Caro Bersani, l’Ulivo non basta a far rinascere l’Italia…

Il leader del Partito Democratico, Pier Luigi Bersani, in un articolo apparso ieri su “Repubblica”, ha sostenuto che è tempo di costituire un nuovo grande Ulivo che sia in grado di realizzare il ‘miracolo’ del 1996: battere Berlusconi. Bersani non si è fermato qui. Ha bandito una “Santa Alleanza” che possa legare tutte le forze politiche che non si riconoscono nella cultura del ‘berlusconismo’. L’idea è quindi una sorta di alleanza costituzionale di cui facciano parte, oltre ai partiti dell’Ulivo (Pd e Di Pietro), le sinistre di Vendola e Ferrero, i centristi di Casini e i finiani. Romano Prodi, in un’intervista apparsa oggi sempre su “Repubblica”, ha plaudito all’iniziativa di Bersani, augurandosi che l’Ulivo cresca con maggiore slancio mediante l’inserimento di diserbanti, innesti e fertilizzanti perché “possa vivere abbastanza a lungo da produrre frutti sufficienti a risollevare le sorti dell’Italia”.

L’iniziativa di Bersani non credo vada nella direzione giusta. Essa si pone in una logica bipolare che a mio giudizio non regge in Italia perché non è in grado di produrre stabilità e quindi governabilità. Diciamolo una volta per tutte. Il bipolarismo è stato un fallimento: non è un bene nell’Italia berlusconiana di oggi, dove il Pdl – come ha detto ieri il premier – vorrebbe rappresentare il progresso e la spinta all’ammodernamento contro il vecchiume dei partiti di centro sinistra legati a una politica ciecamente conservatrice; non lo sarà in un futuro più o meno prossimo, se e quando la Santa Alleanza costituzionale riuscirà a vincere contro il Male incarnato dal centro destra: Berlusconi, la Lega Nord e tutti i partiti colpevoli di non riconoscersi interamente nei principi che sorreggono la Costituzione del ’48.

Come se ne esce? A mio giudizio occorre riconoscere che l’Italia non è un paese unito; è diviso – da sempre – in grandi aree tendenzialmente coincidenti con antichi Stati regionali, territori dove gli elettori votano diversamente perché influenzati da culture, tradizioni, storie e interessi economici molto diversi, se non addirittura opposti. Non si spiega altrimenti per quale motivo la Lega Nord e il Pdl berlusconiano siano nettamente vincenti nel Lombardo Veneto, mentre arranchino nel Nord Ovest e nel Centro Italia. I partiti di sinistra sono invece nettamente maggioritari nelle regioni a cavallo dell’appennino tosco emiliano, sono radicati in Liguria e nel torinese, ma non riescono a sfondare nel Sud Italia (fatta eccezione per la Puglia di Vendola) ove dominano le destre nazionaliste, tradizionaliste e autonomiste.

Credo non si possa ridurre a unità un paese così diviso, costringendo i perdenti a riconoscersi in una maggioranza che, lungi dal rappresentare l’Italia, ne rappresenta solo una parte. Il bipolarismo funziona in paesi di antica unità come Francia e Inghilterra oppure in paesi (gli Stati Uniti) dove il bipartitismo è stato importato dalla cultura anglosassone. A voler fare un paradosso, occorre recuperare lo spirito di mediazione della Prima Repubblica, attribuendo tuttavia non già ai partiti, ma ai rappresentanti dei territori il compito di governare nell’interesse del Paese. Un tale risultato può essere conseguito solo in un regime federale ove la tutela e la salvaguardia degli interessi territoriali sia adeguatamente riconosciuta e fatta convergere in una logica complessiva di unione.

