Intelligenza creativa e libera volontà: così l’Italia torna a volare

In questi anni, in seguito alle difficoltà legate alla crisi economica, il tema del lavoro è divenuto centrale nelle politiche europee. Il rilancio dell’occupazione è fondamentale ma siamo sicuri che la ricchezza di un paese dipenda unicamente dal lavoro? L’economista meridionale Antonio Genovesi, nelle Lezioni di economia civile, riteneva che la ricchezza di un paese fosse sempre da porre in relazione alla somma delle “fatiche”. Secondo Genovesi il lavoro che un governo avrebbe fatto bene ad incoraggiare doveva essere quello che dava una rendita in base alle richieste del mercato. Scriveva l’economista napoletano:

Antonio Genovesi (1713-1769)
Antonio Genovesi (1713-1769)

La ragione di tal principio è di per se chiara: imperciocché è manifesto, che le ricchezze di una Nazione sieno sempre in ragion della somma delle fatiche. Di qui segue, che quanto è minore il numero degli uomini che non rendono, tanto essendo maggiore quello di coloro che rendono, maggiore ancora debba essere la somma delle fatiche e conseguentemente maggiori le rendite della Nazione. E per contrario, quanto è maggiore il numero di quei che non rendono, tanto è minore la somma delle fatiche; e perciò delle rendite così private come pubbliche” (A. Genovesi, Lezioni di commercio, Venezia 1769, pp.165-166).

Per Genovesi occorreva ridurre tutte le classi che non rendevano a partire dai dotti i quali, a suo giudizio, non producevano con il loro lavoro una rendita immediata. Si trattava di una posizione per nulla isolata se pensiamo che Adam Smith, pochi anni dopo, avrebbe affermato addirittura che le classi dotte “non producono valore veruno”.

Genovesi aveva visto giusto quando affermava che il lavoro fosse importante nel favorire la ricchezza delle nazioni. Eppure, a ben vedere, non è una condizione sufficiente. Altrimenti non si spiega la differenza tra i paesi economicamente avanzati che continuano a produrre ricchezza nonostante alti tassi di disoccupazione e, viceversa, paesi in via di sviluppo ove il lavoro non aiuta i cittadini ad uscire dalla povertà. Teniamo presente che in questi paesi gli stipendi sono inferiori ai due dollari giornalieri. Il lavoro in sé quindi non basta a rendere ricca una Nazione.

Carlo_Cattaneo
Carlo Cattaneo (1801-1869)

Il grande intellettuale e storico milanese Carlo Cattaneo fu uno dei primi a capire il nesso che lega la qualità del lavoro alla ricchezza di un paese. A rendere ricca una nazione non basta la somma delle fatiche. Occorrono per Cattaneo due altre condizioni: la prima riguarda la presenza nel tessuto sociale del maggior numero di persone capaci di avere “un’intelligenza creativa”, quell’intelligenza che rende possibili le scoperte scientifiche e le invenzioni tecnologiche. La seconda condizione è la libertà d’impresa: questa consente di passare dalla teoria alla pratica, di realizzare i prodotti più avanzati. In altre parole, di dare libero sfogo alla volontà individuale.

Veniamo alla prima condizione: l’intelligenza creativa. Le scuole e l’università contribuiscono certamente a stimolarla. Oggi però non bastano. Esse devono cambiare e devono farlo in profondità. Non possono basarsi su un sapere prettamente nozionistico. In fondo, i maggiori inventori non furono uomini colti e neppure eruditi. Cattaneo ci dice che da quando l’uomo comparve sulla terra – ben prima quindi che esistessero le scuole e le università – il progresso è dipeso dalle menti acute, rapide nel conoscere, nello sfruttare i risultati di una scoperta per inventare una tecnica o un oggetto che fosse in grado di rispondere meglio e prima di altri ai bisogni della comunità.

In un saggio memorabile pubblicato sulla rivista “Il Politecnico” nel 1861 intitolato Del pensiero come principio di economia pubblica, Cattaneo scriveva:

non fu il più dotto pensatore del suo secolo che raccolse nei selvaggi prati dell’Asia il primo grano di frumento e lo ripose entro terra col proposito di vederlo ripullulare; né quello che saltò per primo sul dorso di un cavallo; o si trovò d’aver indurato col foco la sottoposta argilla…tutte le invenzioni furono atti d’intelligenza scaturiti in menti sagacissime dall’immediata osservazione dei singoli fatti e non da deduzione scientifica”.

Va bene Gabriele. Bello questo discorso sulle invenzioni. Ma alla fine come può l’Italia tornare a crescere?

Riprendendo il pensiero di Cattaneo, la soluzione risiede a mio parere nel connubio tra libertà e istituzioni. Alle istituzioni – pubbliche e private – spetta il compito di istituire scuole che sappiano formare i ragazzi stimolando le menti alla conoscenza produttiva, a una conoscenza che non sia mera erudizione. Cattaneo ci dice che la trasmissione dei saperi in campo umanistico e scientifico deve essere costantemente piegata ai bisogni di una società in perenne trasformazione. Tradotto nel mondo di oggi. Le nostre scuole, per essere produttive, dovrebbero essere finanziate da imprese che riscuotono un successo mondiale nella produzione e nella vendita dei prodotti Made in Italy. In questo modo i giovani imparano a lavorare, ad innovare nei campi in cui le imprese italiane hanno raggiunto livelli di eccellenza senza perdere tempo.

In fondo, si tratterebbe di recuperare il modello d’insegnamento tipico della Società d’incoraggiamento di arti e mestieri – l’istituto lombardo di cui Cattaneo fu segretario generale per alcuni anni – ove i giovani non solo assistevano alle lezioni dei professori, ma imparavano un mestiere secondo le tecniche più avanzate per la società di allora. Solo in questo modo i giovani, formati in una scuola che sappia fondere in modo armonico il sapere umanistico con quello scientifico, possono liberare la loro creatività contribuendo a rafforzare il successo del Made in Italy nel mondo.

Le maggiori scoperte scientifiche – ci ricorda Cattaneo – sono avvenute non già perché una persona fosse più colta di un’altra. La persona di successo è quella che ha saputo mettere a frutto il suo patrimonio di conoscenze selezionando i dati culturali che gli servivano per realizzare il progetto vincente.

Steve Jobs non era una cima nel campo degli studi. Difatti non terminò l’università. Perché ha fatto fortuna? Perché è diventato ricco? Il merito di Jobs fu di aver realizzato un personal computer dotato di una grafica che per la prima volta era assai più bella e sviluppata rispetto agli altri pc. I caratteri del Mac erano avanti anni luce rispetto agli altri calcolatori. Questo – ci direbbe Cattaneo – fu l’atto dell’intelligenza di Jobs. Come fu reso possibile questo atto d’intelligenza? La ragione sta tutta nella cultura cognitiva di Jobs. Fu la frequentazione di un corso di calligrafia a suscitargli l’amore per i caratteri ben disegnati. Nel celebre discorso tenuto ai neolaureati dell’Università di Stanford nel 2005, l’inventore del Mac disse:

Steve Jobs (1955-2011)
Steve Jobs (1955-2011)

Il Reed College a quel tempo offriva probabilmente i migliori corsi di calligrafia del paese…ho imparato dei caratteri serif e sans serif, a come variare la spaziatura tra differenti combinazioni di lettere, e che cosa rende la migliore tipografia così grande. Era bellissimo, antico e così artisticamente delicato che la scienza non avrebbe potuto ‘catturarlo’, e trovavo ciò affascinante. Nulla di tutto questo sembrava avere speranza di applicazione pratica nella mia vita, ma dieci anni dopo, quando stavamo progettando il primo computer Machintosh, mi tornò utile. Progettammo così il Mac: era il primo computer dalla bella tipografia. Se non avessi abbandonato gli studi, il Mac non avrebbe avuto multipli caratteri e font spazialmente proporzionate”.

