così. Gli storici ci dicono che la Galleria, poco tempo dopo la sua costruzione, divenne sede di vivaci aziende del commercio, della ristorazione. Alcuni anni fa, in uno dei miei articoli, dimostrai addirittura come il passaggio coperto del Mengoni fosse divenuto nella seconda metà dell’Ottocento un punto di ritrovo per tutte le classi sociali, dagli umili artigiani fino all’intraprendente borghesia degli affari che viveva e lavorava nelle vicinanze. La Galleria costituì inoltre un luogo irrinunciabile anche per i tanti cantanti, ballerini e ballerine, attori e attrici, registi attivi nel vicino Teatro alla Scala. Non basta. Nella Milano ove sono ambientati i racconti di Giovanna Ferrante, ma anche nella città novecentesca la Galleria costituì una meta fondamentale per quanti lavoravano nelle vicinanze: dai funzionari delle vicine banche d’affari agli esponenti della classe politica milanese che svolgevano l’ufficio di consiglieri comunali o di assessori a Palazzo Marino, dagli impiegati pubblici alla vivace borghesia del commercio attiva nei negozi circostanti, tutti passarono sotto il monumento del Mengoni: un’opera destinata a divenire ben presto uno dei simboli di Milano.

Le stelle della moda sotto la Madonnina

In questi giorni a Milano si respira un’atmosfera magica. La settimana della moda è in pieno svolgimento: un evento imperdibile per gli appassionati, ma anche per il semplice uomo della strada che viene letteralmente ‘rapito’ dai tanti eventi allestiti nella capitale del fashion. Mercoledì il premier Renzi ha sostenuto che la moda è uno dei settori più importanti dell’economia italiana. “Dobbiamo vincere i luoghi comuni per rispetto a chi lavora in questo settore” ha detto Renzi aggiungendo: “la moda è fatta da donne e uomini che lavorano, che ci mettono passione, da imprenditori che hanno il coraggio di crederci anche quando non è facile … io sono qui per riconoscere una realtà che già c’è…”. Il premier, pranzando a Palazzo Reale assieme ai maggiori stilisti (Giorgio Armani, Angela Missoni, Renzo Rosso, Donatella Versace) ha voluto mostrare l’interesse del governo per un settore fondamentale dell’economia italiana. Intenso il programma della fashion week meneghina: dal 24 al 29 febbraio sono previste 73 sfilate, più di 90 presentazioni ed altri eventi che porteranno all’esposizione di numerose collezioni.

Cerchiamo ora di superare la superficie degli annunci per analizzare le ragioni che hanno spinto un presidente del consiglio italiano ad inaugurare, per la prima volta nella storia repubblicana, un evento glamour di dimensione cittadina.

Fashion followers
Una giovane passeggia per le vie di Milano…

In effetti, se studiamo a fondo le dinamiche dell’industria italiana della moda, ci rendiamo conto che la mossa di Renzi, pienamente azzeccata, è stata studiata nei minimi particolari. In una situazione generale di stallo (se non di lieve miglioramento per l’economia italiana), l’industria del fashion ha conseguito risultati di notevole successo negli ultimi anni grazie al genio e alla creatività delle aziende specializzate nel settore.

In questa sede svolgerò alcune riflessioni sul tema basandomi su una fonte di notevole interesse per gli storici e gli studiosi di scienze economiche: si tratta del rapporto – analisi e presentazione sono liberamente scaricabili da Internet  – che l’Area Studi Mediobanca ha dedicato al comparto della moda italiana. I bilanci più recenti sono quelli del 2014 ma gli esperti hanno condotto alcune previsioni per il 2015 che ci consentono di avere un’idea abbastanza precisa delle dinamiche interne a questo  settore. Nel 2014 la moda italiana ha costituito un giro d’affari pari a 224 miliardi con un incremento del 2% rispetto all’anno precedente. La crescita nel 2015 sarà probabilmente incrementata con un ritorno addirittura alla doppia cifra a causa della svalutazione dell’euro: si stima un aumento del 13% per un giro di affari stimato a 253 miliardi. Si tratta di un risultato importante. Quali sono però i mercati cui si rivolgono le aziende della moda italiana? Restando ai dati del 2014, l’Europa è stata il primo mercato mondiale con 76 miliardi seguita dalle Americhe con 72 miliardi e dall’Asia-Pacifico con 47 miliardi. La pelletteria ha interessato un giro d’affari pari a 65 miliardi, il comparto abbigliamento 54 miliardi, le gioielleria-oreficeria 52 miliardi, la cosmesi-profumeria 45 miliardi.