Riprendendo il modello di costituzione federale redatto dal professor Miglio nel 1994, occorre quindi istituire un ordinamento federale strutturato su almeno due livelli: da una parte Stati regionali o Comunità regionali (che a mio giudizio dovrebbero essere i seguenti: Ligure Piemontese, Lombardo Veneta, Tosco Emiliana, Centro Italia, Sud Italia + 5 Regioni a Statuto speciale) che siano in grado di governarsi legiferando e amministrando in piena autonomia nella maggior parte delle materie oggi riservate allo Stato centrale; dall’altro il potere federale il cui governo dovrebbe consistere in un Direttorio presieduto da un Presidente della Repubblica eletto direttamente dagli italiani (presidenzialismo) e composto dai governatori dei cinque Stati (eletti anch’essi a suffragio universale e diretto dalle rispettive popolazioni), nonché da un rappresentante (a turno annuale) delle 5 Regioni a Statuto speciale (elevate a dignità di Stato regionale).

Se vi fosse un Direttorio noi avremmo un governo realmente capace di rappresentare la stragrande maggioranza degli italiani, in grado di produrre decisioni in tempi rapidi, non foss’altro che per il ristretto numero dei suoi componenti (7 direttori). Le decisioni verrebbero assunte a maggioranza in gran parte delle materie di competenza federale e all’unanimità nei casi in cui dovesse discutersi la legge finanziaria, il sostegno economico alle aree svantaggiate, l’introduzione di nuovi tributi, la cessione di nuove competenze agli Stati regionali o, viceversa, l’attribuzione provvisoria al governo federale di una parte delle funzioni detenute dai governi territoriali. Un Direttorio in cui un presidente della Repubblica eletto dagli italiani (sia egli di centro destra o di centro sinistra) dovrebbe mediare e decidere in tempi certi e costituzionalmente regolati assieme ai governatori di centro destra (presumibilmente i presidenti lombardo veneto e sud italiano) e di centro sinistra (presumibilmente i presidenti ligure piemontese, tosco emiliano e centro italiano).

E’ evidente che un tale programma potrà essere realizzato solo con una modifica della Costituzione. Il che è assai difficile nei tempi presenti. Sarebbe tuttavia auspicabile che i maggiori partiti (Lega, Pdl, Pd, Di Pietro) prendano atto che esiste non già un’Italia unita, ma più Italie e che solo facendole dialogare sarà possibile realizzare un vera unione senza violare gli insopprimibili diritti delle minoranze. Che è poi lo spirito del vero federalismo.

Bozzetti satirici da frammenti di storia/1

Il generale Napoleone Bonaparte al Direttorio francese, Milano, 26 agosto 1796

“Gl’inglesi hanno persuaso il Re di Napoli, ch’egli è qualche cosa. Io lo convincerò ch’egli è nulla. Se persiste contro i patti dell’armistizio a mettersi in armi , io giuro in faccia all’Europa di marciare contro i suoi sognati settantamila uomini con seimila granatieri, quattromila cavalli e cinquanta pezzi di artiglieria”.

Il cavaliere Silvio Berlusconi al Direttorio leghista, Lesa, 25 agosto 2010:

“I delusi del Pd, Francesco Rutelli e l’Udc di Pier Ferdinando Casini hanno persuaso Gianfranco Fini ch’egli è qualche cosa. Io lo convincerò del contrario. Se persiste a volermi attaccare contro ogni patto di desistenza e pacificazione, io giuro dinanzi al mondo di Arcore di marciare contro i suoi sognati sgherri di Futuro e Libertà con seimila articoli di Vittorio Feltri, con quattromila tigri del fido Roberto Calderoli e con i pezzi di artiglieria messi a disposizione dall’agguerrita Daniela Santanché”.