Jobs non ci dice nulla sugli insegnanti che ebbe a quel corso di calligrafia ma è evidente che se un pessimo docente avesse tenuto le lezioni, la passione di Jobs per la bellezza dei caratteri non sarebbe germinata così facilmente.

Ma veniamo al secondo termine del connubio: libertà. Cattaneo ci ricorda che le società più ricche sono quelle in cui i poteri pubblici riconoscono ed incoraggiano la libera iniziativa dei cittadini abbassando la tassazione sul lavoro. Le imposte troppo alte infatti, “accrescendo li attriti che stancano l’industria, rallentano la pubblica prosperità in quanto essa scaturisce dalla volontà”.

Se pensiamo alle imprese italiane che resistono alla crisi e continuano ad eccellere nel design, nella moda, nell’alimentazione, la lezione da trarre potrebbe essere questa: solo libertà d’impresa e una scuola piegata all’innovazione ci consentiranno di riprendere a volare e a volare alto. Questi i due compiti che spettano al governo: liberare le imprese dai lacci della burocrazia e dal peso della tassazione; investire nella ricerca e nella formazione scientifica riformando in profondità le istituzioni scolastiche e universitarie.

I milanesi dell’Ottocento visti da due stranieri d’eccezione

Nel diciannovesimo secolo Milano attirava i viaggiatori d’Oltralpe per il suo fascino discreto, quasi nascosto. Stendhal, che la visitò nel primo Ottocento, se ne innamorò perdutamente. Come avviene tuttora a larghissima parte dei turisti, il Duomo destò in lui un’ammirazione sconfinata.

Henry Beyle Stendhal (1783-1842) da www.greatthoughtstreasury.com
Henry Beyle Stendhal (1783-1842) da www.greatthoughtstreasury.com

Ricordiamo però Stendhal anche perché fu un attento osservatore degli usi e dei costumi milanesi. Lo scrittore francese ricordava ad esempio la consuetudine di camminare nel tempo libero sui Bastioni di Porta Renza (Bastioni di Porta Orientale) perché vi si godeva un panorama spettacolare sulle montagne lombarde. Noi oggi facciamo fatica a capire come una strada sopraelevata su cui sfrecciano macchine, moto e motorini potesse costituire una meta di svago per i milanesi dell’Ottocento. Dobbiamo però considerare che a quei tempi le cose erano molto diverse da oggi: Milano aveva una popolazione di 130.000 abitanti e il suo territorio non oltrepassava la cinta delle mura spagnole. Insomma, era più una cittadina che una metropoli.

All’esterno il panorama era dominato da una campagna intervallata da cascine e da basse case rurali; non esistevano i palazzoni che vediamo oggi. Pensate che il Duomo era visibile anche a chi si fosse trovato a una distanza di 20 chilometri da Milano.

La nostra strada sopraelevata, piena di traffico e di smog, era allora un bel viale alberato che collegava i Bastioni di Porta Venezia con i Bastioni di Porta Nuova e di Porta Comasina per terminare all’Arena Civica vicino al Castello Sforzesco. Un corso frequentato nel periodo estivo dalla ricca borghesia e dalla nobiltà. Scriveva Stendhal a proposito di Milano in Rome, Naples et Florence:

D’estate, dopo il pranzo, al tramonto, all’Ave Maria, come si dice qui, tutte le carrozze della città si recano al “Bastion di Porta Rense”, che si eleva di trenta piedi sopra alla pianura. Vista di là, la campagna assomiglia a una foresta impenetrabile, ma di là da essa si scorgono le Alpi con le cime ricoperte di neve. E’ uno dei panorami più belli che possa rallegrare la vista….lo spettacolo è bello; ma non è per goderselo che tutte le carrozze sostano per una mezz’ora sul Corso. Si tratta di una specie di parata della buona società”.

Mark Twain, altro turista d’eccezione che visitò Milano nel 1867, ci ha lasciato un ritratto divertente dei milanesi. Ma prima di dare la parola al nostro simpatico americano domandiamoci: questi milanesi…. come passano oggi il tempo libero dopo il lavoro? La risposta è semplice e si riassume in una parola: aperitivo.  Verso le 18.30-19 le vie si popolano di giovani. Da Porta Ticinese ai Navigli, da Brera al Castello, da Porta Genova a Porta Garibaldi trovi una selva di locali in cui trascorrere il tempo con gli amici. L’aperitivo funziona così: ordini un cocktail e hai libero accesso alle fantasie della gola. In quei momenti puoi mangiare a volontà attingendo a un buffet che, se hai scelto il locale giusto, è ricco di cibi gustosi e prelibati.

A quel tempo l’aperitivo non esisteva ma Twain, l’americano Twain, nella sua opera The Innocents Abroad pubblicata nel 1869, ci dice che i milanesi si divertivano comunque a modo loro. Egli ravvisava nel senso della vita spensierato, lontano dalle ansie del lavoro, una differenza abissale rispetto ai ritmi della società americana. Lo scrittore definiva curiosamente “europeo” questo stile di vita.

In America siamo sempre di fretta, che è un bene, ma quando la giornata di lavoro è finita, continuiamo a pensare ai guadagni e alle perdite, facciamo i programmi per il giorno successivo, ci portiamo perfino a letto il pensiero degli affari, e ci giriamo e rigiriamo preoccupati, quando invece dovremmo ristorare col sonno il nostro corpo e la nostra mente tormentati…

Marc Twan (1835-1910) da www.thefamouspeople.com
Mark Twain (1835-1910) da www.thefamouspeople.com

Invidio questi europei per la comodità che si prendono. Una volta che la giornata di lavoro è finita, se la dimenticano. Alcuni vanno con mogli e figli in qualche locale, si siedono tranquilli a bere un boccale o due di birra, ascoltando la musica; altri passeggiano per strada, altri ancora vanno in carrozza lungo i viali; ci sono quelli che si riuniscono nelle grandi piazze sul far della sera, per godere della vista e della fragranza dei fiori e per ascoltare le bande militari…e ancora ci sono quelli del popolo che si siedono all’aria aperta, di fronte ai caffè, mangiano gelati e bevono bevande leggere, che non farebbero male ad un bambino. Vanno a letto abbastanza presto e dormono della grossa. Sono sempre tranquilli, ordinati, allegri, comodi e amanti della vita in tutte le sue multiformi manifestazioni.

I milanesi di Twain sembrano molto diversi da quelli di oggi. E’ probabile che lo scrittore americano si fosse servito di loro per stigmatizzare gli americani del suo tempo. Eppure, se visitasse Milano al giorno d’oggi, Twain probabilmente troverebbe molto spirito americano sotto la Madonnina.

Milano: vetrina del “Made in Italy”

Expo 2015Nei prossimi mesi a Milano accorreranno tanti stranieri per visitare Expo 2015, la grande Esposizione internazionale dedicata al tema dell’alimentazione. Quali saranno le loro mete? In quali ristoranti andranno? Quali locali attireranno la loro curiosità? Soprattutto: quale impressione avranno dei milanesi e più in generale degli italiani con cui entreranno in contatto negli alberghi, nei negozi, nelle piazze, nei ristoranti della nostra città? Non sono domande scontate perché dal modo con cui i milanesi sapranno accogliere i visitatori dipenderà il successo dell’iniziativa.

In fondo la partita di Milano con Expo non si gioca sul terreno della cultura, della storia o del paesaggio. Milano offre molto in questo campo, a partire dal Duomo. Eppure, pensateci bene: non è questo il suo punto di forza. Ci sono tante città italiane che hanno molto di più. Pensate a Firenze, a Roma, a Venezia, a Napoli, a Palermo: vogliamo forse paragonare il Colosseo, i Musei Vaticani o piazza di Spagna alle Colonne di San Lorenzo, alla Pinacoteca di Brera o all’Arco della Pace? E gli Uffizi sono forse avvicinabili alle Gallerie d’Italia, la prestigiosa collezione di dipinti resa accessibile al pubblico da Intesa San Paolo in tre palazzi storici milanesi? I navigli possono forse reggere il confronto con i canali di Venezia? Un tempo sì, quando Milano con il suo naviglio in centro era il luogo di confluenza tra le acque dell’Adda e quelle del Ticino portate dal naviglio martesana e dal naviglio grande. Oggi non più.