In altri termini, i mercati internazionali premiano la moda italiana nei vari settori. Anche in Europa i progressi sono notevoli. Qui però dobbiamo spiegarci perché non si capisce come mai il mercato di un vecchio continente in difficoltà (ricordiamo che i dati si riferiscono al 2014) abbia segnato un’ottima performance nella moda. A soccorrerci è ancora una volta l’analisi di Mediobanca, che ha messo in evidenza come in Europa – e ancor più in Italia – la contrazione dei consumi dovuta ai colpi di coda della crisi sia stata in parte compensata da uno shopping turistico di rilievo. Le stime del 2015 indicano un totale di 48 miliardi di euro. Questo fenomeno ha riguardato per il 74% quattro paesi europei: Francia, Germania, Gran Bretagna e Italia. Chi sono questi turisti benefattori che ogni anno vengono a trovarci e premiano le nostre aziende con i loro acquisti da nababbi? Nell’Europa del 2014 sono stati per il 36% cinesi e per il 9% russi. In Italia il fenomeno è ancora più lampante: i turisti stranieri che hanno premiato il Made in Italy nel campo del lusso sono stati cinesi per il 32%, russi per il 13%, americani per l’8%.

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Bianca Balti in una sfilata del 2010

Ma avviciniamo ancor più la lente alle aziende italiane della moda. L’Area Studi Mediobanca ha individuato 143 società che nel 2014 hanno avuto un fatturato di almeno 100 milioni di euro: 59 sono nel settore abbigliamento, 32 operano nel comparto pelletteria, 20 nel tessile, 11 nella gioielleria-oreficeria, 5 nell’occhialeria, 16 nella distribuzione. Dove si trovano? In larga misura nell’Italia padana: 56 nel Nord Ovest (Piemonte, Valle d’Aosta, Liguria, Lombardia), 55 nel Nord Est (Veneto, Emilia-Romagna, Trentino Alto Adige, Friuli Venezia Giulia), 32 nel resto d’Italia. Si tratta di una mappa geografica che sembra giustificare ampiamente il ruolo di Milano quale capitale italiana del fashion. La proprietà di queste aziende è in larghissima parte italiana: solo 44 sono a controllo estero (18 di queste sono all’interno di gruppi francesi).

Dal 2010 al 2014 le aziende della moda sono cresciute più della manifattura. Risultano inoltre meglio gestite: sono più redditizie, meglio capitalizzate e “liquide” (hanno molto “fieno in cascina” come si suol dire). Relativamente al fatturato, se l’incremento dei grandi gruppi manifatturieri è stato pari al 16,3% tra il 2010 e il 2014, quello delle aziende che operano nel fashion è stato del 27,7%. La forbice si fa ancora più larga se guardiamo all’incremento della redditività operativa (Ebit): +14,1% contro +25,1% della moda nel periodo 2010-2014. Maggiore l’aumento della forza lavoro: +14% per la manifattura contro un aumento del 22,7% della moda.