I finiani e la tela di alleanze per neutralizzare la Lega

La conferenza stampa che Silvio Berlusconi ha tenuto venerdì scorso al termine del vertice a palazzo Grazioli voleva essere probabilmente, nelle intenzioni del premier, un atto teso a rassicurare gli elettori del Pdl. I finiani dovevano esser messi con “le spalle al muro”, costretti ad approvare o a respingere in toto il programma votato a larghissima maggioranza dai membri del partito. Ma l’obiettivo del premier è stato raggiunto solo a metà. Berlusconi si prepara a confrontarsi con un Parlamento che vedrà i finiani svolgere un ruolo ambiguo, di certo poco fedele alle sue direttive politiche.
Il terreno del confronto a Montecitorio si annuncia assai insidioso. Futuro e Libertà, il gruppo parlamentare che fa capo al presidente della Camera, ha già fatto sapere che non approverà leggi ad personam o normative – come quella sul processo breve – che rischiano di ostacolare il corretto funzionamento della magistratura. E’ inoltre probabile che i finiani respingeranno il Lodo Alfano costituzionale con cui il premier intende porsi definitivamente al riparo dalle inchieste giudiziarie.
In realtà, il lento logoramento che i finiani vanno operando nei confronti del governo Berlusconi risponde a un obiettivo assai più concreto. Il presidente della Camera ha ragione nel sostenere che l’approvazione di leggi ad personam non è ammissibile in uno Stato di diritto legislativo parlamentare. C’è da chiedersi tuttavia per quale motivo i finiani si siano svegliati proprio ora dopo essersi accucciati per tanti anni ai piedi del trono di Arcore.
Occorre ricercare altrove le ragioni del mutamento di rotta politica compiuto dai finiani. La sorgente della discordia risiede nel ruolo giocato dalla Lega in questa legislatura, ruolo dovuto al clamoroso successo elettorale riscosso dal partito di Bossi nelle ultime elezioni politiche. L’asse tra Tremonti e Bossi, ma soprattutto la posizione decisiva rivestita dalla Lega all’interno della maggioranza viene osteggiata da quanti temono che i leghisti vogliano far saltare per sempre i principi di solidarietà e di coesione nazionale su cui si fonda la Costituzione del ’48. L’emanazione dei primi decreti sul federalismo fiscale vien vista dai conservatori come un primo, inaccettabile colpo di piccone all’edificio dello Stato italiano. Non a caso il finiano Italo Bocchino ha proposto a Berlusconi di formare un nuovo governo che possa contare sull’appoggio del Pdl, di Futuro e Libertà, di Casini, di Rutelli e di tutti i delusi del Partito democratico. Insomma il presidente della Camera, giocando di sponda con l’Udc e con una parte del centro sinistra, intende ridimensionare il ruolo della Lega lavorando per la conservazione del regime esistente, dei principi di solidarietà e di unità nazionale su cui si regge la Costituzione del 1948.
Umberto Bossi ha fatto sapere di non essere disposto ad appoggiare governi sostenuti da chi ha perso le elezioni. Non si vede come dargli torto. Il consenso elettorale della Lega è dovuto precisamente al programma di riforma federale della repubblica italiana. Ma Berlusconi sembra disposto a far entrare nella maggioranza il partito di Casini pur di vedere approvati i disegni di legge che più gli stanno a cuore. Se un tale piano dovesse avverarsi, la Lega vedrebbe considerevolmente ridimensionata la sua influenza sugli equilibri della maggioranza, il che porterà inevitabilmente alla fine della stagione costituente che si era aperta con le elezioni del 2008. Sarebbe anche la fine di ogni ipotesi di riforma costituzionale in senso federale e presidenziale. Per Bossi mai come in questo momento sembra appropriato il motto borrelliano: resistere, resistere, resistere…

Berlusconi e i cattolici spaccati in due…

L’editorialista di Famiglia Cristiana, Beppe Del Colle, sostiene in un articolo dal titolo “Il cavaliere dimezzato” che l’ingresso in politica del Cavaliere avrebbe provocato una grave spaccatura tra gli elettori cattolici (ex democristiani): “La discesa in campo di Berlusconi ha avuto come risultato quello che nessun politico nel mezzo secolo precedente aveva mai sperato: di spaccare in due il voto cattolico (o, per meglio dire, il voto democristiano)”.

Non sono d’accordo. Negli anni immediatamente precedenti alla discesa in campo di Berlusconi, il mutamento di segno politico nell’elettorato cattolico si era già verificato in tutta la sua estensione. Basti ricordare che la Lega Nord, nelle elezioni politiche del 1992, raggiunse per la prima volta la soglia dell’8,6 per cento, guadagnando percentuali bulgare in province che per decenni erano state rigorosamente ‘bianche’.