Ue Gabriele!! Come puoi svilire in questo modo la tua città?

Non sto svilendo Milano. Noi milanesi possiamo batterci ancora per rendere la città più attraente sotto il profilo paesaggistico. I progetti non mancano. Al momento la situazione è però quella che ho accennato sopra. Che fare allora? Dove stanno i punti di forza di Milano?

Vinceremo la partita se saremo capaci di attirare il pubblico su un binario diverso rispetto a quello storico culturale. Il binario dell’arte e della cultura è importante ma non può essere l’unico. Il segreto del successo risiede anche nell’innovazione, nella capacità di progettare il futuro con creatività. Questo discorso – come accennavo sopra – vale per l’Italia nel suo complesso. In altre parole: il binario dell’identità storica potrà avere un senso solo se sapremo “appaiarlo” al binario dell’innovazione.

Armani Hotel di Milano
Armani Hotel in via Manzoni 31 da www.artribune.com

Il punto di forza di Milano risiede precisamente in questo: nella sua capacità di innovare, di aprirsi al mondo. E’ la città in cui l’atmosfera internazionale è per così dire vivificata dalle concrete esigenze del lavoro. Qui operano i maggiori marchi della moda. Qui il design trova il suo habitat naturale: il salone del mobile, che si tiene in primavera, attira ogni anno migliaia di visitatori che chiedono di essere aggiornati sulle novità più importanti nel campo dell’arredamento.

Milano, diversamente da Firenze, Roma, Venezia, deve guadagnarsi i turisti con il sudore della fronte. Non può affidarsi soltanto alla rendita del patrimonio artistico e culturale. Certo, la città ha monumenti e musei ma sono pochi e non all’altezza di una città d’arte. Perché venire a Milano allora? Perché qui l’ingegno degli italiani si esprime al massimo grado: tanti giovani aprono locali, inventano nuovi spazi, tentano con coraggio la strada del successo nei campi più svariati.

Nelle vie di Milano i turisti scoprono locali che presentano al massimo grado l’arte italiana in cucina. Michelangelo diceva: “La scultura la si ha nella mente prima che nelle mani”. La cucina italiana presenta una filosofia simile. E’ creativa perché sono i cuochi italiani a renderla tale. E’ varia: la cucina piemontese, lombarda, emiliana, romagnola, veneta, toscana, romana, napoletana, siciliana, sarda hanno ciascuna una nota inconfondibile. Ognuna ha i suoi piatti, i suoi vini particolari. A Milano hanno sede tanti locali e ristoranti gestiti da imprenditori del gusto che non sono milanesi ma trovano qui il luogo ideale per farsi conoscere. Molti hanno successo perché offrono una cucina di qualità che mostra un filo diretto con il territorio da cui provengono.

I piatti italiani sono davvero la sintesi del Made in Italy perché vengono preparati con creativa semplicità. Gli stranieri, in particolar modo gli anglosassoni, hanno sempre apprezzato il largo spazio che nella cucina del Belpaese è riservato agli erbaggi. Non è per caso se nel vocabolario americano e inglese sono tuttora citati i nomi originari di “broccoli” o “zucchini”.

Con Expo Milano sarà la vetrina del Made in Italy. E’ l’Italia come dovrebbe essere: aperta al progresso senza perdere la sua identità. Immaginazione e Tradizione: questi i binari che renderanno ancora possibile il successo del Made in Italy nella cucina, nella moda, nel design.

Un medico dimenticato: Giovanni Battista Monteggia

Il Policlinico di Milano, come ho accennato in un altro intervento, può essere considerato uno degli ospedali meglio gestiti della città. L’ingresso in via Francesco Sforza si apre su un vasto cortile all’aperto ove una strada consente l’accesso alle varie palazzine. Il padiglione Monteggia è dedicato all’assistenza di pazienti i cui casi sono riconducibili al campo delle neuroscienze. So già cosa state per dirmi:

Gabriele, vuoi forse farci una lezioncina sul reparto di neurochirurgia del Padiglione Monteggia?”.

Me ne guardo bene, anche perché non sono un medico né tantomeno un chirurgo. Desidero ricordare il Padiglione Monteggia perché si tratta, al giorno d’oggi, dell’unica struttura il cui nome ricorda un grande medico lombardo oggi praticamente sconosciuto: Giovanni Battista Monteggia. Ieri – guarda un po’ che coincidenza! – ricorreva il bicentenario della morte, avvenuta il 17 gennaio 1815.

Pietro Moscati
Pietro Moscati, primo direttore dell’Ospedale Maggiore (1785-1788)

Nato a Laveno sul Lago Maggiore nel 1762, Monteggia venne iscritto per volontà del padre alla scuola di chirurgia dell’Ospedale Maggiore di Milano, scuola che in quegli anni era stata inserita nel nuovo piano degli studi predisposto dal governo austriaco. In questo antico edificio Giovanni Battista svolse l’apprendistato sotto la guida di maestri come Pietro Moscati, che fu primo direttore della Cà Granda.

In quegli anni le professioni mediche – come tante altre professioni liberali – erano state oggetto di un vasto piano di riforma ad opera dello Stato austriaco. Prima di questi interventi, le professioni afferenti alla salute erano divise in “maggiori” e “minori” segnando una divaricazione tra professioni teoriche e professioni pratiche: le prime riservate ai nobili, le seconde a persone non nobili. Alle prime appartenevano i “medici fisici” o “medici filosofi”: formati nei collegi e nelle università, questi avevano ricevuto una formazione classica di tipo speculativo. Compiuta l’abilitazione presso medici anziani, erano chiamati a svolgere la professione in ambito per lo più privato, chiamati da famiglie nobili o da enti religiosi. Le loro teorie afferenti alla medicina interna restavano appunto teorie, legittimate da una tradizione secolare di studi secondo principi filosofici totalizzanti. Chiamati al capezzale dei loro illustri malati, i “medici fisici” non erano tenuti affatto a “sporcarsi le mani” perché l’intervento chirurgico era riservato alle professioni vili e meccaniche. Si limitavano a scrivere ricette o consulti la cui esecuzione spettava ai colleghi “minori”: chirurghi o farmacisti.

Gli speziali e i chirurghi appartenevano invece alle professioni “minori”: sprovvisti della formazione filosofica che i collegi riservavano alla nobiltà, il loro tirocinio si svolgeva sotto il controllo della rispettiva corporazione, a diretto contatto con i malati negli ospedali. In fondo, la loro figura assomigliava più a un infermiere che a un medico. Qualcuno potrebbe chiedersi per quale motivo vi fosse una tale separazione tra professioni maggiori e minori. Questo era dovuto ai principi della società d’ancien régime: la chiesa proibiva l’uso del ferro e del fuoco sul corpo umano, nonché la dissezione dei cadaveri; la nobiltà rifiutava invece di praticare lavori che implicassero l’uso delle mani, riconducendoli alle “arti vili e meccaniche”.