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Palazzo Trussardi tra via Filodrammatici e piazza Paolo Ferrari

Fa riflettere inoltre la differenza abissale nella struttura finanziaria tra i grandi gruppi manifatturieri e le aziende del comparto moda. Nel 2014 la redditività operativa dei primi è cresciuta del 6% contro il +9% delle seconde. Due parametri mostrano soprattutto la profonda diversità: la percentuale di liquidità (disponibilità di risorse) in rapporto ai debiti finanziari è stata pari al 50,4% nella manifattura mentre la moda ha dimostrato di sapersi gestire meglio con un rapporto pari al 73,7%. Un altro dato è il rapporto debiti finanziari/patrimonio netto, sempre relativo al 2014: se la manifattura presentava una percentuale elevatissima, pari al 140,4%, le aziende fashion non superavano una percentuale pari al 36,8%: questo significa che i debiti finanziari di queste ultime erano meno del 40% rispetto ai mezzi che avevano per farvi fronte.

All’interno delle 143 società operanti nella moda, l’Area Studi Mediobanca ha individuato un gruppo ristretto di 15 gruppi che tra il 2010 e il 2014 hanno raggiunto i picchi maggiori  per fatturato. Si tratta dei grandi marchi del lusso che elenchiamo in ordine alfabetico: Armani, Benetton, Calzedonia, Dolce&Gabbana, Geox, Luxottica, Max Mara, Moncler, Diesel, Prada, Safilo, Salvatore Ferragamo, Tod’s, Valentino, Zegna. Sono state considerate a parte Gucci e Bottega Veneta perché sono aziende che fanno parte della Società francese Gruppo Kering, rispettivamente dal 1999 e dal 2001.

Giorgio Armani
Giorgio Armani alla presentazione della sua autobiografia dedicata a 40 anni di moda

La classifica per fatturato vede in testa Luxottica con 7.652 milioni di euro, seguita da Prada con 3.552 mln, Armani con 2.535 mln, Calzedonia 1.847 mln, OTB (Diesel) 1.536 mln, Ferragamo 1.321 mln, Max Mara 1.310, Benetton 1.296, Zegna 1.210, Safilo 1.179, Dolce & Gabbana 1.045, Tod’s 966, Lir (Geox) 934, Valentino 721, Moncler 694. Per le italiane “conquistate” dai francesi, Gucci ha avuto ricavi per 3.497 milioni e Bottega Veneta per 1.131 mln. Il fatturato di queste aziende ha riguardato nel 2014 l’abbigliamento per il 46%, l’occhialeria per il 32%, la pelletteria per l’11%, le calzature per il 10%. Per numero di dipendenti si segnala Luxottica con 75.575 unità, seguita da Calzedonia con 30.705, Prada con 11.962, Armani con 8.112, Zegna con 7.663, Safilo con 7.609, Diesel con 6.286, Max Mara con 5.670, Dolce & Gabbana con 4.294, Tod’s con 4.239 e così via. Nel complesso le Top15 vendono più nei mercati extra europei, anche se il Vecchio Continente resta un mercato importante: 12,1 miliardi di fatturato in Europa contro i 15,7 miliardi nel resto del mondo. Si segnala in particolar modo la netta prevalenza delle vendite nei mercati esteri Luxottica (80,3% del fatturato fuori Europa), Ferragamo (73,1%), Zegna (72,6%), Prada (63,6%), Safilo (58,7%), Valentino (57,7%), Armani (55,7%), Dolce e Gabbana (55,3%).

Dalle analisi di Mediobanca possiamo ricavare due brevi riflessioni. La prima riguarda l’effettiva importanza del giro d’affari italiano della moda e del lusso, i cui prodotti sono apprezzati da una ricca clientela in netta prevalenza straniera. E’ vero che le aziende francesi di moda hanno fatturati superiori ai nostri ma non sono molto lontane da quelle italiane, che negli ultimi anni hanno mostrato di crescere con forza addirittura maggiore rispetto alle concorrenti d’oltralpe. La qualità, il design, la creatività del prodotto Made in Italy fanno ancora la differenza.

La seconda riflessione si lega invce alla debolezza della domanda interna italiana, che resta ancora eccessivamente bassa. Senza lo sbocco dei mercati esteri (compresi quelli europei) le nostre aziende avrebbero serie difficoltà. Per questa ragione è importante che il governo italiano si faccia portatore in Europa di una politica economica tesa a far crescere la domanda interna.