La crisi del cattolicesimo politico, che negli anni della cosiddetta Prima Repubblica si sostanziò (a mio giudizio assai mediocremente) nella Democrazia Cristiana, fu dovuta quindi ad altre ragioni. Senza dubbio la modesta levatura della classe politica che fu a capo del partito negli anni Ottanta. Già nel 1981 Giuseppe Lazzati, uno dei maggiori uomini di cultura, rettore dell’Università Cattolica dal 1969 al 1983, avvertì i politici democristiani che occorreva recuperare il filo diretto con la gente. Non fu ascoltato. Il partito continuò a dilaniarsi in lotte di potere interne, in una politica di palazzo lontana dai bisogni della società. Quando arrivò la tempesta di Tangentopoli la Democrazia Cristiana, che già perdeva acqua da tutte le parti, naufragò miseramente tra l’indifferenza generale.

Non è quindi colpa di Berlusconi se i cattolici sono oggi divisi, privi di una guida politica che sia in grado di rappresentarli degnamente. E’ colpa invece dei democristiani, i quali mostrarono di non avere una cultura politica adeguata, che fosse realmente al servizio dei valori cattolici.

Diktat di Roma all’Alto Adige: no ai cartelli tedeschi

Il ministro Fitto vuol proibire ai Sud-Tirolesi di scrivere i nomi dei sentieri in lingua tedesca. “In Alto Adige i 36 mila cartelli in montagna scritti solo in lingua tedesca devono sparire”, ha detto il titolare del dicastero degli Affari regionali. Non basta. Se la Provincia autonoma di Bolzano non provvederà all’eliminazione dei cartelli, interverrà lo Stato.

Questa curiosa dichiarazione del ministro Fitto mostra che il governo Berlusconi ha un’idea alquanto fumosa del federalismo e lascia trasparire un certo spirito centralista che pensavamo di aver sepolto definitivamente sotto le macerie del Fascismo. Difatti, non v’è chi non veda come appartenga allo Stato centralista e nazionalista il metodo di imporre una lingua, una cultura, un sistema d’istruzione uniforme a tutte le popolazioni soggette al suo dominio.

Un vero ordinamento federale, come non si stancava di ripetere il professor Miglio, non impone l’omogeneità e l’unità. Esso è costituito al contrario per tutelare e gestire i diritti storici delle comunità e delle minoranze.

Le verità nascoste della strage di via D’Amelio

Decine di giovani si sono riuniti a Palermo il 19 luglio per ricordare la strage di via D’Amelio, l’attentato in cui trovarono la morte il giudice Paolo Borsellino e gli agenti della scorta. Nonostante siano passati diciotto anni da quel tragico evento, sussistono ancora molti punti interrogativi.

Lavorando a fianco del giudice Giovanni Falcone, profondo conoscitore del fenomeno mafioso, Borsellino aveva fatto della lotta al crimine organizzato la sua missione di vita. Dopo la scomparsa di Falcone, avvenuta il 23 maggio 1992, egli cercò di continuare l’opera del grande amico ma gli fu impedito di proseguire. Borsellino trovò la morte in un attentato che venne pensato e realizzato sulla falsariga di quello di Capaci.
Gli ultimi sviluppi dell’inchiesta portata avanti dai magistrati di Caltanissetta sembrano far risalire la responsabilità del suo assassinio non solo alla mafia, ma a una parte della classe politica e burocratica esistenti a quell’epoca. Paolo Borsellino sarebbe stato ucciso perché, opponendosi fermamente ad ogni compromesso tra Stato e Mafia, avrebbe intralciato l’opera di chi intendeva scendere a patti con il potere mafioso per fermare il corso delle stragi. Se le inchieste dei magistrati di Caltanissetta dovessero trovare conferma nei documenti depositati in questi ultimi giorni, verrebbe avvalorata la tesi secondo la quale gli attentati del 1992 e del 1993 sarebbero stati compiuti per spingere la classe politica a fissare una nuova alleanza con il potere mafioso, un’alleanza tesa alla conservazione dello status quo nell’isola. Un quadro inquietante, ma dopotutto non così sorprendente se si considera che l’Italia di quegli anni versava in una grave crisi politico istituzionale e il naufragio dei partiti tradizionali nel mare di Tangentopoli sembrava delineare scenari dai contorni imprevedibili.

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