A metà Settecento la situazione era quindi la seguente: i nobili “medici fisici” pontificavano sulla scienza medica astenendosi dalle operazioni manuali e svolgendo un tirocinio limitato ai ristretti circoli del loro ceto; i chirurghi e i farmacisti operavano a diretto contatto con i malati, ma erano sprovvisti di una solida formazione teorica. A questa situazione il governo austriaco, negli ultimi anni di regno dell’imperatrice Maria Teresa, aveva posto rimedio con il piano del 29 ottobre 1770 in cui fu costituita una facoltà medica aperta ai non nobili, specializzata nelle varie discipline; nel 1774 venne emanato un Regolamento per la medicina e la chirurgia che, nel segnare la fine della divisione tra professioni maggiori e minori, sottoponeva gli istituti ospedalieri e assistenziali al controllo dello Stato. A un “regio direttorio” istituito dal governo spettava la funzione di abilitare medici, chirurghi e speziali. Le tre professioni erano poste ora sullo stesso piano. Grazie alla riforma nacque il modello della nuova professione medica: a una formazione teorica condotta sulla base degli studi più avanzati e aggiornati, essa univa una pratica sperimentale a diretto contatto con i malati. Nasceva la figura del medico-chirurgo cui apparteneva Monteggia.

Giovanni Battista Monteggia
Giovanni Battista Monteggia

Monteggia si specializzò non solo nell’anatomia, ma anche nella botanica e nelle scienze chimico-farmaceutiche. Nel 1781 superò l’esame di “libera pratica in chirurgia” all’Università di Pavia. Poco dopo conseguì la laurea in medicina. La sua prima pubblicazione scientifica risale al 1789: si tratta dei Fasciculi Pathologici, un’opera in latino che gli consentì di essere conosciuto presso il pubblico specialistico. Nominato nel 1790 chirurgo aiutante e incisore anatomico all’Ospedale Maggiore, Monteggia fu nominato l’anno successivo primo chirurgo nelle regie carceri.

Nel 1794 uscì la sua seconda pubblicazione: Annotazioni pratiche sulle malattie veneree. Era un’opera che, basandosi sul Compendio sopra le malattie veneree del tedesco Johann Friedrich Fritze, conteneva una casistica dei morbi che il Monteggia aveva potuto diagnosticare come medico a contatto con i carcerati. L’opera conteneva una netta presa di posizione a favore del “metodo browniano”, un sistema di cura assai discusso all’epoca. John Brown (1735-1788) riteneva che l’organismo, soggetto alla continua stimolazione dell’ambiente, si fondasse su un equilibrio tra eccitamento ed eccitabilità. La maggior parte delle malattie, rientrando nell’astenia, vale a dire nell’esaurimento delle forze, richiedeva secondo il Brown una cura a base di forti stimoli. Monteggia, aderendo alle teorie del Brown, riteneva che anche le malattie veneree rientrassero nei casi di astenia: nelle Annotazioni consigliava quindi di curare i pazienti con una pianta medicinale conosciuta per i suoi effetti particolarmente stimolanti: la “salsapariglia”. Il metodo di Brown fu poco diffuso nell’Inghilterra di fine Settecento e del primo Ottocento. Sollevò invece entusiasti ammiratori nel continente europeo. In realtà, ben presto fu dimostrato che quel sistema non solo era incapace di guarire i pazienti, ma si risolveva spesso in un peggioramento delle condizioni di salute con terapie intensive che, provocando disturbi nel sistema nervoso, causavano spesso la morte. Pochi anni dopo le Annotazioni del Monteggia, un canonico della cattedrale di Como, Giulio Cesare Gattoni, in un racconto pubblicato nel 1801 (Sogno nella notte vigesima sesta di Giugno poco prima dell’Aurora l’Anno mille ottocento uno dell’Era Cristiana, 1801) forniva un parere a dir poco negativo sul sistema di Brown: “Il solo sistema Browniano quante vittime non ha già sagrificato? Domandatelo a’ Becchini di Londra, che da soli muscoli del viso rattratti san distinguere que’ che finirono la vita per mano de’ Brownisti”.

Nel periodo rivoluzionario e napoleonico il Monteggia conseguì il vertice della sua carriera: in quegli anni insegnò Istituzioni di chirurgia all’Ospedale Maggiore. Tra le sue maggiori iniziative si ricordano le scuole speciali mediche che, attivate presso gli ospedali dello Stato napoleonico, furono decisive nella formazione di una equipe di giovani preparati. La sua simpatia per il regime napoleonico è provata dalle cure che fu chiamato a prestare a uno dei massimi esponenti del governo: Francesco Melzi d’Eril.

Istituzini chirurgiche
Le Istituzioni chirurgiche di Giovanni Battista Monteggia. Prima edizione del 1805

A quegli anni risale l’opera più importante, quella che lo rese celebre nell’ambiente scientifico. Tra il 1802 e il 1805 venne pubblicata la prima edizione delle Istituzioni chirurgiche, un testo che aveva scritto per i suoi studenti. Nella seconda edizione dell’opera, i cui otto volumi vennero pubblicati tra il 1813 e il 1816, l’autore si rivolse invece a un pubblico specialistico. In questo testo il Monteggia riservava largo spazio ai casi che aveva seguito negli anni come medico chirurgo. Le Istituzioni, se confermavano la predilezione dell’autore per la farmacologia, contenevano analisi per quei tempi assai avanzate: i lettori ad esempio avevano a disposizione uno dei primi studi clinici sulla poliomelite. Monteggia intendeva pubblicare una nuova edizione in latino affinché le sue analisi fossero conosciute in campo internazionale. Contava inoltre di pubblicare un nono volume per esporre i suoi risultati nel campo delle vaccinazioni e della farmacopea. La morte troncò però i suoi progetti. I milanesi gli dedicarono una lapide all’ingresso dell’Ospedale Maggiore – oggi Università degli Studi di Milano – andata purtroppo dispersa. Il poeta Carlo Porta lo ricordò in un bel sonetto in lingua milanese ove, nel rendere omaggio all’uomo di scienza, concludeva ironicamente che il pronto soccorso, sia pure condotto con mezzi a dir poco arcaici, restava il solo mezzo utile a salvare le vite dei malati:

Remirava con tutta devozion
vuna de sti mattinn in l’Ospedaa
el ritratt de Monteggia e l’iscrizion
che dis con pocch paroll tanc veritaa;
quan on tricch e tritracch sott al porton
el me presenta on asen mezz spellaa
ch’el fava on vòlt real cont el firon
per rampà sora in cort on ammalaa.
A sto pont tutt l’amor per la virtù
ch’el me ispirava quell dottor de sass
l’è andaa in fond di calcagn lu de per lu.
E ho vist infin che i sciori no gh’han tort
quand se disen tra lor per confortass
che var pù on asen viv che on dottor mort.

Traduzione:

“Rimiravo con tutta devozione, una di queste mattine all’Ospedale Maggiore, il ritratto del Monteggia e l’iscrizione che dice in poche parole tante verità; quando un tricch e tritracch sotto il portone d’ingresso mi presenta un asino mezzo spellato che con le reni faceva una volta reale per salire la ripida rampa e portare in cortile un ammalato. A questo punto tutto l’amore per la virtù che m’ispirava quel dottore ricordato nella lapide di pietra, è andato da solo sotto i piedi. E ho visto alla fine che i ricchi signori non hanno torto quando dicono tra di loro, così per confortarsi, che vale più un asino vivo che un dottore morto”.

La “seconda antenata di Expo”: l’Esposizione del 1906

Come anticipato nell’articolo precedente, dedico questo breve intervento a quella che possiamo considerare la seconda antenata di Expo: l’Esposizione Internazionale del 1906.

Qual era la situazione di Milano al principio del Novecento? In fondo, il periodo compreso tra l’Esposizione del 1881 e quella del 1906 fu caratterizzato da un profondo mutamento urbanistico; tale mutamento investì i quartieri del centro, abbandonati progressivamente dalle classi popolari per divenire spazi esclusivi ove operavano le maggiori istituzioni finanziarie e civili del paese. Inoltre, in questo periodo il centro divenne residenza di una ricca borghesia industriale che subentrò in molti casi alla nobiltà cittadina nella proprietà di palazzi prestigiosi a due passi dal Duomo.