L’eccellenza italiana nell’industria della moda e del lusso può far storcere il naso al moralista che ritiene la raffinatezza dei costumi e il formalismo esteriore un segno di corruzione alimentando le diseguaglianze sociali in una repubblica che si vorrebbe informata alle semplici ed austere virtù del cittadino. Al contrario, le aziende che operano nella moda e nel lusso costituiscono una realtà di cui gli italiani dovrebbero andare orgogliosi.

Scriveva Pietro Verri nel celebre saggio Considerazioni sul lusso, pubblicato nel 1764 nel primo tomo, della celebre rivista “Il Caffè”:

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Pietro Verri (1728-1797)

Se il lusso ha per oggetto le manifatture nazionali, è cosa evidente che il restringerlo altro effetto non potrà produrre che quello di togliere il pane agli artigiani che campano sulle manifatture, desolare cittadini industriosi e utili, obbligarli ad abbandonare la patria, dare in somma un colpo crudele e funesto a molti membri della nazione, che hanno diritto alla protezione delle leggi, e alla nazione stessa spogliandola d’un numero di nazionali, diminuendosi il quale scema la vera sua robustezza.

Tornando sugli effetti benefici che le spese dei ricchi recavano all’economia di un paese andando a beneficio delle classi più povere ma industriose, il celebre illuminista lombardo scriveva:

Se il lusso nasce dalla ineguale ripartizione de’ beni e se l’ineguale ripartizione dei beni è contraria alla prosperità di una nazione, il lusso medesimo sarà un bene politico in quanto che dissipando i pingui patrimoni torna a dividerli, a ripartirli, e ad accostarsi alla meno sproporzionata divisione de’ beni. Il lusso è dunque un rimedio al male medesimo che lo ha fatto nascere; poiché l’ambizione de’ ricchi, che profondono, serve di esca ai vogliosi d’arricchirsi, e i danari ammassati, come una fecondatrice rugiada, ricadono sui poveri ma industriosi cittadini; e laddove la rapina o l’industria li sottrassero alla circolazione, il lusso e la spensieratezza loro li restituiscono.

P. Verri, Considerazioni sul lusso in “Il Caffè”, Tomo I, foglio XIV, in S. Romagnoli (a cura di), Il Caffè, Feltrinelli Editore, Milano 1960, pp.114-115

Gli faceva eco alcuni anni dopo Cesare Beccaria quando, agli studenti accorsi alle sue lezioni di economia pubblica, ricordava:

Cesare Beccaria (1738-1794)
Cesare Beccaria (1738-1794)

La ricchezza degli stati non nasce realmente che dalla fatica degli individui; la fatica degli individui bisogna appagarla; non si determinano gli uomini a fare questi pagamenti se non per convertirli in mezzi di godere ciò che più gli soddisfa. Di più, l’uomo non fatica, se non in proporzione dell’utile immediato che spera da quella provenirne; gli utili di questa fatica sono somministrati dalle spese dei ricchi, ossia di quelli che posseggono al di là del necessario fisico.

CBeccaria, Elementi di economia pubblica in C. Beccaria, Scritti economici, a cura di Gianmarco Gaspari, Edizione Nazionale delle Opere di Cesare Beccaria, Vol. III, Milano, Mediobanca 2014, pag.362.

Le radici storiche dell’alta moda a Milano

Quali sono le radici del Made in Italy nel comparto dell’alta moda? E’ facile risalire agli Ottanta/Novanta del Novecento, quando Milano, divenuta sede di importanti brand del lusso quali Gucci, Armani, Prada, Zegna, Dolce&Gabbana, acquisì il ruolo invidiato di capitale italiana della moda e del design.