Il mutamento più significativo investì però il complesso della popolazione milanese. Nel giro di quarant’anni la città raddoppiò gli abitanti: nel 1861 Milano contava 242.869 cittadini, nel 1901 erano divenuti 491.460. Nuovi quartieri sorsero a fine Ottocento. Intere zone vennero ridisegnate. In una città che andava lentamente trasformandosi nella metropoli moderna che noi conosciamo, l’Esposizione del 1906 ebbe un significato cruciale, collegandosi al tema del progresso nel campo dei trasporti. Non fu un caso se l’evento venne allestito in concomitanza con l’apertura del traforo del Sempione, avvenuta il primo giugno di quell’anno.

Esposizione 1906 ticketL’Esposizione, tenutasi dal 28 aprile all’11 novembre, si collega assai bene con Expo 2015 per il suo carattere internazionale: vi parteciparono 40 Paesi, i cui padiglioni vennero sistemati in due zone corrispondenti pressappoco all’attuale parco Sempione e all’ex piazza d’armi ove, a partire dal 1923, sarebbe stata costituita la Fiera. Una ferrovia sopraelevata consentiva il libero accesso dei visitatori alle due aree. Il sito si estendeva su una superficie di un milione di metri quadrati. I padiglioni furono 225. I visitatori raggiunsero la soglia dei 5 milioni e mezzo.

Se guardiamo al principio guida che ispirò gli organizzatori, ravvisiamo però una differenza rispetto all’Esposizione del 1881. Più che una rassegna dei prodotti più avanzati nel campo dell’industria, l’esposizione novecentesca rivelò un’attenzione alle ricadute sociali del moderno lavoro di fabbrica. Il benessere e la sicurezza dei lavoratori erano in quegli anni un tema centrale delle politiche condotte dai governi europei.

Galleria del Lavoro
Il Padiglione “Galleria del lavoro” all’Esposizione del 1906 da www.lombardiabeniculturali.it

Del tutto indicativo, a tal proposito, il padiglione “Galleria del Lavoro” ove era possibile assistere al “lavoro in azione”, come ricordavano i documenti dell’epoca. La condizione degli operai italiani era migliorata rispetto a fine Ottocento. Gli storici hanno dimostrato che tra il 1901 e il 1913 i salari erano cresciuti del 26%, mentre il reddito era aumentato del 17%. Un operaio specializzato poteva guadagnare fino a 5 lire giornaliere. In un giornale del 1912 si leggeva: “L’operaio moderno non è più quello di un tempo poiché ama le proprie comodità, non abita più in un tugurio indecente, veste più pulito, ha la bicicletta, compera il giornale”. Si trattava di una rivista pubblicata dall’associazione dei tipografi, che a quel tempo erano gli operai meglio pagati della città. La situazione descritta nel giornale era fin troppo ottimistica e non valeva certamente per la maggioranza dei lavoratori che versavano in estrema povertà. Come testimoniavano le inchieste della Società Umanitaria, gli operai non potevano contare su un’alimentazione adeguata ai ritmi di lavoro. Persone che lavoravano dieci ore al giorno mangiavano cibo carente di proteine e non potevano permettersi il consumo di carne.

Senatore Giovanni Silvestri festeggia vittoria alle Mille Miglia
Il Senatore Giovanni Silvestri (al centro)  festeggia con piloti e meccanici la vittoria della sua O.M. alla prima Mille Miglia del 1927

Tornando all’Esposizione del 1906, il contributo degli industriali milanesi fu notevole. Nel Comitato organizzativo troviamo ad esempio Giovanni Silvestri (1858-1940). Il padre aveva assunto un ruolo di primo piano alla Comi Grandoni e C, poi divenuta Miani e Silvestri. Giovanni proseguì l’attività paterna: presidente del Consiglio di amministrazione, rivestì tale carica anche negli anni successivi, quando l’azienda si trasformò nelle celebri “Officine Meccaniche” (O.M.) i cui stabilimenti, situati fuori Porta Vigentina, erano attivi nel comparto ferroviario producendo carrozze, vagoni, locomotive, rotaie. Inoltre la fabbrica O.M. si fece conoscere per aver realizzato i primi esemplari di automobile, un’attività che le avrebbe procurato una certa fama nei primi decenni del Novecento.

Ettore Ponti (1855-1919)
Ettore Ponti (1855-1919)

Un’altra personalità che fece di tutto per assicurare il successo all’Esposizione del 1906 fu il sindaco Ettore Ponti, figlio dell’industriale tessile Andrea, titolare del Canapificio e Linificio Nazionale. Uomo moderato, colto, di specchiata onestà, animato da un sentimento di sincero amore per la cittadinanza, Ponti preparò con cura l’evento lavorando attentamente alla disposizione dei padiglioni. Questo sindaco liberale va ricordato per tante altre opere a sostegno di Milano. A lui dobbiamo il primo piano regolatore elaborato in funzione di una metropoli quale Milano si avviava a divenire. Il sindaco fondò un ente per la costruzione delle case popolari affinché i tanti cittadini giunti a Milano per ragioni di lavoro potessero trovare una sistemazione nel territorio del comune; Ponti realizzò per primo la pavimentazione delle strade utilizzando il catrame per la copertura dei marciapiedi; costituì l’Azienda elettrica municipale (AEM) perché le case dei milanesi potessero essere illuminate in linea con gli standard più avanzati all’epoca. Introdusse i taxi a Milano, fondò la Biblioteca Civica. Nel corso di un ricevimento organizzato nella sua casa di via Bigli, il Ponti venne insignito del titolo di “marchese” dal re Vittorio Emanuele III, che volle in tal modo premiare l’impegno straordinario profuso dal sindaco nell’allestimento dell’Esposizione internazionale.

La prima ‘antenata’ di Expo 2015: l’Esposizione del 1881

Dal primo maggio al 21 ottobre 2015 si terrà a Milano l’Esposizione Universale dedicata al tema dell’alimentazione e della nutrizione. I paesi che prenderanno parte a questo evento avranno il compito di mostrare come intenderanno far fronte nei prossimi anni al problema dell’alimentazione mediante una gestione del territorio che sia sostenibile per le generazioni future. L’area in cui avrà luogo l’esposizione, larga 1,1 milioni di metri quadrati, si trova a Nord di Milano. E’ prevista un’affluenza di venti milioni di visitatori.

La struttura del sito dell’esposizione riflette l’antica conformazione delle città romane. La via più lunga, il Decumano, si sviluppa in direzione est-ovest per una lunghezza pari a un chilometro e mezzo: attorno ad essa si troveranno i padiglioni dei 130 Paesi che parteciperanno ad Expo. Nelle intenzioni dei promotori, tale asse viario dovrebbe congiungere idealmente il luogo della produzione di cibo (la campagna) con quello della sua consumazione (la città). Sul Cardo, che ha una lunghezza di 350 metri in direzione Nord-Sud, saranno disposti invece i padiglioni del paese ospitante: l’Italia. A nord sorgeranno strutture tese a rappresentare i diversi territori della penisola, a sud si troveranno le aziende del Made in Italy, che hanno saputo rispondere al tema dell’alimentazione e della sostenibilità assicurando ai loro prodotti livelli di eccellenza.

Non è la prima volta che Milano è sede di una Esposizione, anche se questa volta si tratta di un evento allestito per così dire alle porte della città. Il Comune ambrosiano ha vissuto in passato due esposizioni che hanno segnato profondamente la sua storia e che possono ragionevolmente essere avvicinate ad Expo 2015.

In questo post accennerò all’Esposizione Industriale del 1881 perché si lega assai bene al tema delle imprese Made in Italy.  Per ragioni di spazio, dedicherò invece a un altro intervento il tema dell’Esposizione Internazionale del 1906….quindi per dirla all’inglese…stay tuned!!! 

Diversamente da Expo, l’Esposizione del 1881 era ristretta all’Italia. Finanziata dalla Camera di Commercio di Milano, essa mostrò ai cittadini quali fossero i progressi dell’industria nazionale a vent’anni dall’Unità. Un milione e mezzo di visitatori accorsero all’Esposizione, i cui padiglioni furono allestiti nei giardini di Porta Venezia, nell’attuale via Marina e nella villa reale di via Palestro. Ho detto che si trattava di un’iniziativa a carattere nazionale. Essa coinvolse un numero cospicuo di imprese milanesi e lombarde, la cui presenza sul totale degli espositori era pari al 40%.

Notevole per quell’epoca il livello tecnologico raggiunto dai grandi cotonifici: la Cantoni (420 telai), la Crespi (200) e la ditta dei fratelli Borghi (300) mostrarono i progressi nell’integrazione tra filatura e tessitura in una struttura che aveva interamente meccanizzato le fasi di produzione. Inoltre si facevano notare aziende che, quantunque avessero dimensioni più contenute, lasciavano intuire già in quegli anni i futuri sviluppi di eccellenza: i Legler di Ponte San Pietro, i Krumm di Carate Brianza, i Caprotti di Ponte Albiate, i Turati e i Dell’Acqua di Milano che avevano stabilimenti a Busto Arsizio e a Legnano.

Ma a colpire i visitatori furono soprattutto i padiglioni del settore meccanico, ove per la prima volta facevano bella figura macchinari Made in Italy. Tra le aziende presenti c’era ad esempio la Cerimedo (che di lì a poco avrebbe dato i natali alla Breda) specializzata nella produzione di motrici per tram; la Grondona attiva nel comparto delle carrozze e vagoni ferroviari; la Krumm e C. di Legnano che nel dicembre di quell’anno avrebbe mutato la denominazione in Franco Tosi: attiva nella produzione di macchine tessili, tale azienda si andava specializzando nelle motrici e nelle caldaie a vapore.

Il livello tecnologico conseguito dall’industria nazionale dovette colpire notevolmente il milione e mezzo di visitatori accorsi a Milano dal 6 maggio al primo novembre del 1881. Anche gli stranieri non fecero mancare la loro presenza, incuriositi da una iniziativa che consentiva loro di toccare con mano il progresso dell’industria italiana. Un giornalista tedesco del “Berliner Tageblatt”, giunto a Milano per assistere all’evento, non poté trattenere l’entusiasmo per la buona riuscita dell’Esposizione. Nella sezione Mailander Austellungsbriefe scrisse:

“Se Cavour vedesse oggi Milano egli si darebbe una di quelle storiche fregatine di mano che indicavano qualche successo italiano, e direbbe: l’Italia che fu chiamata per lungo tempo terra dei morti, oggi mostra che è il paese dei vivi. L’Esposizione è un’opera imponente, compiuta dall’orgoglio coraggioso e dall’audace spirito d’iniziativa dei cittadini milanesi. Essi possono anche questa volta dire, francamente, che la loro città ha diritto di chiamarsi la capitale morale d’Italia”.

Due associazioni d’élite nella Milano della Restaurazione

Nell’articolo precedente abbiamo visto come nella Milano di fine Ottocento il fenomeno delle associazioni avesse assunto una dimensione ragguardevole grazie alla libertà di riunione garantita dallo Statuto Albertino. Abbiamo anche notato come quelle associazioni fossero in larga parte una realtà borghese o piccolo borghese.

Ingresso di Francesco I nel 1825 da Porta Orientale
Ingresso dell’imperatore d’Austria Francesco I da Porta Orientale, 1825. Fonte: Wikipedia.

La situazione era completamente diversa nella Milano della Restaurazione, quando la città a partire dal maggio 1814 tornò sotto il dominio dell’impero asburgico. Non dobbiamo pensare che l’Austria avesse soffocato d’improvviso lo spirito associativo lombardo. Esso giaceva in uno stato di “mortale languore” già negli anni della repubblica italiana e del regno d’Italia napoleonico (1802-1814) quando lo Stato, retto su una Costituzione autoritaria, aveva sottoposto a rigida tutela il mondo delle società. Difatti, il decreto 130 emanato il 27 dicembre 1802 dal ministro dell’interno vincolava all’autorizzazione del governo qualsiasi tipo di associazione: ottenere il permesso non era semplice giacché occorreva trasmettere allo Stato “il piano dell’associazione colla specificazione degli oggetti e regolamenti rispettivi”. Il decreto stabiliva poi che un “delegato di polizia” avrebbe avuto accesso alle riunioni affinché le autorità potessero sorvegliare l’attività del sodalizio. Ho citato il decreto del 1802 perché esso regolò il mondo delle associazioni milanesi sostanzialmente fino all’Unità d’Italia. L’Austria non apportò cambiamenti. Si limitò a confermare il dettato della normativa esistente. Nulla di cui stupirci: l’impero asburgico era una monarchia il cui regime autoritario era pari a quello napoleonico, sia pure mitigato da alcuni istituti di autogoverno comunale e di rappresentanza corporativa che il Sovrano aveva graziosamente concesso al Lombardo Veneto.

Ma quante erano le associazioni nella Milano della Restaurazione, negli anni immediatamente seguenti alla caduta di Napoleone (1815-1821)? Assai poche. Basterebbero le dita di una mano per contarle tutte. Esse interessavano una ristretta élite composta di aristocratici e di personalità appartenenti all’alta borghesia cittadina. Ci soffermeremo sulle due più importanti, il Casino dei Nobili e la Società del Giardino.

Palazzo Talenti Fiorenza in via Verdi 6
Palazzo Talenti Fiorenza in via Verdi 6  da www.lombardiabeniculturali.it

Il Casino dei Nobili si trovava nel palazzo Talenti Fiorenza nella contrada di San Giuseppe al civico 1602 (oggi via Verdi 6), a due passi dal Teatro alla Scala. Sorto nel 1800, il sodalizio nasceva per riunire la nobiltà in un luogo esclusivo di ricreazione. Il che lascerebbe presupporre che l’unica condizione per farvi parte fosse la nobiltà di sangue. In realtà le cose non stavano esattamente così. Difatti per accedervi occorreva disporre dell’Hofzutritt, vale a dire dell’accesso alla corte imperiale. Non tutti i nobili potevano godere di questo privilegio. V’era poi un altro requisito: le persone di sangue blu dovevano disporre di un notevole patrimonio per pagare le quote associative, piuttosto alte. Se il richiedente non era in grado di pagare, non era ammesso. Si trattava di un criterio censitario che, a ben vedere, non aveva nulla da spartire con le logiche corporative della società d’ancien régime: logiche in base alle quali un individuo non contava per la sua ricchezza o per la capacità di produrre beni materiali, ma godeva dei diritti legati alla funzione che il suo ceto di appartenenza rivestiva nella società. La Rivoluzione francese aveva segnato il crollo di quel mondo e, nonostante le apparenze, i nobili che avevano aderito al Casino mostrarono di accettare il nuovo principio della società civile a matrice individualistica. Dando vita a questa società sul modello della società per azioni, essi accolsero la logica – tutta borghese – del diritto a godere di un servizio per il quale una persona, agendo di sua libera iniziativa, aveva scelto di pagare versando una quota in denaro.

Palazzo Spinola, Sala d'Oro
Palazzo Spinola in via San Paolo 10, Sala d’Oro.

Diversamente dai nobili, il cui casino si era eclissato già negli anni Cinquanta dell’Ottocento, la Società del Giardino esiste ancora oggi. Si tratta del sodalizio più antico di Milano, la cui fondazione risale agli anni Ottanta del XVIII secolo. A farne parte erano i più alti esponenti della borghesia del commercio e delle professioni. Nel periodo che ci interessa esso attraversava una stagione di splendore: l’acquisto nel 1818 del palazzo Spinola in contrada San Paolo al civico 935 (oggi via San Paolo 10) conferì alla Società del Giardino una certa fama. Vi si tenevano riunioni culturali, ma anche concerti alla presenza di star dell’epoca quali Giuseppina Grassini e Giuditta Pasta. Anche in questo caso si trattava però di una società d’élite. Ce lo indicano le elevate quote di associazione.