Eppure, a ben vedere, la lente dello storico induce a risalire indietro nel tempo perché ci sono ragioni più profonde che spiegano per quale motivo Milano sia divenuta capitale del Made in Italy. Nel basso Medioevo, più precisamente all’epoca della signoria dei Visconti e degli Sforza, tra il XIV e il XV secolo, possiamo collocare gli esordi e il definitivo affermarsi dell’industria artigianale del lusso nell’abbigliamento e negli arredi. Certo, a quei tempi, la moda obbediva a finalità diverse, più legate a ragioni di rappresentanza politica. Oggi un imprenditore che lavora nell’abbigliamento orienta le sue produzioni in base a una clientela le cui scelte sono dettate da logiche tendenzialmente “private”: il cliente che acquista un capo di abbigliamento lo fa non solo per rispondere ai suoi gusti; in una società fatta da persone che non conosce – il dato è essenziale – desidera comunicare un messaggio, intende fare del vestito lo specchio in cui appaiono le sue qualità. L’abito diviene insomma un biglietto da visita.

Fante di coppe dal mazzo di tarocchi Brambilla, 1442-1444 ca. Tempera e foglia doro su cartoncino pressato.
Fante di coppe dal mazzo di tarocchi Brambilla, 1442-1444 ca. Tempera e foglia d’oro su cartoncino pressato.

Nel Medioevo la situazione era diversa, ma anche allora ci si vestiva per comunicare, per presentarsi in società secondo un codice di costumi fondato sulle apparenze. La clientela rispondeva a logiche di comunicazione politica legate al ceto di appartenenza. La società di oggi è costituita da cittadini privati ed eguali, liberi di agire nel rispetto delle leggi statali. In fondo, siamo ancora figli della rivoluzione francese. Nel Medioevo non esistevano cittadini in questo senso. I diritti e i doveri di ciascuno erano legati al ceto di appartenenza. Si capisce quindi come l’abbigliamento fosse un codice distintivo di fondamentale importanza, perché consentiva a una società corporativa come quella medievale di riconoscere le persone dall’abito che portavano.

La corte dei duchi di Milano costituisce un esempio emblematico. Il segno più distintivo dell’alta moda fu la produzione dei tessuti auroserici, un tipo di lavorazione che, affermatosi a Milano nel corso del Quattrocento, raggiunse livelli di eccellenza per tutto il secolo seguente. In effetti il ducato visconteo-sforzesco poteva contare su tecniche consolidate di tessitura e tintura che riguardavano capi come i fustagni o la lana.

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Frammento di velluto, broccato e bouclé in oro. Tessitura milanese risalente al 1460-1475 ca

La produzione dei tessuti auroserici era qualcosa di molto diverso. Si trattava di una lavorazione di altissima qualità che, alla fine del Trecento, era presente in alcuni Stati italiani (repubblica di Genova, repubblica di Firenze, repubblica di Venezia, repubblica di Lucca) che per ricchezza potevano permettersi la produzione e il commercio di questi manufatti. In cosa consisteva tale lavorazione? Ad essere tessuti erano articoli quali lampassi e damaschi, broccati d’oro e d’argento, velluti sul cui pelo di seta venivano incisi disegni araldici. Le fasi della lavorazione e del commercio del prodotto erano gestite interamente da una persona che potremmo definire “mercante imprenditore”. Questi acquistava anzitutto la materia prima. La seta proveniva dalla Spagna meridionale; la cocciniglia – il prezioso colorante rosso prodotto in Polonia o in Armenia – o l’indaco di Baghdad  – il miglior colorante azzurro per la seta – erano acquistati nei mercati sulle sponde del Mar Nero, alcuni fatti arrivare mediante il trasporto su chiatte lungo il Danubio; i lingotti d’oro e d’argento giungevano invece dalle miniere del Nord Europa. Il processo di lavorazione avveniva in due stadi. Nel primo il mercante forniva le materie prime agli artigiani. Una particolare fase di lavoro era ad esempio quella del battiloro: consisteva nel ridurre il singolo pezzo d’oro in lamine finissime che venivano poi tagliate con apposite forbici e inserite nel tessuto di seta dalle “filaoro”, maestranze femminili specializzate. Nel secondo stadio il mercante ritirava la stoffa lavorata e la portava nell’“apotheca”, ove il maestro tessitore, sulla base del disegno che gli veniva fornito, procedeva alla complessa tessitura del prodotto: tale lavoro poteva richiedere fino a tre settimane per la consegna dell’articolo finito. Il capo d’abbigliamento o l’articolo di arredamento veniva quindi venduto dal mercante alla corte ducale, alle ricche famiglie della nobiltà, ma anche a numerosi borghesi arricchitisi in questo settore.