In una città popolata da 120.000 abitanti, il fenomeno associativo riguardava alcune centinaia di persone, pari allo 0,5% dei milanesi. Qualcuno potrebbe chiedersi cosa spingesse questi ricchi esponenti del notabilato a riunirsi in tali società. Era così importante ritrovarsi in un locale per giocare a biliardo, fumare sigari, assistere a lezioni di cultura, ascoltare la voce di cantanti famose oppure questi tranquilli sodalizi nascondevano una finalità politica? La domanda non è affatto fuori luogo perché in Inghilterra e in Germania molte associazioni di questo tipo preoccupavano le autorità per le attività cospirative che vi si conducevano.

Tranquilli: nulla di cui preoccuparsi per i sodalizi milanesi, sorti – sembrerebbe di poter dire – con il solo obiettivo di passare il tempo in allegria. Ce lo assicura un funzionario della polizia austriaca, Anton Raab,in una relazione al governatore della Lombardia Franz Saurau risalente al 1817:

“I casini italiani sono cose diverse dai circoli tedeschi o inglesi, che sono in realtà riunioni politiche, pericolose e tumultuose. In Italia non è d’uso ricevere in casa la sera in grande stile, né esiste una socialità familiare allargata. Per questo vengono istituiti i casini; per divertirsi la sera senza vincoli. Nei casini si scherza, si gioca, talvolta si fuma, e ci si intrattiene come meglio si crede. I casini sono luoghi d’espressione della voglia di scherzare, così tipica del carattere degli italiani”.

La Società Svizzera: astro dell’associazionismo milanese di fine ‘800

Negli anni Ottanta del XIX secolo Milano vide il fiorire di molte associazioni attive nel campo della cultura, dello sport, della scienza. Questo fenomeno fu dovuto sostanzialmente a due ragioni. La prima si legava alla libertà di associazione garantita dall’articolo 32 dello Statuto Albertino, la Costituzione del Regno d’Italia sabaudo estesa alla Lombardia nel 1859: esso riconosceva il diritto di riunione in luoghi chiusi anche se questo era vincolato alla preventiva autorizzazione del governo. I milanesi poterono disporre in tal modo di un margine di libertà che trent’anni prima, sotto il dominio austriaco, sarebbe stato inimmaginabile.

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Apertura della ferrovia del San Gottardo (23 maggio 1882) da “Centotrentanni della Società Svizzera di Milano”, a cura di Renata Broggini, Jean Pierre Hardegger, Marino Viganò, Hoepli-Seb editrice 2013

L’aumento del fenomeno associativo era dovuto in secondo luogo al proliferare di una classe piccolo borghese bisognosa di spazi in cui condividere i propri hobby. A ben vedere, la formazione di società di questo tipo non riguardava solo i milanesi ma anche i tanti stranieri che, stabiliti a Milano per ragioni di lavoro, desideravano ritrovarsi nel tempo libero e condividere l’amore per la patria lontana. La Società Svizzera di Milano costituiva a tal proposito un caso emblematico. Fondata il 15 dicembre 1883, riuniva al suo interno le associazioni elvetiche esistenti in città. La data di nascita non fu casuale: il sodalizio nasceva infatti per aiutare i cittadini della Confederazione che, in seguito all’apertura della linea ferroviaria del San Gottardo (1882), giungevano numerosi a Milano dai cantoni di lingua tedesca in cerca di lavoro.

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Il volume pubblicato dalla Società Svizzera di Milano

L’anno scorso la Società Svizzera ha pubblicato un bel volume per festeggiare i 130 anni della sua attività. Il libro, Centotrentanni della Società Svizzera di Milano 1883-2013 (curato da Renata Broggini, Jean Pierre Hardegger e Marino Viganò, Hoepli-Seb Editrice 2013) prende in esame la storia del sodalizio mediante il ricorso ai preziosi documenti conservati dalla Società.

Ulrico Hoepli
Ulrico Hoepli

Tra i primi soci troviamo i nomi di tante personalità che diedero lustro a Milano. E’ il caso soprattutto di Ulrico Hoepli, presidente della Società Svizzera dal 1886 al 1889, fondatore della celebre libreria oggi in piazzale Meda. Originario del villaggio di Tuttwill (nel cantone di Turgovia), giunse a Milano all’età di 23 anni. Fissata la prima attività nel campo editoriale in Galleria De Cristoforis, Hoepli divenne famoso per aver fondato l’omonima casa editrice che pubblicò una fortunata serie di manuali nei più svariati campi delle scienze e delle arti.

Fu Hoepli a trovare i primi locali alla Società Svizzera: quattro stanze prese in affitto in via Silvio Pellico 6 con vista su piazza del Duomo. Qui il sodalizio tenne le riunioni dal 1886 al 1914, quando l’aumento dei soci rese necessario l’acquisto di una casa in via Disciplini 11, nel sestiere di Porta Ticinese. Il trasferimento nel nuovo stabile fu però contrastato. Oggi via Disciplini è una tranquilla strada del centro la cui importanza si collega al suo tracciato peculiare: assieme alla parallela via Cornaggia, essa infatti mostra tuttora alcuni ruderi delle antiche mura romane. La situazione era ben diversa nei primi anni del Novecento: l’isolato faceva discutere perché di fronte all’edificio acquistato dalla Società Svizzera si trovava una casa di tolleranza la cui fama non era certo legata a iniziative nel campo dello sport o della cultura. La decisione di trasferirsi in quella via provocò quindi un certo disaccordo tra i membri del sodalizio, sollevando polemiche che culminarono nell’abbandono di 30 soci. La Società Svizzera seppe tuttavia guadagnarsi nel tempo la simpatia dei milanesi, dando vita a tante iniziative che contribuirono a migliorare le condizioni dell’isolato.

La bandiera del "Mannerchor", 1887 da "Centrotrentanni della Società Svizzera di Milano"
La bandiera del “Mannerchor”, 1887 da “Centrotrentanni della Società Svizzera di Milano”

Negli anni Venti e Trenta la Società Svizzera era formata dalle Sezioni più antiche: il gruppo dello Schweizer Gesangverein (esistente dal 1869) riuniva i cultori dei canti patriottici immersi nell’atmosfera romantica di Friedrich Schiller e Wilhelm Tell. Gli appassionati del gioco dei birilli o Kegelspiel (dal 1875) contribuirono a far conoscere ai milanesi uno sport tipico della Svizzera che può essere considerato – nonostante alcune differenze nel regolamento di gioco – l’antenato del bowling britannico. V’era poi la Sezione Ginnasti (1874) che riuniva giovani sportivi legati in amicizia con la milanese “Forza e Coraggio”. La sezione Tiratori (1889) consentì di mantenere vivo a Milano l’amore per un altro sport di origine svizzera. Nel 1914 venne costituita la Sezione Signore su iniziativa di Sophie Vonwiller: nata poco dopo lo scoppio della Grande Guerra, questa sezione procurò il vestiario ai soldati in partenza per il fronte.

La Società Svizzera ebbe sede in via Disciplini fino alla seconda guerra mondiale, quando i bombardamenti spinsero il sodalizio a cercare un altro edificio. Nel 1951, grazie al sostegno della Confederazione, venne inaugurata la parte bassa dell’attuale sede in piazza Cavour. Si tratta di un complesso imponente, costruito dagli architetti Armin Meili di Zurigo (1892-1981) e Giovanni Romano (1905-1990) per ospitare le istituzioni elvetiche: oltre alla Società Svizzera, vi hanno sede oggi il Consolato generale, la Camera di Commercio e l’Ufficio nazionale svizzero del turismo. Nel 1952 venne ultimata la torre tra piazza Cavour e via del Vecchio Politecnico: un edificio di 20 piani, alto 78 metri, che costituiva a quell’epoca il più alto grattacielo di Milano.

Babbo Natale scrive ai bambini Tolkien nel duro inverno 1931

John Ronald Reuel Tolkien (1892-1973) non è stato solo il grande romanziere fantasy de Il Signore degli Anelli e Lo Hobbit che molti di noi conoscono. E’ stato un brillante professore di storia, esperto di letteratura medievale inglese.

John Ronald Reuel Tolkien da www.tolkien.it
John Ronald Reuel Tolkien da www.tolkien.it

A molti potrà sembrare il profilo di uno studioso immerso negli studi, lontano dalla realtà. Nulla di più sbagliato. Tolkien seguì attentamente gli eventi del suo tempo. Partecipò alla prima guerra mondiale prendendo parte nel marzo 1916 alla sanguinosa battaglia sul fronte della Somme come ufficiale segnalatore nell’esercito britannico.

Nel primo dopoguerra fu professore ad Oxford di Lingua e Letteratura anglosassone ma l’attività accademica non gli impedì di assistere con preoccupazione ai gravi eventi economici e politici che si susseguirono negli anni Venti e Trenta del secolo scorso.

Nel periodo natalizio Tolkien era solito spedire ai suoi nipoti lunghe lettere di auguri calandosi nei panni di Babbo Natale.

Per farti gli auguri di Natale ho scelto il passo di una lettera spedita dal professore inglese il 23 dicembre 1931. Due anni dopo il crollo di Wall Street, quando la crisi economica si era estesa ormai all’Europa gettando nella povertà milioni di persone, Babbo Natale scrisse ai bambini Tolkien:

“Cliff House, North Pole

My dear children,

babbo-verde
Babbo Natale da www.brand-identikit.it

I hope you will like the little things I have sent you. You seem to be most interested in railways just now, so I am sending you mostly things of that sort. I send as much love as ever, in fact more. We have both, the old Polar Bear and I, enjoyed having so many nice letters from you and your pets.

If you think we have not read them you are wrong, but if you find that not many of the things you asked for have come, not perhaps quite as many as sometimes, remember that this Christmas all over the world there are a terrible number of poor and starving people. I (and also my green brother) have had to do some collecting of food and clothes and toys too for the children whose fathers and mothers and friends cannot give them anything, sometimes not even dinner.

I know yours won’t forget you. So, my dears, I hope you will be happy this Christmas do not quarrel, you will have some good games with your railway all together.

Don’t forget old Father Christmas when you light your tree”.

Nelle difficili condizioni economiche in cui versa l’Europa – in particolare l’Italia – credo che questa lettera ci consente di comprendere lo spirito di quei tempi, purtroppo non molto diversi da quelli attuali.

Padre Gemelli e le finalità dell’Università Cattolica

Riprendiamo la storia dei chiostri di Sant’Ambrogio. Cominciamo da una data precisa: il 30 ottobre 1932. In quel giorno l’antico monastero divenne sede dell’Università Cattolica del Sacro Cuore. In realtà, l’ateneo esisteva già da alcuni anni: la data di nascita risale al 7 dicembre 1921.

Padre Gemelli, Olgiati, Necchi
Monsignor Francesco Olgiati, padre Agostino Gemelli, Ludovico Necchi in una foto del 1919. Foto Masha Sirago

La fondazione dell’Università Cattolica fu dovuta all’incrollabile forza di volontà del francescano Agostino Gemelli (al secolo Edoardo, 1878-1959). Un vivace gruppo di intellettuali cattolici lo aiutò nella realizzazione di questa impresa: monsignor Francesco Olgiati, Armida Barelli, Ludovico Necchi, il conte Ernesto Lombardo.

Padre Agostino Gemelli in una foto dei primi anni del Novecento. Da http://stelleincielofratellosolesorellaluna.blogspot.it/2013/05/padre-agostino-gemelli-ofm-fondatore.html
Padre Agostino Gemelli in una foto dei primi anni del Novecento. Da http://stelleincielofratellosolesorellaluna.blogspot.it/2013/05/padre-agostino-gemelli-ofm-fondatore.html

I chiostri di Sant’Ambrogio erano familiari da tempo al fondatore. Qui Edoardo aveva passato una parte della giovinezza. Nel 1902, appena laureato in medicina, vi trascorse il periodo del servizio militare con l’incarico di curare i soldati rimasti gravemente feriti. In quei cortili Gemelli, che si era allontanato dalla pratica religiosa fin dagli anni del liceo, sentì rinascere la fede grazie ad alcuni amici e all’incontro con i francescani dediti alla cura dei malati. L’anno dopo giunse – improvvisa – la vocazione religiosa: Edoardo entrò nell’ordine di San Francesco alla fine del 1903 nonostante la forte contrarietà dei genitori, i quali non esitarono a sostenere una campagna giornalistica per evitare che il figlio entrasse in convento.

Torniamo all’Università Cattolica. Quali furono le ragioni che spinsero padre Gemelli e i suoi collaboratori a fondarla nel 1921? Possiamo affermare anzitutto che la situazione dei cattolici italiani non era allora particolarmente critica. Le riserve della classe politica nazionale nei loro confronti erano cadute in gran parte: durante la prima guerra mondiale i cattolici si erano dimostrati leali servitori dello Stato; nel dopoguerra  don Luigi Sturzo fondò un partito cattolico che aveva consentito alle masse una larga partecipazione alla vita politica dopo anni di distacco. Deputati cattolici erano addirittura al governo del Paese. La fondazione dell’Università Cattolica costituiva in fondo il coronamento di un percorso di avvicinamento all’alta cultura scientifica – nazionale e internazionale – che era stato assai lungo e tormentato.

Godefroid Kurth (1847-1916). Photo Institut Jules-Destrée (Droits SOFAM)
Godefroid Kurth (1847-1916). Photo Institut Jules-Destrée (Droits SOFAM)

Vent’anni prima, negli ultimi anni dell’Ottocento i cattolici italiani godevano in Europa di un credito assai limitato nel campo degli studi. Alcuni intellettuali, essi stessi cattolici, li consideravano addirittura una massa di ignoranti. Al congresso internazionale degli scienziati cattolici tenuto a Friburgo tra il 16 e il 20 agosto 1897, lo storico belga Godefroid Kurth rivolse critiche spietate. A chi proponeva di scegliere Roma per la riunione degli scienziati da tenersi l’anno successivo egli rispose: “Il nostro è un congresso scientifico. Ora io vi domando: ci vien forse da Roma e dall’Italia la luce scientifica? Dove sono le sue alte scuole, i suoi istituti, le sue pubblicazioni?”.  L’analisi del Kurth fotografava in modo impietoso lo stato della cultura cattolica italiana alla fine dell’Ottocento ma era ancora valida per certi versi nel primo ventennio del Novecento.

Si capisce quindi come l’Università Cattolica fosse stata fondata al fine di sanare la mancanza di cultura scientifica nei cattolici italiani. Non fu un caso se l’ateneo venne stabilito a Milano, città più aperta al progresso e alla modernità rispetto a Roma. Le prime facoltà furono Filosofia e Scienze sociali. Come ricordava padre Gemelli in un discorso degli ultimi anni, le finalità dell’ateneo alle sue origini erano due:

Padre Gemelli
Padre Agostino Gemelli da http://www.studisemeriani.it/archives/3228.

“Nacque la nostra Università con questo duplice programma: innanzitutto preparare all’Italia giovani cattolici in guisa che essi potessero diventare attivi membri della comunità sociale; in secondo luogo, ma non come compito secondario bensì principale, elaborare le dottrine alle quali questi giovani debbono richiamarsi nella loro azione; difatti ciò di cui il mondo ha bisogno sono soprattutto le idee”.  Egli fornì agli studenti una preparazione scientifica informata ai severi standard delle università belghe e tedesche. L’Università Cattolica doveva essere la prova che in Italia scienza e fede non erano inconciliabili.

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