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Filippo Maria Visconti, duca di Milano dal 1412 al 1447

Come fu possibile la nascita di quest’arte nel ducato di Milano? Nulla nasce per caso. Tale lavorazione venne introdotta in città per volontà del duca Filippo Maria Visconti. Gli Sforza poi incrementarono l’industria auroserica. I duchi praticarono una politica di “apertura all’esterno” creando le condizioni per fare arrivare a Milano i migliori artigiani e le macchine più importanti che servivano alla lavorazione. Negli anni di Filippo Maria Visconti (1412-1447) e di Francesco Sforza (1450-1466) vennero chiamate a lavorare a Milano le migliori maestranze tessili provenienti da Genova, da Venezia, da Firenze, da Lucca. Questi artigiani insegnarono la lavorazione auroserica alle famiglie dell’aristocrazia mercantile lombarda, tanto desiderose di apprendere i segreti dell’arte quanto decise ad arricchirsi mediante l’innovazione e il commercio dei prodotti. In secondo luogo, questi maestri poterono lavorare in libertà: la loro attività non venne impedita, rallentata, ostacolata dagli Statuti delle corporazioni cittadine e non esistevano neppure leggi suntuarie che limitavano il commercio. Una situazione di assenza di vincoli che durò fino al 1461. Tuttavia, val la pena ricordare che anche dopo quella data, le norme sul lusso furono abbastanza elastiche, rendendo possibile la produzione e il commercio di articoli di alta moda.

L’aristocrazia mercantile milanese investì ingenti risorse finanziarie nella produzione di tali manufatti auroserici, curandone lo smercio nei mercati internazionali.  Mandò inoltre i suoi figli ad imparare l’arte nelle botteghe dei migliori tessitori toscani e genovesi immigrati a Milano. In alcuni casi si andò anche oltre. Del tutto indicative in proposito le strategie matrimoniali messe in campo dal consigliere ducale Oldrado Lampugnani, che nel primo Quattrocento fece sposare una delle sue figlie con il tessitore fiorentino Pietro di Bartolo.

Quali insegnamenti possiamo ricavare da questa storia? Anzitutto che l’ipertrofia legislativa, la presenza di vincoli burocratici soffoca qualunque impresa. Nel ducato di Milano l’industria auroserica rimase un comparto di eccellenza nel campo dell’alta moda per tutto il Cinquecento proprio per l’assenza di vincoli particolarmente stringenti nel comparto del lusso. Nel Seicento la crisi economica provocata dalle guerre, dalle carestie e dalle pestilenze impoverì la borghesia milanese, segnando una netta separazione tra il ricco patriziato cittadino e una popolazione in gran parte ridotta in povertà. Eppure, anche allora, nonostante tali difficoltà, la nobiltà cittadina – cui competeva la disciplina normativa sul lusso – emanò poche disposizioni in materia. Tra il XVI e il XVIII secolo nel ducato di Milano vennero emanate solo otto normative suntuarie: un numero esiguo se rapportato alle ventuno leggi vigenti in materia nel granducato di Toscana o alle ottanta o poco più nella repubblica di Venezia. Inoltre, diversamente da altri Stati europei, le normative milanesi si caratterizzarono in molti casi per la mancanza di pene severe contro i trasgressori. Segno che i governanti, costretti a legiferare per ragioni di ordine politico e religioso, lo fecero con l’intenzione di limitare il più possibile i danni all’industria milanese.